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				 manifestazioni 
                  
                Forconi d'Italia la piazza s'è desta 
                  
                di Maria Matteo e di Andrea Papi / foto AFA - Archivi Fotografici Autogestiti 
                  
                Bandiere italiane al vento, rifiuto della politica, basta 
                    pagare le tasse, no al signoraggio delle banche, Europa merda, 
                    ecc. 
                    E anche (a volte) basta immigrati. E occhio agli ebrei. 
                    Eppure a sinistra c'è chi ha creduto di poterli “cavalcare”. 
                  
                 
 La grande paura 
                   
                  di Maria Matteo 
                   
                Torino. È qui che il movimento dei forconi ha fatto più casino. E che una parte dell'estrema sinistra....   
                Era la fine di luglio del 1789, pochi giorni dopo la caduta della Bastiglia. Le campagne francesi, piegate dalla carestia, vennero attraversate da un'ondata di panico. Tra i contadini si diffuse la convinzione che l'aristocrazia avesse ordito un complotto ai loro danni. Questa convinzione non aveva reale fondamento, tuttavia il diffondersi di questa voce, che passando di paese in paese si amplificò, fu all'origine di un moto insurrezionale molto ampio. 
Un vecchio ma importante studio dello storico francese Georges Lefevre La grande paura del 1789 ricostruisce i fatti di quell'estate. Lo storico rilevò che la carestia ingigantiva il timore di attacchi di briganti. La rivoluzione aveva suscitato grandi speranze: nel timore che venissero frustrate dalle resistenze nobiliari, briganti e vagabondi venivano considerati strumenti di un complotto aristocratico la cui reale consistenza e pericolosità fu sopravvalutata dai contadini. 
La “grande paura” fu, quindi, un fenomeno di suggestione collettiva destinato ad amplificarsi via via che si propagava. Con una ricerca minuziosa Lefebvre dimostrò il carattere spontaneo e non premeditato della sollevazione. I contadini, armatisi in un primo tempo contro un pericolo illusorio, si spostarono poi su un fronte di lotta di classe ben più reale assaltando i castelli dei nobili e distruggendone gli archivi. La “grande paura” si trasformò così in una reazione punitiva contro l'aristocrazia, che portò all'abolizione dei diritti feudali. 
Lessi il libro di Lefevre diversi anni fa e, contrariamente ad altre letture presto dimenticate, le suggestioni che me ne derivarono sono rimaste molto forti. La rivoluzione delle campagne francesi, dove certo nessuno aveva letto né Voltaire né Rousseau, fu un fenomeno reattivo. La miseria delle campagne non sarebbe bastata a fare da detonatore, mentre la diceria di un complotto aristocratico per affamare i contadini, vendendo all'estero il grano, portò all'assalto di castelli e abbazie. In assenza di un immaginario utopico, la paura del peggio diventa esplosiva. 
Il timore che la ferocia dell'oppressione nelle campagne potesse peggiorare, il timore della reazione, fece scattare la rivoluzione. L'idea di un complotto per realizzare obiettivi abietti, come impadronirsi del mondo, non importa che sia vera, conta invece che sia credibile, che dia senso, all'interno di un orizzonte culturale dato, ad una situazione ritenuta intollerabile e passibile di ulteriore peggioramento. 
Quando sei o credi di essere sull'orlo del baratro hai ancora qualcosa da perdere e temi la spinta che ti butterà giù. 
                  Solo per le partite della Nazionale... 
                Mi è capitato di ripensare alle pagine di Lefevre nei giorni immediatamente 
                  successivi alla settimana dei “forconi”. 
                  La paura mi è parsa il detonatore potente che ha portato 
                  in strada gente che non c'era mai stata né mai aveva 
                  pensato di andarci. 
                  La paura di perdere lo spicchio di futuro al quale si pensava 
                  di avere diritto, la paura di un moloch che ingoia tutto, un 
                  blob amorale e affamato. Un grande complotto dove le banche 
                  e la casta politica sono i nemici del popolo, il popolo inteso 
                  come insieme delle persone perbene, dove non c'é distinzione 
                  tra sfruttati e sfruttatori. Chi lavora e chi sfrutta il lavoro 
                  stanno sulla stessa barca. 
