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				 incidenti sul lavoro 
                  
                Uomini e caporali 
                  
                intervista a Angelo Ferracuti di Giuseppe Ciarallo 
                    
                Il nuovo libro di Ferracuti, Il costo della vita, ricostruisce la tragedia della nave Elisabetta Montanari con empatia e precisione documentaria. 
E apre una riflessione sul mondo del lavoro come oggi lo conosciamo. 
                  
                  Il 13 marzo 1987 è una 
                  data che rimarrà impressa a fuoco nella storia del movimento 
                  operaio italiano: presso i cantieri navali Mecnavi nel porto 
                  di Ravenna, in seguito a un incendio sviluppatosi nelle stive, 
                  tredici operai muoiono asfissiati dalle esalazioni di acido 
                  cianidrico. Molte le cause di quella strage: sistemi di sicurezza 
                  inefficaci quando non assenti, inesperienza del personale (tra 
                  le tredici vittime, una al suo primo giorno di lavoro), vie 
                  di fuga ostruite, incompetenza, sottovalutazione del rischio 
                  da parte dei responsabili, ecc. 
                  Angelo Ferracuti, scrittore e reporter, nel suo recente lavoro 
                  Il costo della vita – Storia di una tragedia operaia 
                  (Einaudi, 2013), ricostruisce pazientemente un complesso puzzle 
                  attraverso le voci di chi quella drammatica vicenda l'ha vissuta 
                  in prima persona (parenti e colleghi delle vittime, vigili del 
                  fuoco e soccorritori, giornalisti, legali), denunciando al contempo 
                  le origini del degrado in cui è piombato il mondo del 
                  lavoro così come oggi lo conosciamo. 
                   
