rivista anarchica
anno 43 n. 384
novembre 2013


stili di vita

Generazione siberiana

di Stefano d'Errico


La maleducazione è connaturata indissolubilmente alla sub-cultura del dominio, in tutte le sue varianti. La “buona educazione”, spesso giudicata una pratica conformista e quindi rifiutata soprattutto in campo giovanile, non potrebbe essere invece una parte significativa della nostra etica e del nostro progetto rivoluzionario, contro il Potere?


Il film di Salvatores sulla miglior “scoperta” letteraria di Saviano (Nicolai Lilin, Educazione siberiana, 2008) stimola molte riflessioni. Innanzitutto di stampo etico e sociologico rispetto alle trasformazioni intervenute con la globalizzazione (e non solo) nel mondo “marginale”. È evidente il significato indicato dai valori vissuti e trasmessi nella collettività siberiana degli “esclusi”: una comunità di fatto multietnica (e una morale) aventi come base quel Mir solidarista che studiarono Kropotkin e Marx, “ristrutturata” d'autorità in più di settanta anni di repressione sovietica verso una “devianza” non certo solo criminale. Ma, come mostra bene il film, anche quei valori sono oggi in via di estinzione (in particolare a causa di eroina e cocaina) con la mutazione genetica di una Russia passata molto in fretta dal capitalismo tecnoburocratico di stato al liberismo mafioso. Un liberismo nudo, scoperto e arrembante, assolutamente “all'occidentale”.
Ma i parallelismi con l'Italia vanno ricondotti a molti decenni fa. Da noi, il processo di “standardizzazione della delinquenza” è assai più datato, e va ricondotto agli anni '70, all'esplosione della rivolta giovanile, studentesca, proletaria e sottoproletaria: all'emergere di ciò che venne definito il fenomeno delle “due società”.
La diffusione delle droghe pesanti (parallela alla criminalizzazione di quelle leggere), fu il primo e principale veicolo usato dal dominio per fiaccare i movimenti e inquinare in profondità, proprio sotto il profilo connettivo e culturale, le periferie urbane e metropolitane, fin nei più sperduti paesi di provincia.
Il welfare mafioso precede e fa strada al liberismo e alla successiva, conclamata, privatizzazione. Parliamo della scomparsa graduale dell'assistenza e della presenza pubblica, della quale le mafie inizialmente s'appropriano in sinergia con il ceto politico prevalente, in un legame strategico e strutturale. Era già successo negli Stati Uniti, innanzitutto col proibizionismo sugli alcolici, poi con quello sulla droga, e proprio grazie alla cosiddetta (iperliberista) “tolleranza zero”.

