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				 dibattito 
                  
                A proposito del reddito di base 
                  
                del collettivo San Precario e di Cosimo Scarinzi 
                    
                Un sostegno economico alle persone con 
                  un lavoro intermittente o disoccupate. In molti paesi europei 
                  c'è e varia da poche centinaia di euro ai 1.200 al mese 
                  di Danimarca e Lussenburgo. Utile risorsa o rivendicazione propagandistica? 
                  Il dibattito è aperto. 
                
                 Se potessi avere 720 euro al mese 
                del collettivo San Precario 
                   
                  È questa la cifra proposta dal collettivo 
                  San Precario per un reddito di base anche in Italia: un 20 per 
                  cento in più della soglia di povertà relativa. 
                   
                  Il mondo è cambiato, il 
                  lavoro è cambiato, le nostre vite sono cambiate, eppure 
                  ancora oggi c'è chi canta “chi non lavora non fa 
                  l'amore”. Le forze politiche della sinistra, unite sotto 
                  la bandiera della difesa del lavoro, stanno cominciando solo 
                  ora a rendersi conto che la battaglia di retroguardia per difendere 
                  i diritti acquisiti, come l'articolo 18, anche se è sacrosanta 
                  non basta e non è una risposta ai problemi delle generazioni 
                  precarie di oggi. Parliamo di milioni di lavoratori che non 
                  devono essere licenziati perché è sufficiente 
                  non rinnovare il contratto alla sua scadenza, che non hanno 
                  accesso alla cassa integrazione, alla maternità, alla 
                  malattia, che non hanno ferie pagate e non parliamo della pensione. 
                  Di fronte a questo cambiamento, la difesa dell'articolo 18 e 
                  del lavoro è una battaglia di retroguardia, dato che 
                  protegge i diritti di alcuni ma non li estende ai milioni di 
                  persone che fanno parte delle generazioni precarie. 
                  Come noto, oltre il 30 per cento dei lavoratori italiani ha 
                  un contratto “atipico” e per quanto riguarda le 
                  nuove assunzioni otto su dieci avvengono con un contratto precario. 
                  E ancora vorrebbero convincerci che non è successo nulla 
                  negli ultimi vent'anni, che tutte possiamo ancora rientrare 
                  nel contratto nazionale per legge. Certo, come abbiamo sempre 
                  detto bisogna abolire la Legge Biagi e il Collegato lavoro. 
                  Ma serve, e subito, una misura universale che copra tutte e 
                  tutti: il reddito di base garantito per chi ha perso il lavoro, 
                  lo sta cercando, non ha la pensione, si sta formando per poter 
                  lavorare, per chi non vuole essere costretto ad accettare un 
                  lavoro in nero. Che permetta di sfuggire al ricatto dei lavori 
                  più sottopagati, vivere con dignità, e migliorare 
                  le proprie condizioni anche lavorative. 
                  Per poter evitare lavori sottopagati o umilianti 
                 Il reddito di base è un sostegno economico alle persone 
                  con un lavoro intermittente o disoccupate. Varia da poche centinaia 
                  di euro ai 1.200 al mese della Danimarca e del Lussemburgo. 
                  Secondo noi in Italia dovrebbe essere almeno di 720 euro al 
                  mese (20 per cento in più della soglia di povertà 
                  relativa). Oggi ammortizzatori sociali come la cassa integrazione 
                  o il sussidio di disoccupazione sono riservati a chi ha perso 
                  un lavoro a tempo indeterminato e determinato, il Rbi invece 
                  dovrebbe essere dato a tutte le persone che hanno un reddito 
                  inferiore ai 720 euro al mese, per esempio ai precari tra un 
                  contratto e l'altro, ai disoccupati e ai lavoratori/trici che 
                  pur impiegati/e guadagnano salari da fame, inferiori ai 720 
                  euro al mese, in modo incondizionato, ovvero slegato sia dal 
                  tipo di contratto precedente che dall'obbligo di accettare qualsiasi 