                  Nella sinistra torinese si è sviluppato un dibattito 
                  molto ampio, spesso anche aspro. Diversamente ad altre città 
                  italiane a Torino era difficile che il mestolo stesse in mano 
                  alla destra cittadina. A Torino sia la destra istituzionale 
                  – Fratelli d'Italia – sia chi – come Forza 
                  Nuova e CasaPound – vive nel limbo tra istituzioni e velleità 
                  rivoluzionarie – non avrebbero un peso e una capacità 
                  organizzativa tali da poterlo fare. 
                  Un fatto è certo: nelle piazze di Torino e dintorni i 
                  fascisti si sono fatti vedere più volte accolti dagli 
                  applausi della gente. Come è certo che buona parte delle 
                  tifoserie torinesi, ben presenti nei giorni più caldi, 
                  siano ormai da lunghi anni egemonizzate dall'estrema destra. 
                  Da che ho memoria le piazze di Torino pavesate di tricolori 
                  le avevo viste solo per le partite della nazionale di calcio. 
                  Vedere studenti, disoccupati e mercatari con la bandiera tricolore, 
                  non era cosa di tutti i giorni. Non solo. Le serrate dei mercati 
                  e dei negozi, i blocchi delle strade e dei mercati generali, 
                  l'occupazione delle stazioni, la sassaiola al Palazzo della 
                  Regione avevano un carattere esplicitamente eversivo. Sui siti 
                  del “coordinamento 9 dicembre” si parlava di “rivoluzione”, 
                  “tutti a casa”, “via il governo”, “fase 
                  di transizione con militari al timone”. Roba forte. 
                  La protesta contro la pressione fiscale, che aveva segnato qualche 
                  settimana prima le lotte dei mercatari, resta sullo sfondo: 
                  chi scende in piazza non si accontenta di uno sconto sulle tasse, 
                  vuole dare il giro a tutto, farla finita con la “casta” 
                  politica che si ingrassa sulle fatiche di chi lavora. Il governo 
                  aveva intuito che in pentola c'era un minestrone molto piccante. 
                  La settimana precedente quella del 9 dicembre l'esecutivo guidato 
                  da Enrico Letta ha concesso tutto quello che volevano alle organizzazioni 
                  degli autotrasportatori, che avevano proclamato una settimana 
                  di sciopero e blocchi per protestare contro l'aumento delle 
                  accise e delle tasse. Dal canto suo la Coldiretti ha organizzato 
                  la manifestazione al Brennero, dove venivano bloccati e perquisiti 
                  i camion con la benedizione del ministro. 
                  Queste mosse hanno tagliato le gambe alla protesta del “Coordinamento 
                  9 dicembre”, allontanando lo spettro di un blocco nazionale 
                  analogo a quello che l'anno precedente aveva paralizzato la 
                  Sicilia. Queste abili giocate non sono bastate ad impedire che 
                  la protesta avviluppasse Torino, con un'eco profonda che ha 
                  scosso la città. 
                  I protagonisti delle giornate di dicembre sono i figli del deserto 
                  sociale degli ultimi trent'anni. Gente che credeva di avere 
                  ancoraggi e certezze e oggi si trova sospesa sul nulla. 
                  Con i compagni a me più vicini abbiamo tentato un'analisi 
                  di questo movimento, della sua natura popolare, periferica, 
                  perché avvertivamo forte la necessità di capire 
                  e intervenire per poter fermare l'onda lunga di destra che ha 
                  messo a loro disposizione un lessico comune, una chiave di lettura 
                  e un orizzonte progettuale. 
                  I protagonisti di quelle giornate sono ceti impoveriti e rancorosi: 
                  l'Italia delle clientele prima democristiane e socialiste, poi 
                  forza italiote, oggi piegata dalla crisi, dalla pressione fiscale, 
                  dall'indebolirsi della compagine berlusconiana e della Lega, 
                  partiti politici di riferimento per oltre vent'anni. 
                  Il loro programma – esplicitamente delineato nei volantini 
                  tricolori distribuiti in ogni dove – era chiaro: far cadere 
                  il governo, sostituirlo con un esecutivo forte e onesto, capace 
                  di traghettare l'Italia fuori dall'euro, fuori dall'Europa delle 
                  banche, garantendo significative misure protezioniste. 