                  Dunque, Angelo, partirei da una tematica che tu hai evidenziato 
                  e che condivido in pieno: quella del linguaggio. Tra le tante 
                  cause che hanno portato il mondo del lavoro allo stato attuale 
                  fatto di precariato, caporalato, assenza di diritti per il lavoratore, 
                  inconsistenza (anche applicativa di leggi esistenti) nei sistemi 
                  di sicurezza sui luoghi di lavoro, la resa incondizionata di 
                  una consistente parte del sindacato, la deregolamentazione selvaggia 
                  del mercato del lavoro e la contestuale “morte” 
                  di una classe operaia attiva, intesa come forte soggetto sociale 
                  a far da contrappeso allo strapotere del padronato, oltre a 
                  tutte queste cause, dicevo, c'è anche un lento ma decisivo 
                  intervento operato dai media sul vocabolario usato da un'intera 
                  nazione, accuratamente depurato di termini socialmente pericolosi 
                  (proletario, padrone, lotta di classe, sfruttamento) in quanto 
                  potenziali portatori di tensione. La colpa, però, non 
                  è anche un po' nostra, nell'esserci fatti scippare, oltre 
                  ai diritti e alle modalità di conquista degli stessi, 
                  la nostra “lingua”?  
                  Questo impoverimento lessicale, estetico, politico, comincia 
                  dopo il crollo del muro di Berlino, ed è la conseguenza 
                  di una sconfitta storica del movimento operaio internazionale, 
                  avvenuta principalmente per colpa dei regimi burocratici e sanguinari 
                  dell'ex Urss. La lingua è sempre lo specchio più 
                  sensibile del pensiero, che condiziona in modo molto forte anche 
                  l'agire delle persone. 
                  In quegli anni, a metà degli '80 del secolo scorso, c'è 
                  un vero e proprio terremoto epocale, cominciano a declinare 
                  i valori del socialismo planetario, c'è un arretramento 
                  rispetto a tutte le conquiste che la classe operaia ha fatto 
                  in un secolo di lotte pagate con il sangue, si afferma il pensiero 
                  unico che porta fino ai giorni nostri. Oggi la controrivoluzione 
                  padronale è compiuta, il lavoro non c'è più 
                  e quando c'è è iperprecarizzato, i produttori 
                  cosmopoliti delocalizzano a seconda dei loro bisogni, la finanzia 
                  internazionale ricatta stati e mercati. La scomparsa della cultura 
                  di sinistra in Italia, l'imbarbarimento della politica ormai 
                  ridotta a marketing o a “partito personale” del 
                  leader, che detesto naturalmente, cioè la scomparsa di 
                  una idea di futuro e di società, è frutto però 
                  anche di tutto questo. Il mio libro cerca di raccontarlo. 
                  Lessico del conflitto 
                 Per analogia, mi viene in mente il lascito che Edoardo 
                  Sanguineti ci ha fatto prima della sua scomparsa: “Bisogna 
                  restaurare l'odio di classe. Perché loro ci odiano, dobbiamo 
                  ricambiare. Loro sono i capitalisti, noi siamo i proletari del 
                  mondo d'oggi. [...] Loro fanno la lotta di classe, perché 
                  chi lavora non deve farla proprio in una fase in cui la merce 
                  uomo è la più deprezzata e svenduta in assoluto? 
                  Recuperare la coscienza di classe del proletariato di oggi, 
                  è essenziale. È importante riaffermare l'esistenza 
                  del proletariato. Oggi i proletari sono anche gli ingegneri, 
                  i laureati, i lavoratori precari, i pensionati.” Parole 
                  chiare e nette che in molti, a sinistra, hanno lasciato cadere 
                  bollandole come la provocazione di un eccentrico (e anziano) 
                  intellettuale...  
                  Oggi esiste un Quinto stato, formato da precari che stanno in 
                  tutti i mondi del lavoro, ma il precariato è da sempre 
                  la forma principale del dominio capitalista, non è che 
                  non ci fosse negli anni '50, quando si chiamava apprendistato, 
                  o nel lavoro bracciantile dove si lavorava in un regime di schiavitù. 
                  Le lotte sociali degli anni '60 e '70, in quel fantastico ventennio, 
                  hanno semplicemente interrotto una condizione precedente che 
                  si ripropone proprio quando va definitivamente in crisi un modello 
                  di società che doveva essere alternativo. 
                  Abbiamo bisogno di una contro narrazione, di una inversione 
                  di rotta dell'immaginario, credo sarà un processo molto 
                  lungo. Quella di Sanguineti mi pare una boutade, molto più 
                  convincente il libro di Gallino La lotta di classe dopo la 
                  lotta di classe. È necessario rimettere in circolo 
                  un lessico del conflitto, anche attraverso le storie traumatiche, 
                  terribili come quella che racconto nel mio libro. 
                   
                  Tornando alla tragedia di Ravenna. Il capoluogo romagnolo 
                  era all'epoca dei fatti una roccaforte del Pci, nella fabbriche 
                  del luogo c'era un livello di sindacalizzazione molto alto. 
                  Dice De Renzi, un sindacalista da te intervistato: “Noi 
                  sindacalisti si andava il sabato nei cantieri edili insieme 
                  agli operai a vedere se venivano rispettate le misure di sicurezza. 
                  E se succedeva qualcosa ci chiamavano...”. Quindi, com'è 
                  potuto succedere il dramma della Mecnavi? Tu che idea ti sei 
                  fatto? 
                  De Renzi lo spiega benissimo, e questo si ricollega al discorso 
                  che facevo prima. In quegli anni comincia a declinare anche 
                  l'idea di un sindacato di classe; Treu, che è stato un 
                  ministro del Governo Prodi, ed era un autorevole consulente 
                  della Cisl, comincia a parlare di flessibilità. Poi Ravenna 
                  pur essendo una cittadina storicamente comunista è però 
                  anche altro, cioè ha proprio le caratteristiche tipiche 
                  della provincia italiana, con i suoi bizantinismi e poteri, 
                  e l'onta massonica che da sempre la contraddistinguono. Tanto 
                  che Enzo Arienti, il proprietario della Mecnavi, come risulta 
                  da una memoria che ho trovato nel corso delle mie ricerche, 
                  ha rapporti in quegli anni con imprenditori della cantieristica 
                  iscritti alla P2 o legati alla malavita organizzata, e in soli 
                  cinque anni diventa uno dei più grandi imprenditori europei 
                  del settore. È ovvio che è stato sostenuto da 
                  tutto un sistema economico che a Ravenna significa mondo politico, 
                  economico, banche; sarebbe impensabile il contrario. Non poteva 
                  bastare l'uso massiccio del lavoro nero e del caporalato. Tanto 
                  che nella tragedia del 13 marzo furono condannati tutti, dalla 
                  Capitaneria di porto alla Asl, e questo è tipico del 
                  sistema corruttivo e marcio che si è sviluppato in Italia 
                  negli ultimi vent'anni. Se proprio a Ravenna, nel cuore del 
                  “piccismo”, in un'Italia civile, era così, 
                  figuriamoci nelle zone depresse del meridione. Oggi la situazione 
                  è persino peggiorata. 
                   