                  impiego proposto o i programmi di inserimento lavorativo. 
                  Attenzione però, quando si sente parlare di reddito di 
                  cittadinanza si rischia di fare confusione tra le diverse proposte 
                  sul piatto. Alcune non ci piacciono proprio, dato che si riferiscono 
                  a un reddito minimo temporaneo, uno strumento di reinserimento 
                  al lavoro, a scalare, legato all'obbligo di accettare qualunque 
                  attività lavorativa, pena la perdita del diritto di accedere 
                  al reddito. Questo è proprio il reddito che non ci piace, 
                  perché significherebbe obbligare le persone ad accettare 
                  qualsiasi lavoro, a qualsiasi condizione, per non perdere tutto. 
                  Il reddito che proponiamo noi deve avere lo spirito opposto: 
                  deve permettere ai precari di non accettare qualsiasi lavoro, 
                  ma di poter evitare quelli sottopagati o umilianti. Nessuno 
                  vorrà più fare lavori pesanti e poco considerati? 
                  No, non necessariamente. Ogni prestazione lavorativa ha le sue 
                  specificità ed è la sua remunerazione a rendere 
                  un lavoro più o meno accettabile e vantaggioso. 
                  La garanzia di reddito, riducendo l'offerta di persone disposte 
                  ad accettare lavori mal pagati o alienanti, pone le imprese 
                  di fronte a un bivio: pagare meglio chi svolge queste mansioni 
                  oppure adottare tecnologie e soluzioni organizzative migliori. 
                  Obiezioni simili ci furono al tempo dei dibattiti sulla riduzione 
                  dell'orario di lavoro a 8 ore giornaliere; il risultato è 
                  stato non solo un netto miglioramento delle condizioni dei lavoratori 
                  ma anche una crescita. 
                  Il reddito di base non è assistenzialismo. Oggi si lavora 
                  ben al di là del rapporto di lavoro. Il tempo per la 
                  formazione e l'aggiornamento, il tempo dedicato alla ricerca 
                  di lavoro, il tempo per raggiungere il luogo di lavoro, il tempo 
                  di cura e di consumo: tutto produce ricchezza, fa parte dell'attività 
                  lavorativa ma grava sulle spalle dei singoli. Inoltre negli 
                  ultimi vent'anni le imprese italiane hanno prosperato sfruttando 
                  la precarietà, risparmiando sui salari e mantenendo alti 
                  i profitti. Altro che assistenzialismo, il reddito minimo sarebbe 
                  la restituzione di una piccola parte del maltolto. 
                  Il reddito non annullerebbe le lotte sul luogo di lavoro. Anzi, 
                  è una misura di democrazia e che aumenterebbe la capacità 
                  delle persone di farsi valere. La garanzia di reddito diminuisce 
                  la ricattabilità individuale, la dipendenza, il senso 
                  di impotenza di lavoratori e lavoratrici nei confronti delle 
                  imprese. Richiedere un reddito minimo è la premessa perché 
                  i precari, disoccupati e lavoratori con basso salario possano 
                  sviluppare conflitti sui luoghi di lavoro. Oggi il ricatto del 
                  licenziamento o di mancato rinnovo del contratto, senza nessun 
                  tipo di tutela, è troppo forte. Precari e precarie possono 
                  subire ritorsioni anche solo per aver distribuito un volantino 
                  sindacale. Il reddito, unito a garanzie contrattuali dignitose 
                  e ad un salario minimo, renderebbe tutti meno ricattabili e 
                  quindi più forti. 
                  La nostra proposta non nasce solo dal lavoro di giuristi ed 
                  esperti di welfare. In questi anni abbiamo risposto a migliaia 
                  di richieste di aiuto che giungevano dai luoghi di lavoro più 
                  disparati. Inutile dire che anche noi per la maggior parte siamo 
                  precari e precarie. Siamo insegnanti, educatori, autotrasportatori, 
                  informatici, grafici… Lavoriamo nella moda, nella logistica, 
                  nei callcenter, nella ristorazione… Non riceviamo finanziamenti 
                  da nessuno e nessuno è stipendiato da noi per fare il 