                  Il tutto all'insegna di una deriva identitaria di segno nazionalista 
                  dove la nazione è descritta e vissuta come un corpo sano 
                  attaccato da agenti esterni che si ricompone intorno all'alleanza 
                  interclassista dei produttori. 
                  Un programma di destra. Di destra radicale. La retorica dei 
                  lavoratori della polizia, sfruttati e vittime di una classe 
                  politica corrotta e parassitaria, ne è il degno corollario. 
                  Siamo andati nelle piazze e nei bar ad ascoltare e capire il 
                  vento che stava cambiando, perché in periferia, tra i 
                  mercati e le strade attraversate dai cortei per l'ordine e la 
                  legalità, tra la gente che fatica a campare e non vede 
                  prospettive, ci siamo da anni. Da anni sappiamo che l'incapacità 
                  di parlare con gli italiani poveri, quelli che guardano con 
                  simpatia alla destra xenofoba e razzista, quelli che avevano 
                  qualcosa e ora hanno solo paura, avrebbe aperto la strada a 
                  chi predica il governo forte, la polizia ovunque, la nazione 
                  contro la globalizzazione, l'unione degli italiani, sfruttati 
                  e sfruttatori contro il grande complotto internazionale delle 
                  banche. Oggi lo chiamano signoraggio: non puntano il dito sugli 
                  ebrei* ma la melodia della 
                  canzone è la stessa dagli anni Trenta del secolo scorso. 
                  Gli stranieri di seconda generazione che sventolavano il tricolore 
                  con i loro colleghi del mercato non ci stupiscono: li abbiamo 
                  visti inveire contro altri stranieri, ultimi arrivati che “delinquono”. 
                  Molti di loro assumono giovani connazionali poveri e li sfruttano 
                  senza pietà così come gli italiani doc. Il gioco 
                  del capitalismo ha le stesse regole feroci ad ogni latitudine. 
                  Non conta il colore della pelle ma solo quello dei soldi. 
                  
                  Ma chi è contro il “sistema” è un nostro alleato? 
                Sono anni che la sinistra radicale si chiede le ragioni di un'assenza incomprensibile. 
                  Il conflitto sociale, nonostante la dura materialità 
                  che schiaccia le vite di tanti, langue. I movimenti di controglobalizzazione 
                  dal basso che avevano segnato il primo scorcio del secolo si 
                  sono infranti nell'incapacità di radicare il conflitto 
                  nei territori, di dare fiato ad un programma incompatibile con 
                  l'ordine esistente. 
                  Di fronte ai forconi c'é chi ha teorizzato la necessità 
                  di mescolarvisi, per capire e riorientare le piazze. A Torino 
                  parte della sinistra radicale si è crogiolata nell'illusione 
                  che la gente in piazza fosse priva di capi, di organizzazione, 
                  di reale comprensione delle ragioni che li avevano condotti 
                  lì. Una creta che chiunque avrebbe potuto plasmare e 
                  dirigere. Qualcuno ha carezzato invece il sogno di poter governare 
                  o alimentarsi delle jacquerie. È ingeneroso sostenere 
                  che la gente “comune” che ha partecipato alle serrate 
                  dei negozi e ai blocchi del traffico non capisse la portata 
                  simbolica e reale di un movimento esplicitamente eversivo dell'ordine 
                  esistente. 
                  È la solita miscela di orgoglio intellettuale e arroganza 
                  che ha accecato la sinistra – sia quella radicale che 
                  di governo – in tutti questi anni. 
                  Arroganza della ragione nella convinzione che la povertà 
                  della narrazione che ha sostenuto le piazze dei “forconi” 
                  potesse essere facilmente reindirizzata altrove. I tentativi 
                  di spostare le piazze, di spingerle verso azioni più 
                  radicali non hanno funzionato. Sappiamo bene quanta forza abbiano 
                  i momenti di rottura, la scelta di uscire di casa, di spezzare 
                  l'ordine che ci piega alla quotidianità scandita dai 
                  ritmi di una vita regolata altrove, tuttavia in quelle piazze 
                  questa forza si è alimentata di simboli che portano lontano 
                  da una prospettiva di emancipazione sociale e di libertà. 
