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				 rivolte 
                  
                Cambiare il mondo  (senza prendere il potere) 
                  
                di Andrea Papi 
                    
                È difficile comprendere appieno e trarre insegnamenti dalle recenti rivolte che hanno attraversato e attraversano il mondo. 
Un nostro collaboratore fornisce alcuni elementi di riflessione. 
                 
                  Le ultime rivolte (Iran, Turchia, 
                  Brasile, Egitto) danno l'idea di voler far esplodere gli stati 
                  in cui sono avvenute. 
                  In Egitto in particolare la sollevazione popolare ha subito 
                  con tragica evidenza un giro di vite deflagrante, una vera mutazione 
                  oscurantista. L'immagine di un'illusoria “primavera araba” 
                  dei primi momenti, fin dalla destituzione di Mubarak circa due 
                  anni fa poi nelle recenti manifestazioni contro il premier eletto 
                  Morsi, era stata di una ribellione radicale contro il potere, 
                  percepita come una specie di rivolta laica, quasi libertaria, 
                  che sembrava suggerire un'aspirazione a una società liberata 
                  e non più sottomessa. Quando poi i militari hanno preso 
                  in mano le redini, la situazione si è trasfigurata in 
                  una tragicissima orgia sabbatica di potere e morte. Ogni maschera 
                  è caduta e tutto si è trasformato in una lotta 
                  all'ultimo sangue tra due obsolete forze reazionarie, esercito 
                  contro fratelli musulmani, per l'esercizio di uno spietato dominio 
                  gretto e sanguinario. 
                  Ultimi “casi” in ordine di tempo di una diffusa 
                  ribellione globale che cova in ogni angolo della terra in attesa 
                  delle occasioni per poter deflagrare. Il mondo sembra aver sempre 
                  più voglia di rivoltarsi contro la condizione sociale 
                  ed esistenziale che nei millenni ha contribuito a mettere in 
                  auge. Anche se un'enorme quantità di persone appoggia 
                  ancora l'esistente e vi si riconosce, le condizioni generalizzate 
                  di vita sono di fatto sempre più inaccettabili, insopportabili 
                  e detestabili. Invariabilmente e spudoratamente sul pianeta 
                  terra tutto sta convergendo verso un aumento spropositato di 
                  ricchezze iperboliche per i privilegiati del “mondo dei 
                  ricchi”, a detrimento e in palese contrasto con l'immensa 
                  galassia di persone, progressivamente pauperizzate e sottomesse, 
                  che sulla propria pelle ne subisce potenza e accumulo. Si ha 
                  l'impressione di una completa impotenza e si aspetta che le 
                  rivolte spontanee in agguato sconquassino di volta in volta 
                  l'esistente plutocratico che ci sovrasta. 
                  Senza voler figurare o propormi “facile profeta”, 
                  ritengo non azzardato presupporre che per molti anni ancora 
                  assisteremo all'insorgere di rivolte popolari, più o 
                  meno estese e più o meno intense, facilmente cruente 
                  e a grossa partecipazione di massa. L'esplosione ribelle sembra 
                  sempre più parte integrante di un sistema talmente ingiusto 
                  da essere in tendenza intrinsecamente sempre più ingiusto. 
                  La rivolta di massa appare ormai parte endemica insopprimibile 
                  del divenire della complessità in atto. Una specie di 
                  contrappeso: le masse in rivolta come contraltare endemico di 
                  bilanciamento nell'andamento delle cose, per un riequilibrio 
                  funzionale al persistere del dominio vigente. 
                  Roberto Esposito (la Repubblica, 22 luglio 2013) vi vede un 
                  annullarsi del conflitto, una specie di sfogo collettivo globale 
                  che esprime una continua reversibilità caratterizzata 
                  da “indeterminazione politica”, che ogni volta si 
                  spegne perché inidoneo a “costruire istituzioni 
                  stabili”. Per Esposito si tratta di sovversioni “costitutivamente 
                  fragili e contraddittorie, destinate a bruciare nella stessa 
                  fiammata che accendono. Ciò che adesso manca, rispetto 
                  agli anni sessanta e settanta”, prosegue, “è 
                  la dimensione collettiva, l'intensità progettuale, l'opzione 
                  ideologica… Più che a un'istanza costituente fanno 
                  pensare a un'istanza destituente, come se il futuro fosse risucchiato 
                  dal presente.” 
                  Un'analisi veritiera che identifica la qualità di queste 
                  rivolte, ma di cui non condivido il giudizio perentorio che 
                  le liquida attraverso un filtro ideologico, che risulta chiaro 
                  dal paragone con gli anni sessanta e settanta. Il criterio di 
                  giudizio di Esposito sembra rifarsi a una presunta superiorità 
                  dell'ideologia perché darebbe, com'egli afferma, intensità 
                  progettuale. Ciò che dimentica, o non vuole vedere, è 
                  che è stata proprio la graniticità ideologica 
                  in passato a far scaturire progettualità nei migliori 
                  casi semplicemente sbagliate, nell'insieme delle esperienze 
                  del tutto disastrose. Sembra nostalgia per i progetti stabiliti 
                  a priori, secondo criteri ideologici appunto, intrinsecamente 
                  autoritari perché per loro natura richiedono di essere 
                  applicati/imposti sulla realtà che li deve sperimentare, 
                  non potendo quindi che generare irreparabili danni. 
                  