                  politico o il sindacalista, ciò che facciamo lo facciamo 
                  con le nostre poche energie e il poco tempo che la precarietà 
                  ci concede. 
                  Attraverso i nostri sportelli, i Punti San Precario, abbiamo 
                  accumulato una conoscenza profonda della precarietà. 
                  Le migliaia e migliaia di persone che si sono avvicinate a noi 
                  ci hanno insegnato che qualcosa nei sindacati non funziona più; 
                  che per opporsi alla precarietà servono una mentalità 
                  nuova e strumenti diversi; e infine che l'impianto su cui si 
                  basa l'insieme dei diritti e degli ammortizzatori sociali che 
                  dovrebbe “garantirci” fa acqua a da tutte le parti. 
                  Ma il primo e il più grande insegnamento è stato: 
                  invocare il semplice diritto al lavoro, nell'era della precarizzazione, 
                  è come parlare di niente. Negli anni abbiamo capito che 
                  ciò che ci viene chiesto di difendere è qualcosa 
                  di diverso: il diritto alla scelta del lavoro. 
                  Rompere l'accerchiamento 
                 Lo ripetiamo in breve, un reddito di base che serva a tutto 
                  il popolo precario, sul serio, deve avere caratteristiche precise. 
                  Non deve essere un sussidio di povertà. Non deve obbligarti 
                  ad accettare qualunque lavoro, ma al contrario deve permettere 
                  di rifiutare i lavori sottopagati, umilianti e nocivi. In più 
                  è necessario fissare un salario minimo orario che impedisca 
                  corse al ribasso delle retribuzioni. Questo è un orizzonte 
                  che parla a tutti i lavoratori, disoccupati e i precari. Deve 
                  essere finanziato dalla fiscalità generale e non dai 
                  contributi sociali. Deve essere di cittadinanza in senso universalistico: 
                  come qualsiasi misura di welfare deve essere accessibile a tutti 
                  coloro che ne maturino il diritto anche se non hanno cittadinanza 
                  italiana. 
                  La cricca dei burocrati sindacali e dei politicanti di “sinistra” 
                  ride (sempre meno, in verità) delle nostre proposte dicendoci 
                  che il reddito non va bene, che il salario minimo orario non 
                  serve. Dimenticano però di spiegarci perché negli 
                  ultimi trent'anni la forza delle loro organizzazioni e delle 
                  loro proposte non è riuscita frenare il declino dei diritti 
                  e dei salari. Ma sentiamo già risuonare le critiche: 
                  “Con una crisi così che senso ha parlare di scelta? 
                  Bisogna accontentarsi”. Al contrario, rivendicare la scelta 
                  di un lavoro, significa poter rifiutare un lavoro pessimo, nocivo, 
                  umiliante, ma soprattutto un lavoro che non permette di vivere 
                  perché sottopagato. Poter rifiutare significa poter lottare 
                  per i propri diritti senza rimanere con le spalle al muro. 
                  La richiesta di un reddito garantito nasce da questa contraddizione 
                  e serve a uscire dall'accerchiamento fatale creato dalla precarietà. 
                  Un accerchiamento che non nasce dal nulla. Lo abbiamo visto 
                  all'opera in ogni luogo di lavoro. Posti in cui ci dicono che 
                  si sta sulla stessa barca, ma appena questa ondeggia solo alcuni 
                  vengono gettati a mare. Il sussidio di disoccupazione copre 
                  solo il 25 per cento dei licenziati, la cassa integrazione c'è 
                  solo per alcuni, l'articolo 18 copre (male) solo 4 lavoratori 
                  su 10. Questa frammentazione è alla base della sconfitta 
                  perenne, e spinge le persone al cinismo del “si salvi 
                  chi può”. Eppure abbiamo intravisto anche sprazzi 
                  di luce, quando la rabbia diventa strategia e la solidarietà 
                  dei lavoratori fiorisce al grido “si può vincere”. 
                  Per riconquistare diritti e respingere il ricatto bisogna parlare 
                  di nuovi diritti universali. 
                 San Precario 
                  Twitter: #infosanprecario 
                  www.precaria.org 
                   