                  L'interruzione della quotidianità agita da chi normalmente 
                  affida il proprio futuro all'eterna ripetizione del proprio 
                  presente è un evento raro, talora foriero di una rottura 
                  radicale. Tuttavia la rottura di un ordine non prefigura necessariamente 
                  che la strada intrapresa sia quella desiderata da chi vorrebbe 
                  libertà e uguaglianza. 
                  È vecchia ma dura a morire l'attitudine a ritenere che 
                  chiunque esprima contenuti antisistema possa essere nostro compagno 
                  di viaggio. È lo stesso schema che ha portato a sostenere 
                  le peggiori dittature, i regimi più feroci nel segno 
                  dell'unità antimperialista. 
                  La sinistra civilizzata, nei periodi in cui è riuscita 
                  a saltare in sella al destriero governativo ha garantito la 
                  vita facile alla grande industria, facilitando la demolizione 
                  mattone su mattone di ogni forma di tutela per il lavoratori 
                  dipendenti e collaborando attivamente nella trasformazione di 
                  tanti di loro in lavoratori indipendenti ma di fatto subordinati. 
                  In tempi di crisi il popolo delle partite IVA si ritrova nella 
                  stessa condizione dei mercatari torinesi cui il comune chiede 
                  500 euro al mese per la pulizia dei mercati. A tutti questi 
                  si aggiungono i tanti giovani – uno su quattro dicono 
                  le statistiche – che non hanno né un lavoro né 
                  un percorso formativo. Per non dire dei ragazzi degli istituti 
                  professionali che sanno di essere parcheggiati in attesa di 
                  disoccupazione. 
                  Nelle piazze torinesi animate dal popolo delle periferie, quello 
                  cresciuto tra facebook e il bar sport, si sono ritrovati quelli 
                  dei banchi dei mercati, qualche disoccupato, i ragazzi degli 
                  istituti professionali. Il loro referente politico negli ultimi 
                  vent'anni li aveva recuperati in extremis con la promessa di 
                  cancellare l'IMU. Ora non ci crede più nessuno: sempre 
                  più gente che credeva di avercela fatta, di essere passata 
                  dal popolo degli affittuari al piano alto dei proprietari, teme 
                  di perdere tutto, di affondare nella melma. Fratelli e figli 
                  del berlusconismo, rimasti orfani, temono il nulla. Temono che 
                  la fame dell'altro mondo non si fermi oltre le frontiere della 
                  Fortezza Europa, hanno imparato di non avere né tutele 
                  né garanzie. Le regole del gioco sfuggono, come sfugge 
                  che il ruolo degli stati nell'economia si è rafforzato. 
                  Non credono nell'eguaglianza, ma nel merito e si sentono defraudati 
                  da un sistema che li esclude. I figli degli immigrati di ieri, 
                  che lavorano al mercato con padri e madri, sanno che il benessere 
                  conquistato dai genitori per loro non c'è. Tra chi sta 
                  al banco della frutta ci sono giovani laureati che vivono la 
                  vita dei poveri istruiti ma senza appoggi: precarietà, 
                  call center, umiliazioni sono pane quotidiano. Sono gonfi di 
                  rabbia. Li ho sentiti gridare nei bar, al mercato, la paura 
                  gli urla dentro. 
                  Il complotto delle banche spiega tutto, risolve tutto. La destra 
                  estrema li ha generati solo in parte ma se ne alimenta: il sogno 
                  della sovranità monetaria, l'immagine dell'Italia come 
                  fortezza chiusa, il governo forte ed onesto, la polizia che 
                  difende i giusti, le bandiere al vento. Non è avvenuto 
                  per caso e non successo in un giorno. 
                  La sinistra non ha saputo emanciparsi dall'illusione di una 
                  ricostruzione del welfare, dello stato che tutela, della governabilità 
                  del capitalismo, dell'attenuazione della sua ferocia. 
                  Che significato poteva avere la debolissima difesa dell'articolo 
                  18 dello Statuto dei lavoratori per i giovani precari che fanno 
                  gli apprendisti a 29 anni e a 30 sono per strada? 