                  Un movimento molteplice 
                 Personalmente vedo perciò con favore la presunta fragilità 
                  delle attuali ribellioni. Nei fatti ripudiano la logica dei 
                  modelli precostituiti che, essendo predeterminati e rigidi, 
                  quasi inevitabilmente si sgretolano più o meno velocemente 
                  nell'impatto con la realtà. La spinta spontanea di queste 
                  rivolte si pone al contrario all'interno di una dimensione euristica, 
                  di ricerca attraverso la sperimentazione. Non devono né 
                  vogliono rendere “prassi” una costruzione teorica 
                  a priori, perché innanzitutto non c'è più, 
                  fortunatamente, nessun “prefabbricato teorico” da 
                  edificare. Ci sono invece da rendere operanti dei valori, dei 
                  bisogni profondi sedimentatisi nel tempo, come la libertà 
                  (individuale e collettiva), la solidarietà, la condivisione 
                  sociale, la reciprocità, le decisioni comuni, il ripudio 
                  dei privilegi e dei poteri prevaricanti. Con grande spontaneità, 
                  fatica e umiltà si mettono perciò in piedi situazioni 
                  che, contrapponendosi in modo deciso ai poteri costituiti, si 
                  propongono di cominciare a rendere effettuali quei presupposti 
                  motivazionali che, senza inseguire nessun modello aprioristico, 
                  trovano realizzazione sperimentando e correggendo. 
                  Lo si è visto per esempio con gli indignati, con Occupy 
                  Wall street, in Grecia durante le varie fasi della rivolta sociale. 
                  Sono anche affiorate nelle cosiddette “primavere arabe” 
                  nonostante i limiti notevoli ingenerati dalle condizioni di 
                  fortissima repressione. 
                  Certamente, come sostiene Esposito, non hanno partorito nuove 
                  istituzioni, come invece successe con la rivoluzione francese 
                  che generò il parlamento democratico o durante la rivoluzione 
                  russa con la creazione dei soviet. Si ha l'impressione che oggi 
                  non le si voglia più neppure creare, dal momento che 
                  a suo tempo parlamento e soviet furono in breve cristallizzati 
                  divenendo i luoghi della nuova oppressione. Finalmente sembrano 
                  passati i tempi del “dover” creare nuove rigide 
                  istituzioni. In qualche modo, più o meno consapevole, 
                  forse si sta cominciando a imparare la lezione: le rivoluzioni 
                  che abbiamo alle spalle hanno dimostrato che quando si immobilizza 
                  istituendo si tende a cristallizzare forme di potere che in 
                  quanto tali tradiscono e travalicano senso e valori per cui 
                  erano sorte. 
                  Le attuali rivolte, ognuna con proprie specifiche originalità, 
                  stanno mettendo in moto processi differenziati tendenti a generare 
                  cambiamenti radicali. L'insieme di queste esperienze sta dando 
                  vita a un movimento molteplice non ancora definito né 
                  definibile, che in potenza sta ricercando nuove modalità 
                  di realizzazioni dal basso. Per le ragioni sopraddette non vogliono 
                  creare nuove istituzioni permanenti, bensì luoghi di 
                  scambio, di sperimentazione, di confronto, di solidarietà 
                  senza riprodurre nuove forme di dominanza. Una tendenza rivoluzionaria 
                  completamente differente da quelle che abbiamo fin qui conosciuto. 
                  Come direbbe Holloway, si sta generalizzando una tensione che 
                  vorrebbe “cambiare il mondo senza prendere il potere”. 
                  Forse stiamo vivendo un passaggio d'epoca. Assistiamo a un'inversione 
                  di flusso indotta dalla insopportabilità crescente nei 
                  confronti dei vigenti sistemi di potere, che nel suo insieme 
                  non ha ancora consapevolezza di sé e neppure sa bene 
                  quale nuova coerente visione del mondo è in grado di 
                  produrre. Spesso è contraddittoria e ingenua, ma comincia 
                  a sentire fortemente il bisogno di una metamorfosi sociale capace 
                  di esprimere tutta la propria intrinseca radicalità. 
                  Un flusso che spontaneamente rifiuta le chiusure identitarie, 
                  quindi intrinsecamente meticcio, non sessista, non razzista, 
                  non centralizzatore, cui non interessa definirsi o cristallizzarsi 
                  perché desidera respirare l'aria rigenerante dell'apertura 
                  e della libertà, dell'accoglienza, della reciproca solidarietà. 
                  A tutti gli effetti un movimento potenziale, che con facilità 
                  arranca e fatica a esprimersi e riconoscersi, ma che nonostante 
                  tutto continua generosamente a mettersi sempre più in 
                  gioco. Purtroppo con facilità appare ancora invischiato 
                  e a tratti incapsulato in tendenze meramente contrappositive 
                  e spinte insurrezionaliste, indotte in particolare da frange 
                  militanti portatrici di tensioni para-ideologiche, la cui persistenza 