                  Questo articolo è composto in parte  da post 
                  apparsi sul blog  di San Precario su Il Fatto Quotidiano 
                   
                
                   
                    Un santo davvero precario 
                       
                      Da quasi dieci anni San Precario è il patrono dei precari 
                  e delle precarie. San Precario è una creazione precaria, 
                  un'espressione libera e indipendente da ogni partito e sindacato. 
                  Una delle sue incarnazioni è la Rete San Precario di 
                  Milano, che da anni si occupa di diritti e precarietà. 
                  Inoltre il santo è presente sul territorio nazionale 
                  con i Punti San Precario, sportelli di sostegno legale e comunicativo 
                  dove si organizza la cospirazione dei lavoratori contro chi 
                  li precarizza. | 
                   
                 
                 
                 
                   
                  
                Ma io avrei qualcosa da dire 
                  di Cosimo Scarinzi  
                La questione dirimente in campo sociale è 
                  la forza. E allora... 
                Se una domanda può porsi, può 
                  pure aver risposta. 
                  Ludwig Wittgenstein, Trattato logico-filosofico, 
                  1922 
                A fine giugno scadrà la cassa integrazione 
                  straordinaria. Invece di spendere quei soldi, e molti altri 
                  ancora, per cercare di salvare aziende in difficoltà, 
                  bisogna lasciarle fallire serenamente. Così si eviterebbe 
                  di buttare soldi inutilmente, e li si potrebbe investire per 
                  il reddito di cittadinanza. 
                  Gianroberto Casaleggio 
                Serve agire là dove anche il governo 
                  Monti ha fallito e cioè sulla difesa e il rilancio del 
                  sistema industriale italiano, a partire dal futuro delle grandi 
                  imprese come la Fiat. Inoltre come giustamente le imprese reclamano 
                  il pagamento dei crediti da parte della pubblica amministrazione, 
                  così occorre estendere gli strumenti di tutela del lavoro 
                  e del reddito iniziando con il rifinanziamento della cassa integrazione 
                  in deroga e dei contratti di solidarietà, che garantirebbero 
                  un sostegno al reddito alle persone in difficoltà per 
                  traghettarle oltre questo periodo di crisi. 
                  Federico Bellono, Segretario Provinciale 
                  della Fiom Cgil Torino 
                 La questione del reddito di 
                  base o, se si preferisce, di cittadinanza è dibattuta 
                  negli ambienti della sinistra sociale e sindacale da molti decenni 
                  e non a caso. 
                  Mi avvenne nel 1980 di leggere un interessante ricerca di un 
                  centro studi dell’area cattolica del Pci che dimostrava, 
                  sulla base di un’accurata valutazione dei costi, che utilizzando 
                  le risorse destinate al welfare improprio da parte dei governi 
                  di allora sarebbe stato possibile garantire un salario di 500.000 
                  lire al mese ai disoccupati. Se si tiene conto del fatto che, 
                  per fare un esempio, io ne guadagnavo 600.000 si può 
                  comprendere l’impatto potenziale di una misura del genere. 
                  Riflettendo sulla proposta mi vennero alla mente due obiezioni: 
                  smantellare il welfare improprio gestito dal sistema dei partiti 
                  come i pensionamenti precoci, le pensioni di invalidità 
                  distribuite a pioggia, le assunzioni nel pubblico impiego fatte 
                  al fine di ammirare il paesaggio non sarebbe stato facile come 
                  poteva apparire agli algidi studiosi cattolico comunisti. 
                  Inoltre in un paese con una quota rilevante di lavoro nero distinguere 
                  gli occupati dai disoccupati non sarebbe stato facile e un reddito 
                  quale quello prospettato avrebbe con ogni probabilità 
                  determinato l’iscrizione in massa alle liste del collocamento 
                  di casalinghe e figure consimili con l’effetto di raddoppiare, 
                  almeno, il numero ufficiale dei disoccupati. 
                  D’altro canto quella proposta, come quelle che si sono 
                  susseguite sulla stessa questione da decenni, rimanda a una 
                  domanda che allora apparve importante e tale resta oggi. Mi 
                  riferisco al dibattito su “garantiti” e “non 
                  garantiti” che caratterizzò il movimento del ’77. 
                   