La sub-cultura del dominio

Esiste però anche una versione “politicamente corretta” e di “sinistra” che si sovrappone all'immagine della piccola malavita: quella del minculpop antagonista. Ciò che (con molta enfasi e pari esagerazione) veniva definito “proletariato giovanile” venne profondamente assimilato alla causa della marginalità. Ha assunto abiti e maschere indotti, ha acquisito uno stile di vita specificamente (e volutamente) altro, in omaggio ai diktat di parametri ideologici inquinati a tal punto da risultare palesemente innocui per gli equilibri di potere.
Veri e propri cavalli di Troia “spacciati” nei quartieri insieme a droga, ottusità, violenza e intolleranza (anche politica): e fra questi il mito della maleducazione.
Indisciplina etica per definizione, la maleducazione è connaturata indissolubilmente alla sub-cultura del dominio, in tutte le sue varianti. A partire dalla diseducazione politica, che insegna a confondere giudizi di fatto e giudizi di valore (quella del “tanto peggio – tanto meglio”), per arrivare fatalmente alla più generica diseducazione sociale e individuale.
Viene sdoganata così la condanna del mondo valoriale in quanto tale, semplicisticamente ridotto alla stregua di vieto moralismo, nonché del rispetto stesso (e del confronto), parificati a debolezza. Il tutto tramite la parificazione della solidarietà a mera dinamica di gruppo (o branco), ma a patrocinio individuale. In una confusione più unica che rara, le regole non scritte del socialmente “deviante” (tout court) assurgono al rango di comportamento rivoluzionario e anti-sistema: un infingimento davvero micidiale proprio nella fase del maggior assorbimento della devianza stessa ai sub-valori del consumismo dominante.
Non è per nulla sovversivo, infatti, tagliare con l'accetta i giudizi politici. Ciò succede quando, ad esempio, vediamo la critica allo stato di Israele diventare implacabilmente antisemitismo di sinistra e parallela acriticità assoluta rispetto all'operato delle fazioni palestinesi o, peggio, di quelle dell'integralismo islamico.
Oppure quando nelle nuove generazioni l'alcool si sostituisce alla droga pesante, nella medesima operazione volta a ricondizionare gli individui in un autismo di fatto (solo apparentemente edonistico), nell'egoismo spicciolo del mors tua, vita mea, dello “sfangare la giornata” (un tempo la dose) senza riguardo per nulla e per nessuno, senza progetti, senza impegno, senza solidarietà e sensibilità sociale e sindacale organizzata, a mo' d'anestetico a “lenire” il mercato del non lavoro e il precariato strutturale (accettato di fatto quasi senza colpo ferire).
Che dire poi della zona grigia di certi patetici residui di una generazione che fu giovane per definizione, oggi alle prese ancora con una marginalità ostentata a mo' di divisa? Anche qui l'alcool ha spesso preso il posto della droga e (di sovente) i “mi piace” di Facebook (con i suoi post e improperi, frizzi e lazzi rigidamente anti-qualcosa – Berlusconi, ad esempio) quello dell'impegno sociale e politico diretto.
L'educazione è parte integrante (basilare) di qualsiasi processo etico, perché in sua assenza non si sarebbe data alcuna forma di convivenza. Il corto circuito in certa “sinistra”, deriva, fra gli altri, dalla volgarizzazione del dogma leninista secondo il quale la libertà sarebbe un “concetto borghese”. Quindi lo diventano automaticamente anche le sue forme, in primis il rispetto: del pensiero divergente, prima, quindi dell'altro da sé (se soggetto estraneo rispetto al branco e alla sua tenuta disciplinare e conformistica).
Miriadi di piccolo-borghesi hanno funto da apripista a un processo di adeguamento che avrebbe fatto inorridire Pasolini: la mimesi sull'immagine (peraltro becera e standardizzata) del sottoproletariato urbano.
Emblematico, ad esempio, il linguaggio di quanti, magari figli di medici o professionisti, credevano di arringare gli operai fuori dalle fabbriche della capitale con espressioni in romanesco per sembrare “dell'ambiente” (e come se l'espressione linguistica avesse una collocazione ideologica).
La contraddizione con Educazione siberiana salta immediatamente agli occhi. Se nella periferia dell'impero sovietico emergeva il tentativo di far crescere valori contrapposti a quelli (dominanti) del fascismo rosso, nelle periferie occidentali segnate dall'egemonia di una certa “sinistra”, si faceva esattamente il contrario: i miti del comunismo da caserma venivano presi a modello (in particolare quella che Camillo Berneri definì “operaiolatria”, ma con qualche riserva opportunistica verso lo stakanovismo), con tutto il relativo corollario folkloristico, per un ennesimo risultato di omologazione. In questo calderone di cibo esistenziale e ideologico edulcorato, scomponendo gli “addendi”, si può ben analizzare come costoro siano passati dall'operaiolatria (di stampo marxiano) alla sottoproletariolatria (che non è neanche marxista)…
Il jeans bucato non è più il prodotto estemporaneo d'una caduta dalla moto, bensì il segno distintivo di un'antitesi alla cravatta (molto fascista e/o molto borghese), anche se oggi i pantaloni con gli strappi vengono venduti a peso d'oro anche dalle grandi griffe. Trasandato, e poi “confuso” e “instabile” (e con licenza d'imbecillità e deresponsabilizzazione): così si battezza il “bello” in regime conformista.
Avere (oggi) la fortuna di un lavoro garantito non spinge costoro (vecchi che fanno i giovani e giovani che copiano quei vecchi) alla sindacalizzazione e alla lotta per opporsi alle privatizzazioni e ai danni che complessivamente vengono fatti alla società civile, quanto all'ideologia del “lavorare stanca”. Diventa rivoluzionario persino farsi pignorare lo stipendio perché non si paga il condominio.