                  Per scrivere il tuo libro hai incontrato decine e decine 
                  di persone a vario titolo coinvolte nella tragedia, le quali 
                  ti hanno fornito la loro personale tessera per ricostruire quello 
                  che da subito si è presentato come un complesso mosaico. 
                  Ma c'è qualcuno, secondo te, che più di altri 
                  ha una visione d'insieme di quanto accaduto a bordo della Elisabetta 
                  Montanari quel maledetto 13 marzo 1987? 
                  Ho lavorato ossessivamente per un anno andando a Ravenna moltissime 
                  volte, cercando di penetrare proprio negli ambiti più 
                  diversi della città, una specie di lavoro rabdomantico 
                  e da investigatore, e molte persone hanno lasciato in me un 
                  segno. Ma quello che ha una visione più lucida, coerente, 
                  che poi è anche il mio punto di vista, è proprio 
                  Giacinto De Renzi, il sindacalista della Fiom per il quale questa 
                  storia è stata davvero una ferita non solo politica ma 
                  anche personale. Infatti lui e gli altri sindacalisti di quella 
                  che allora si chiamava Flm, cioè il sindacato unitario 
                  dei metalmeccanici, furono gli unici, inascoltati, che denunciarono 
                  la deregulation e il pericolo per la sicurezza dei lavoratori 
                  proprio in quel settore della cantieristica ormai minato dal 
                  subappalto, dal caporalato e da una organizzazione del lavoro 
                  a dir poco approssimativa. Ma nessuno diede mai una risposta 
                  al loro grido d'allarme. Poi la tragedia e le lacrime di coccodrillo. 
                   
                  Curiosità mia personale. Perché nella bellissima 
                  foto di copertina (che è la stessa pubblicata a pagina 
                  116) è stato cancellato il nome della nave “Elisabetta 
                  Montanari – Trieste” e sostituito con un quasi invisibile 
                  “Monrovia”? 
                  È stata tolta solo per una questione grafica, cioè 
                  perché la scritta creava disturbo con il titolo, non 
                  per altro. Monrovia era una scritta precedente. Si sa che le 
                  navi cambiano pelle molte volte prima di essere demolite, e 
                  cambiano anche molti proprietari. 
                   