                  Non si trattava della semplice presa d’atto che una parte 
                  crescente dei lavoratori stava fuoriuscendo dalla tradizionale 
                  relazione stabile con la pubblica amministrazione e con le aziende 
                  ma anche dell’affermazione di una soggettività, 
                  che si voleva nuova, di uno strato di giovani proletari refrattari 
                  alla disciplina del lavoro e desiderosi di vivere immediatamente 
                  uno stile di vita più libero e selvaggio. 
                  
                 Nei decenni seguenti su quest’ordine di problemi si 
                  è molto discusso. Sono state prodotte ricerche e proposte 
                  di vario genere, a volte si è persino fatto qualcosa. 
                  Le linee di riflessione più interessanti mi sembrano 
                  essere innanzitutto quella sul lavoro autonomo di seconda generazione, 
                  e cioè sull’apparizione sulla scena sociale di 
                  una numerosa platea di lavoratori formalmente autonomi ma in 
                  realtà legati all’esternalizzazione di funzioni 
                  e attività da parte del sistema delle imprese. Basta 
                  a questo proposito pensare ai camionisti padroncini e alle loro 
                  mobilitazioni. 
                  In secondo luogo la riflessione sulle necessarie trasformazioni 
                  delle vertenze aziendali che devono (dovrebbero?), per essere 
                  efficaci, ricomporre la filiera produttiva unificando quanto 
                  il capitale divide e cioè tutti i lavoratori che operano 
                  a una produzione a prescindere dall’azienda che li assume, 
                  dal contratto che è loro applicato, dal fatto se sono 
                  dipendenti o “autonomi”. 
                  Infine bisogna riflettere sulla formazione di una nuova classe 
                  operaia della logistica, in gran parte immigrata, collocata 
                  in una rete di pseudocooperative che lavorano per le grandi 
                  aziende e che impongono contratti basati sullo sfruttamento 
                  più bestiale e, per sovrammercato, nemmeno li rispettano 
                  e che sta sviluppando lotte importanti e radicali. 
                  Innegabilmente un fatto va valutato: se una parte consistente 
                  dei lavoratori è collocata in relazioni di lavoro precarie, 
                  anomale, individualizzate, come si può immaginare e, 
                  soprattutto, praticare un’azione unitaria dell’intera 
                  classe che sappia superare l’attuale frammentazione? 
                  Con ogni evidenza la proposta del reddito di base si propone 
                  di rispondere a questa domanda, una domanda, mi ripeto, vera 
                  e importante.  
                  A questa proposta l’obiezione più immediata che 
                  viene in mente non agli “apologeti del lavoro” ma 
                  anche a molti militanti sindacali di orientamento libertario 
                  è scontata: non si rischia di ratificare la divisione 
                  fra un corpo centrale della classe che resterebbe nell’attuale 
                  situazione e un segmento della stessa classe, corposo quanto 
                  si vuole, la cui sopravvivenza sarebbe legata alla leva fiscale 
                  e alla spesa pubblica? In questo caso però vorrei prescindere 
                  da questa pur legittima considerazione; in fondo è accettabile 
                  la tesi che sul terreno concreto della relazione fra capitale 
                  e lavoro l’ottenimento di un reddito quando si è 
                  esclusi dal rapporto di lavoro è un’esigenza irrinunciabile 
                  dei salariati. Credo sarebbe invece necessario valutare questa 
                  rivendicazione dal punto di vista che nella questione sociale 
                  è dirimente: quello della forza. 
                  