                  La frantumazione sociale costruita scientemente negli ultimi 
                  trent'anni ci consegna un quadro dove la solidarietà 
                  non trova le proprie basi materiali, dove l'aspirazione ad un 
                  oltrepassamento dell'istituito in senso di uguaglianza e libertà 
                  non ha il potere seduttivo necessario. 
                  La crisi evidente della seconda repubblica, il disfacimento 
                  della classe politica, sta poco a poco raggrumandosi in un'onda 
                  reattiva e rivoluzionaria. Difficilmente oggi potrà assumere 
                  la forma del fascismo storico, tuttavia la forza che la spinge 
                  è potente. Si alimenta dell'idea di un complotto inesistente 
                  ma più semplice da comprendere delle reali dinamiche 
                  della finanziarizzazione dell'economia. Il padrone, che grazie 
                  alla finanza non possiede più nulla di materiale e può 
                  con leggerezza muovere le proprie pedine, diventa la parte sana 
                  da difendere, contro le mani invisibili che usano tutti, sfruttati 
                  e sfruttatori, come burattini. 
                  Sentiremo ancora parlare dei forconi. Il loro coordinamento 
                  cialtrone si è spezzato e sfaldato ma la paura, la grande 
                  paura che ha riempito le piazze della città vetrina della 
                  sinistra perbene, continua a urlare nelle periferie, tra i banchi 
                  dei mercati, tra i ragazzi senza futuro. 
                 Maria Matteo 
				* Ma c'è chi l'ha fatto. Andrea 
                  Zunino, uno dei leader dei Forconi, in un'intervista a la Repubblica 
                  del 13 dicembre scorso, ha affermato: “Vogliamo le dimissioni 
                  del governo. Vogliamo la sovranità dell'Italia, oggi 
                  schiava dei banchieri, come i Rotschild: è curioso che 
                  5 o 6 tra i più ricchi del mondo siano ebrei, ma è 
                  una cosa che devo approfondire. Non ho le prove. Ma penso che 
                  Hitler, che probabilmente era pazzo, si sia vendicato con l'antisemitismo 
                  del voltafaccia dei suoi iniziali finanziatori americani. Personalmente 
                  non mi interessa”. 
                 
                     
                 Il fallimento 
                  della democrazia 
                   
                  di Andrea Papi  
                Sarebbe errore gravissimo limitarsi a ridurre il 
                tutto a mero incombente estremismo di destra. Vorrebbe dire non 
                saper leggere cosa monta dal basso per lo sconforto e le frustrazioni 
                sociali che siamo costretti a subire.  
                Guardando da un'angolatura libertaria 
                  ciò che sta succedendo appare chiaro che le istituzioni 
                  statali si comportano da nemiche. Non difendono i cittadini 
                  né li tutelano, come vorrebbe l'illusione liberaldemocratica. 
                  Le continue ingiustizie e vessazioni propinate con sistematica 
                  maniacalità, oltre a sapere di sadismo istituzionale, 
                  sortiscono invariabilmente l'effetto di rovinare tantissime 
                  vite, mentre aumentano benessere e ricchezza di un'esigua minoranza 
                  al contrario coccolata nei suoi privilegi. 
                  Costretto in questa fase da sistemi di potere sovrastatali, 
                  l'apparato statale è ulteriormente indotto a vessare 
                  gli esclusi da ogni potere in favore della ristretta cerchia 
                  dell'oligarchia globale dominante. È una dimostrazione 
                  efficiente, offerta con dovizia dallo sfacelo imperante, che 
                  lo stato non “siamo noi”, come amavano sostenere 
                  i tecnoburocrati dell'estinto Pci, e che non si fonda affatto 
                  sull'erogazione dei servizi, come continua a sostenere la nomenclatura. 
                  Da questa condizione diffusa vengono alla luce i cosiddetti 
                  “forconi”, ultimo fenomeno di rivolta sul quale 
                  non ci son poi da spender troppe parole. Si tratta dell'ennesima 
                  reazione dal basso, a tratti disperata e rabbiosa, da parte 
                  di uomini e donne che non ne possono più, socialmente 
                  impoveriti e deturpati da una politica spietata, espressione 
                  criminale di un'assillante oppressione finanziaria. Piccoli 
                  imprenditori, lavoratori autonomi, camionisti in grossa difficoltà 
                  economica per la crisi incombente e per l'insopportabile pressione 
                  fiscale, hanno inizialmente dato avvio a forme di proteste che 
                  nelle intenzioni dichiarate vorrebbero essere avulse dalle classiche 
                  violenze di piazza. 