La società impersonale

La stessa vita quotidiana riflette lo stereotipo: rivoluzionario sarà quindi ciondolare per la strada, magari alticci dalla mattina, come se quel lavoro non esistesse, con un bicchiere o una bottiglia in mano. Rivoluzionaria sarà anche l'adesione femminile a un lessico sguaiato e l'assorbimento dei valori maschilisti della rozzezza e della violenza.
Non esiste estetica senza senso etico (e il branco ha un'estetica unicamente antitetica).
Tipico della società impersonale sviluppatasi a Occidente è un'omologazione costruita sollecitando l'individualismo (l'egoismo, l'esteriorità e il narcisismo), ma per abbattere l'individualità.
Naturalmente esiste persino un amore politicamente corretto: così la diseducazione dell'intimo fa credere normale l'instabilità come sale dei rapporti.
L'alternanza fra noia, consumo dell'altro, sballo, divengono normali “contraddizioni del vivere”.
Il (malinteso) mito della spontaneità (parificata all'assenza di ragionamento), diviene semplicismo e superficialità, e con sé porta quello della diseducazione. Così si passa la vita come uno scontro con la quotidianità (e non certo con il potere).
La durezza viene preferita all'educazione perché sarebbe più “spontanea” e “diretta”: così, soprattutto, è l'orizzonte della problematicità a essere espunto dalla vita sociale come dalla sfera interiore.
L'orizzonte dei supercafoni musicali, televisivi e digitali è oggi anche quello dei bamboccioni. Ma la colpa non è solo di ragazzi sempre dipendenti e mammoni, quanto di genitori eterni bambini, formatisi nell'assenza del senso del limite, tipico delle fasi estreme della contestazione giovanile del post '68, così che oggi, come scrive Massimo Recalcati, s'è passati dal complesso di Edipo al complesso di Telemaco, senza soluzione di continuità.
L'esperienza (corretta) dell'autogestione è divenuta mito dell'autogenerazione: l'auspicato abbattimento del padre-padrone ha portato ben oltre, sino all'eliminazione manu militari della figura genitoriale in sé, interiorizzata come figura inappropriata alla quale padri e madri dovrebbero quindi sfuggire. Il taglio netto del legame con i valori del passato è diventato assenza totale di verifica dei modelli e della stessa funzione della trasmissione, appropriazione e ristrutturazione dell'esperienza pregressa.
La vera eredità sociale diviene l'instabilità: quella precarietà (non solo economico-lavorativa) determinata in assenza del confronto (e anche del conflitto) genitori-figli, poiché non esistono più né gli uni né gli altri.
Occorre quindi approfondire un minimo il discorso sulla libertà, che non è mai assoluta, perché deve contemperare il rispetto di precisi doveri verso gli altri. Perciò la libertà stessa ha una funzione sociale e a tal fine la collettività esprime una sua autorevolezza che è altra cosa rispetto all'autoritarismo.