                  rischia di intrappolarne le potenzialità, perché 
                  ogni volta energie e lotte si trovano convogliate soprattutto 
                  in infinite inesauribili battaglie e battagline contro i poteri 
                  costituiti. Se non vorrà soccombere o estinguersi a poco 
                  a poco in un'estenuante lotta senza prospettive, prima o poi 
                  se ne dovrà liberare, per diventare finalmente consapevole 
                  di doversi e potersi dedicare innanzitutto alla costruzione 
                  e sperimentazione del nuovo alternativo capace di superare l'esistente, 
                  sempre inaccettabile e insopportabile, fino a soppiantarlo. 
                  Né scontro militare né Palazzo d'Inverno 
                 Sarebbe grave errore sottovalutare e subire questo problema 
                  perché non se ne riesce a capire la reale portata. L'elemento 
                  problematico non risiede tanto nello scontro o nei momenti insurrezionali 
                  in sé. Questi sono parte ineliminabile del patrimonio 
                  di lotta resistente contro i poteri e possono sempre succedere 
                  spontaneamente quando ci sono tensioni sociali. Diventa invece 
                  un problema che contamina le lotte quando la logica insurrezionale 
                  viene posta e vissuta come prevalente. Quando, in modo ideologico 
                  e aprioristico, l'insurrezione viene religiosamente elevata 
                  a unico mezzo per combattere, denigrando e delegittimando tutto 
                  il resto, sostenendo in modo dogmatico che soltanto con l'attacco 
                  insurrezionale si può abbattere il potere e cambiare 
                  definitivamente lo stato delle cose. Un insurrezionalismo vittima 
                  di un'astrazione teorica che pretenderebbe di trasformare un 
                  mezzo in fine unico da perseguire. 
                  Una chiara incongruenza teorica, che non può che condurre 
                  a un'inconsistenza di prospettiva. Per esser coerenti ogni strumento 
                  e ogni mezzo dovrebbero essere visti e vagliati considerando 
                  la relatività insita in ogni scelta, che non può 
                  non tener conto delle contingenze. 
                  Se nell'ottocento e nella prima parte del novecento poteva infatti 
                  avere un senso illudersi di abbattere il potere attraverso la 
                  “rivoluzione insurrezionale” (come veniva definita), 
                  perché era ancora identificabile un centro di comando 
                  oppressore e lo stato era veramente il luogo dell'acme del potere, 
                  di fronte alle trasformazioni di fondo che contraddistinguono 
                  il divenire delle forme e dei metodi vigenti del dominio questa 
                  prospettiva oggi perde di consistenza. 
                  Attualmente c'è un insieme di sistemi in sinergia, a 
                  volte in concorrenza fra loro, per conquistare egemonie legate 
                  a situazioni specifiche. Non c'è più una struttura 
                  di classe sovrastante, in grado di esercitare il dominio su 
                  tutto, che decide la politica economica e impone le sue scelte. 
                  Al contrario è egemone una specie di oligarchia finanziaria, 
                  non assimilabile a nessuna struttura di classe, come si supponeva 
                  per la borghesia, ma a un magma fluido, anonimo e non strutturato, 
                  che si muove in continuazione tra le fluttuazioni finanziarie 
                  al di là della concretezza cartacea del denaro e che, 
                  senza comandare direttamente, s'impone influenzando ricattando 
                  e costringendo. 
                  Tutta la mitologia e la narrazione tradizionale dell'immaginario 
                  rivoluzionario-insurrezionale non sono più pragmaticamente 
                  proponibili né possibili sostanzialmente per due motivi. 
                  Primo perché pone lo scontro militare come elemento privilegiato, 
                  pensato e vissuto come vero e proprio conflitto bellico, quando 
                  la guerra in tutto e per tutto è terreno favorevole al 
                  dominio, che l'ha creata la conosce perfettamente e l'aggiorna 
                  in continuazione. Secondo perché non c'è più 
                  nessun “Palazzo d'Inverno” da conquistare, nessun 
                  luogo di comando centrale o centro verticale da cui promana 
                  ogni potere e da cui dipende ogni autorità coattiva. 
                  Esiste viceversa un intreccio di poteri, tanti luoghi di comando 
                  con grande capacità d'influire e indurre, non assimilabile 
                  però a nessuna “crazia” autocratica cui tutto 
                  è demandato e da cui tutto dipende. 
                  S'impone allora un cambiamento di prospettiva. Bisogna cominciare 
                  a pensare, oltre a sperimentare fino in fondo, che è 
                  possibile battere la fluidità attuale del dominio sottraendosi 
                  alla sua influenza, annullandone gli effetti con la costruzione 
                  determinata e inesorabile di una “società nella 
                  società” che sovverta l'esistente autogestendosi 
                  sempre di più.
                  Andrea Papi
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