                  In breve si è accodata un'umanità varia, fatta 
                  di disperati sociali, di operai senza lavoro, di gente ai margini, 
                  di incazzati contro l'esistente. Di ragioni ne hanno tutti ben 
                  d'onde, sia chiaro. Una tale abbondanza di persone, giustamente 
                  furenti contro il politicantismo dominante, è stata da 
                  subito un piatto succulento per un'ampia congerie di fanatismi 
                  di un dilagante autoritarismo destrorso. Invogliata, ha trovato 
                  fin troppo spazio l'accozzaglia di un impenitente fascistume 
                  ingrassato ai margini dello scontento sociale, favorito ampiamente 
                  da contenuti anonimi e generici, conditi di stereotipi antisistema 
                  privi di proposivitività. 
                  Ci hanno poi pensato i fascistoidi entrati in azione a condire 
                  la pietanza già pronta con la bandiera italiana unica 
                  ammessa, slogan nazionalisti, inno di Mameli colonna sonora 
                  delle manifestazioni… e via di questo passo “nazional/popolare”, 
                  che in varie occasioni ha avuto il sapore di nostalgie ducesche. 
                  È sicuramente per questa assillante presenza identitaria 
                  che l'annunciata “marcia su Roma” del 19 dicembre 
                  si è dimostrata un fallimento, senza due leader fondatori, 
                  Ferro siciliano e Chiavegato veneto, che non hanno avuto lo 
                  stomaco di trovarsi attorniati dalla marmaglia fascista di CasaPound, 
                  ben accetta invece dal leader dei forconi del Lazio Danilo Calvani. 
                  
                  Il comico ed esilarante teatrino della politica 
                  Sarebbe errore gravissimo limitarsi a ridurre il tutto a mero 
                  incombente estremismo di destra. Vorrebbe dire non saper leggere 
                  cosa monta dal basso per lo sconforto e le frustrazioni sociali 
                  che siamo costretti a subire. Che sia una protesta praticamente 
                  vuota di contenuti e proposizioni alternative, limitantesi a 
                  minacciare di far piazza pulita del parlamento volendone azzerare 
                  le “onorevoli” presenze (per sostituirle con chi 
                  e cosa non si sa), è un dato di fatto. 
                  Sbaglieremmo però se supponessimo che si tratti meramente 
                  di destra extraistituzionale, dal momento che è una rivolta 
                  sorta per le devastanti condizioni sociali cui siamo costretti. 
                  Se i forconi a breve esauriranno la loro propulsione fino a 
                  scomparire, come molti elementi inducono a pensare, nulla sarà 
                  veramente finito, proprio perché le condizioni sociali 
                  e politiche che li hanno alimentati sono vive più che 
                  mai. Sorgerà qualcos'altro di simile che propugnerà 
                  di disintegrare l'ingrato esistente. 
                  Al contempo la vicenda dei forconi evidenzia che destra e sinistra, 
                  categorie interpretative della politica, sono ormai svuotate 
                  di significato. Da un pezzo non rappresentano più visioni 
                  della società l'un l'altra alternative, ma mere collocazioni 
                  di schieramento politico. Oggi sono soltanto due espressioni 
                  speculari di una volontà di dominio tesa soprattutto 
                  ad annientare l'autonomia, sia degli individui sia degli insiemi 
                  comunitari. 
                  Conseguenza della profonda crisi della democrazia rappresentativa, 
                  che sta viaggiando verso derive fallimentari, nei contenuti 
                  di volta in volta più poveri delle varie rivolte sono 
                  ormai annullate le differenze distintive, mentre la sovversione 
                  tende ad essere incanalata in un unicum indistinto e privo di 
                  sbocchi. Destra e sinistra hanno infatti senso, sia concreto 
                  sia teorico, dentro dinamiche autentiche all'interno dei processi 
                  politici. Nel momento in cui, per spinte autodistruttive, la 
                  democrazia si consuma fino ad annichilirsi in un impoverimento 
                  a tratti farsesco, tendono a scomparire anche le differenze 
                  di senso che la caratterizzavano. 