                  Oltre ad aver scritto Il costo della vita 
                  e altri reportage, hai partecipato con un tuo racconto alla 
                  raccolta collettiva Lavoro vivo (imperniato 
                  sul mondo del lavoro e della fabbrica in particolare) e fai 
                  parte del collettivo redazionale di Nuova Rivista Letteraria 
                  – Semestrale di letteratura sociale. Che cos'è 
                  per te la letteratura sociale, e quanto è importante 
                  in una società la figura dell'intellettuale partecipe 
                  attivo della vita socioculturale della sua nazione e del suo 
                  tempo?  
                  Ho smesso di scrivere fiction nel 2002 perché avvertivo 
                  intorno a me, nella società in cui vivo, un clima di 
                  iperfinzione assoluta che cresceva negli atti quotidiani della 
                  vita, i cui processi comportamentali erano già allora 
                  fortemente fagocitati dai mezzi di comunicazione di massa, in 
                  particolare la televisione. Ricordo una frase di Rushdie a riguardo 
                  che mi condizionò molto: “I politici, i media, 
                  inventano menzogne, è dovere dello scrittore dire la 
                  verità”. Così ho cominciato a scrivere cose 
                  ibride, spesso di reportage, proprio per una reazione e insofferenza 
                  di tipo realista a una narrativa molto congeniale alla società 
                  dello spettacolo, come il giallo, il noir, oppure tutti quei 
                  romanzetti generazionali stucchevoli, o quelli postmoderni. 
                  Credo di essermi un po' inventato una cosa, cioè il racconto 
                  d'empatia, e mi interessa molto tutto ciò che è 
                  volutamente marginalizzato dal potere, come la vita delle classi 
                  oppresse, e della nuova classe operaia, quella che oggi soffre 
                  maledettamente la crisi non solo economica di questi anni. Credo 
                  talmente alla figura dell'intellettuale attivo, partecipativo, 
                  che sono da anni il coordinatore del Premio Paolo Volponi, l'unico 
                  che premia libri di impegno civile. Ma l'impegno di uno scrittore 
                  è anche soprattutto estetico, nell'utilizzo delle armi 
                  della scrittura, della letteratura: è quello il suo compito 
                  principale. 
                   
                  In quarta di copertina si legge: “Ferracuti ricostruisce 
                  una vicenda che ventisei anni fa annunciava l'avvento di una 
                  nuova, nefasta idea del mondo: quella del liberismo sfrenato, 
                  in cui l'imperativo del profitto diventa assoluto e la vita 
                  umana un valore marginale”. Annotazione del tutto condivisibile, 
                  però mi chiedo come è possibile che un libro di 
                  denuncia sociale così forte sia rientrato nel progetto 
                  di una casa editrice di proprietà di chi ha fatto, negli 
                  ultimi vent'anni, del liberismo sfrenato e del rifiuto (e l'aggiramento) 
                  di ogni regola, la sua bandiera di personale libertà... 
                   
                  Non ho ricevuto alcun condizionamento, solo incoraggiamenti, 
                  soprattutto da Andrea Canobbio e Irene Babboni, e molto rispetto. 
                  L'Einaudi resta, come ha scritto Marcello Fois, “l'editore 
                  al quale tutti tendiamo”. Cioè qualcosa che conserva 
                  ancora oggi un'aura mitica, quella della migliore cultura italiana 
                  del dopoguerra in tutti i campi del sapere. E non credo che 
                  le sue strategie commerciali siano diverse da quelle di altri 
                  proprietari, ritenuti più democratici o di sinistra. 
                  Il problema è un altro, cioè l'abbassamento della 
                  qualità nell'offerta editoriale in generale, con una 
                  narrativa media innocua e d'intrattenimento molto spesso imbarazzante, 
                  ma anche la mancanza di un progetto culturale, che è 
                  stato sostituito dal piano d'impresa, cioè il management 
                  che sostituisce i gruppi di pensiero, gli intellettuali. Gli 
                  ultimi intellettuali veri che sono rimasti dentro le case editrici, 
                  e che fanno una lotta interna secondo me molto coraggiosa, tentano 
                  una mediazione tra qualità e mercato, in una situazione 
                  difficilissima e molto compromessa. E poi Berlusconi, il cui 
                  calco generalista e populista si riflette su Mondadori più 
                  che su Einaudi, dove non è mai riuscito a imporre un 
                  controllo culturale, non è la causa ma l'effetto, o l'effetto 
                  che diventa anche causa. Il vero problema è che il sistema 
                  sociale italiano è molto consociativo, provinciale, tipico 
                  di una democrazia debole, ipocritica e storicamente fragile.
                  Giuseppe Ciarallo
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