Il mito della diseducazione

Sarà utile citare Camillo Berneri: “All'autorità formale del grado e del titolo anteponiamo l'autorità reale del valore e della preparazione individuali. Questo senza cadere in una dialettica fusione, o confusione, dei contrari”. La libertà non è nulla se non finalizzata, e non è possibile un'eguaglianza generale fra gli esseri umani raggiunta per diktat ideologico. Occorre partire da una comune acquisizione della necessità di un impegno sui valori (condivisi) e dell'impiego degli stessi come metro comune.
La diseducazione, nutrita del suo proprio mito, diviene quindi l'ennesima incarnazione e mutazione dello stereotipo romantico. Diseducazione innanzitutto come esistenza virtuale, aliena dal reale, mito dell'artista quale essere altro, baciato quindi gratis dall'ispirazione, eroe e semi-dio mosso solo dalla fulminazione del suo genio, estraneo al lavoro, all'impegno, allo studio.
Questo è il mito-archetipo romantico dell'arte, quando invece per gli antichi greci l'arte era soprattutto impegno, ingaggio artistico costante, essere capaci di produrre “per l'occasione” (come nel caso di praticamente tutte le tragedie), e non certo solo in via estemporanea.
Ma era così anche per Baudelaire (il quale, contrariamente a quanto vulgata pretenderebbe, non può essere annoverato fra i romantici), che infatti scrisse: “L'ispirazione è sorella del lavoro giornaliero”.
L'individuo diverrebbe quindi compiuto, per i moderni epigoni del cibernetico neo-romantic, solo perché stravagante, bastian contrario, senza nessi con il reale, perché così somiglierebbe all'artista. Per costoro l'imperativo è distinguersi per forza, e distinguersi dal reale. Una unicità artefatta.
E non v'è neppure nulla di nuovo. Come scrisse ancora Berneri:“Il romantico ama i tempi remoti perché può metterli in cornice. Il nuovo gli sfugge e gli fa paura. Così il romantico ama gli eroi, perché può idealizzarli a suo piacimento”.
La diseducazione politica e i tanti sociologismi di maniera portano a credere che la responsabilità personale non esista, che tutto il male del mondo sia sempre cosa esterna e lontana che tutto giustifica e non “implica”. Come se la sola esistenza del dominio non consentisse che scelte obbligate e senza meta, senza soluzione di continuità, nella coscienza, nell'azione e nella responsabilità dell'individuo (anche nei rapporti più stretti).
Così si costruisce la cultura marginale, si rinforzano i ruoli: mutatis mutandis si mantiene tutto come è sempre stato. Con la differenza che gli stessi che persistono in queste dinamiche, pur credendosi I dannati della terra di Frantz Fanon (o i “nuovi poveri”), ormai sono “garantiti”, sfoggiano cellulari stellari per connettersi a internet dalla strada e dal lavoro, hanno alle spalle famiglie sfasciate ma casa di proprietà.
La marginalità ostentata ed esibita (quindi accettata) è il maggior risultato del (vero) relativismo etico: induce in politica il mito dell'estraneità a tutti i costi ('esistiamo solo noi'), e lo fa anche rispetto alla sfera personale ('esisto solo io').
L'abito mentale dell'“estraniato” si realizzerà nel rifiuto del confronto rispetto alle ragioni altrui, qualsivoglia esse siano. Nel vedere la dialettica come mero artificio retorico che non porterebbe in nessun luogo, fino al mitico, e invero demenziale, “sono tutti uguali”, arcano maggiore del qualunquismo nostrano. Solo che a mettere in atto un simile processo mentale non è più l'analfabeta, bensì laureati e quasi tali, perché innamorati del mito della marginalità e, soprattutto, per sfuggire la loro stessa ragione e, negli scambi interpersonali, l'eventuale sofferenza di aver torto.
Si può intervenire solo a patto di rendersi interiormente modificabili, di esser capaci di pensiero divergente, sempre e comunque, in qualsiasi situazione, gruppo sociale o movimento politico: un pregio raro, specifico dell'umanità, che qualsiasi conformismo ingloba e annichilisce. È l'attitudine profonda, interiore, all'indipendenza e alla libertà ciò che conta davvero: “Non è dunque la cosa che si pensa che costituisce la libertà, ma il modo con il quale la si pensa” (Berneri, 1936). Essere diventati comunisti solo perché lo erano tutti equivaleva a non esserlo, e ciò spiega molto dei trasformismi che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni.
Se si ragiona finalmente sul dato ormai indiscusso che la libertà non si può costruire con la dittatura, nondimeno l'equità resta necessaria, e libertà ed eguaglianza non sono in contrapposizione. Come ha sempre sostenuto il movimento libertario, trattasi semmai di sinonimi. Perché lo sforzo maggiore del neoliberismo imperante sta tutto nell'impedire che la storia (la cui “fine” non verrà mai) giunga a “maturazione”, che la gente capisca che se quelle ideologie erano fallimentari (ma non tutte), le si può abbandonare o modificare, mentre i valori primari sono sempre gli stessi.
La rivoluzione o sarà umanista (e contro tutti i conformismi) o non sarà: l'educazione è sempre stata all'origine dell'umanesimo.

Stefano d'Errico