                  Basti guardare il comico ed esilarante teatrino del politicantismo 
                  di casa nostra. Valga per tutto il dibattito politico sulle 
                  regole della democrazia, in particolare sul tipo di elezione 
                  da adottare dopo che la Corte Costituzionale ha sentenziato 
                  che il “porcellum” in vigore è illegittimo 
                  perché non costituzionale. Giù allora a prender 
                  foga uno sciame di esperti, sostenendo gli uni che il parlamento 
                  attuale è legittimo gli altri che non lo è affatto, 
                  con tanto di scontri nelle “sacre” aule parlamentari. 
                  Spettatori divertiti da tanta efferata inconcludenza, ci limitiamo 
                  a suggerire che il problema sta a monte. È l'impianto 
                  nel suo complesso e il senso stesso della democrazia rappresentativa 
                  che fanno acqua da tutte le parti. 
                  Se l'anarchismo vuol essere incisivo... 
                  
                La sua applicazione mostra invariabilmente un'intrinseca inadeguatezza 
                  politica. Come fa ad esser rappresentativa una compagine senza 
                  mandato che, al di là delle roboanti dichiarazioni, nei 
                  fatti rende conto alle oligarchie dominanti, alle lobbie di 
                  potere, a chi ha l'egemonia finanziaria e militare, non a chi 
                  la elegge? Le sue promesse originarie, scaturenti dai principi 
                  addotti e dalle affermazioni costituzionali su cui dovrebbe 
                  fondarsi, non corrispondono affatto alla risultante dei suoi 
                  atti. Totalmente affidata alle interessate dirigenze dei partiti, 
                  clientelari e facilmente spinte da tensioni ideologiche, la 
                  democrazia rappresentativa applicata ha tradito se stessa. In 
                  breve si è trasformata in una non democrazia. Estorce 
                  il consenso a comandare per poi escludere il corpo elettorale 
                  dall'area e dalle possibilità delle decisioni che tutti 
                  ci riguardano. Ridotta a un inganno istituzionalizzato oggi 
                  è di fatto al servizio delle lobbies di dominio globali. 
                  Proprio lo stato comatoso della democrazia applicata dimostra 
                  il non senso di un assunto fondamentale di Nico Berti. Nel saggio 
                  Libertà senza rivoluzione, asserendo che il liberalismo 
                  ha storicamente vinto sul comunismo e che la democrazia liberale 
                  è tuttora la realizzazione possibile della libertà, 
                  sostiene con forza che se l'anarchismo del futuro vuole “...costituire 
                  realmente una delle grandi alternative politiche della modernità” 
                  si deve agganciare al carro della per lui vittoriosa liberaldemocrazia, 
                  nella convinzione che il liberalismo, avendo vinto sul comunismo, 
                  rappresenti un progresso di libertà politica e sociale, 
                  costituendo perciò un'effettiva “luce del mondo 
                  sul mondo”. Questa rappresentazione non ha senso. 
                  Il liberalismo applicato dimostra quotidianamente il proprio 
                  fallimento come mezzo di emancipazione ed è fuorviante 
                  dire che ha vinto sul comunismo. Non ha vinto né perso. 
                  Non il comunismo, che è una visione generale di condivisione 
                  sociale, ma il bolscevismo è imploso perché incapace 
                  a sussistere, mentre il liberalismo è fallito perché 
                  ha aperto il fianco a nuovi terrificanti sottomissioni, sfruttamenti 
                  e schiavismi, che nulla hanno a che fare con gli assunti che 
                  lo avevano definito come pensiero di liberazione. 
                  Per noi anarchici è importante capire prima di tutto 
                  che se l'anarchismo vuole essere incisivo rimanendo coerente, 
                  deve andare oltre i paradigmi della modernità, ormai 
                  obsoleti e stantii oltre che reazionari, che fece suoi quando 
                  sorse. In particolare quelli sia liberaldemocratici sia marxisti. 
                  La sua forza risiede in una rinnovata radicalità, mutuale 
                  cooperativa e sperimentale, capace di andare oltre gli orpelli 
                  che ci tengono incatenati a un mondo in decomposizione.
                  Andrea Papi
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