                 I compagni di San Precario propongono un reddito di base di 
                  720 euro, quelli del SICobas di Torino propongono un reddito 
                  di cittadinanza di 1.200 euro.  
                  Sarebbe lecito domandarsi sulla base di quali valutazioni siano 
                  state individuate le cifre che si rivendicano: perché 
                  non 1.000 o 1.440 (quella che auspicherei io)? 
                  Celie a parte, un fatto mi sembra evidente: si tratta di una 
                  rivendicazione di carattere propagandistico, un modo per affermare 
                  che la massa di precari, disoccupati, lavoratori in nero ha 
                  diritto a una vita decente buttando lì una cifra o un’altra; 
                  o si tratta di una rivendicazione effettiva? Assumiamo la seconda 
                  ipotesi. Ottenere in una fase recessiva come l’attuale 
                  un reddito di base è ipotizzabile a due condizioni. Se 
                  settori dell’èlite di potere valutassero che una 
                  riorganizzazione del welfare in senso universalistico sarebbe 
                  preferibile all’attuale pasticciata situazione che vede 
                  mille forme, sempre più ridotte, di sostegno al reddito; 
                  oppure se vi fosse una mobilitazione sociale generale in questa 
                  direzione, una mobilitazione effettiva che, proprio perché 
                  non legata alla singola azienda, al singolo territorio, alla 
                  singola categoria non potrebbe che porsi nella forma di un secca 
                  perturbazione dell’ordine pubblico. 
                  Ovviamente solo una mobilitazione dal basso molto forte potrebbe 
                  permettere un’estensione effettiva dei diritti e non una 
                  semplice riorganizzazione dell’attuale sistema di welfare. 
                  Su questo terreno le iniziative e le lotte non mancano ma, a 
                  mio avviso, si tratta di mobilitazioni puntuali su specifici 
                  obiettivi, condotte dai vari gruppi di precari e disoccupati 
                  che tendono piuttosto a porre l’accento sui propri specifici 
                  diritti che a porsi come segmento di una classe generale.  
                  È quindi mia opinione che sia necessario essere parte 
                  attiva di queste mobilitazioni e operare per un loro coordinamento 
                  e generalizzazione ma che non sia opportuno farsi eccessive 
                  speranze sulla possibilità che basti una volenterosa 
                  attività di orientamento politico sindacale a superare 
                  i particolarismi. In questa direzione, ovviamente, dobbiamo 
                  operare senza però pensare che bastino i discorsi a realizzare 
                  il miracolo. 
                  Resta comunque evidente che solo il dispiegarsi di una forza 
                  adeguata può trasformare un discorso suggestivo in una 
                  prassi sociale. 
                  Proviamo, a questo punto, a definire con maggiore chiarezza 
                  cosa si intende con il termine “forza”. Nell’articolo 
                  Affari rischiosi Paul Mattick junior scrive a questo 
                  proposito “...i popoli sapranno volgere l’attenzione 
                  verso il miglioramento delle proprie condizioni di vita percorrendo 
                  strade concrete, immediate che un’economia disgregata 
                  esigerà? Sapranno i nuovi milioni di senzacasa guardare 
                  alle abitazioni pignorate, vuote, ai beni di consumo invenduti, 
                  e alle materie prime alimentari conservate dal governo e provvedere 
                  ai propri bisogni vitali? Senza dubbio, come in passato, chiederanno 
                  che l’industria o il governo forniscano lavoro, ma appena 
                  queste richieste si scontreranno con i limiti economici, forse 
                  sarà indispensabile per la gente che le fabbriche, gli 
                  uffici, le fattorie e gli altri luoghi di lavoro esistano ancora, 
                  anche senza essere gestiti in maniera profittevole, e che possano 
                  essere utilizzati al fine di produrre beni di cui la gente ha 
                  bisogno. Se non ci fosse lavoro a sufficienza – occupazione 
                  pagata, che si lavori per il privato o lo stato – ci sarebbe 
                  lavoro in abbondanza se la gente organizzasse la produzione 
                  e la distribuzione per se stessa, al di fuori dei limiti dell’economia 
                  di mercato” . 
                  Ovviamente Paul Mattick junior fa riferimento a qualcosa che 
                  va ben oltre una rivendicazione, per quanto radicale, e cioè 
                  l’espropriazione degli espropriatori ma, ragionando del 
                  reddito garantito, mi interessa l’indicazione di metodo: 
                  solo un’azione diretta, radicale e di massa può 
                  porre in discussione l’esistente. Nel suo svilupparsi 
                  l’azione diretta rende evidente, e questa evidenza la 
                  rende più ampia, efficace, consapevole che la ricchezza 
                  sociale reale non corrisponde alla ricchezza capitalistica e 
                  che, al contrario, solo la sua liberazione dai vincoli dell’economia 
                  mercantile può permettere la soddisfazione dei bisogni 
                  umani. 
                  In conclusione, la rivendicazione del reddito garantito può 
                  – insisto sul può – svolgere un ruolo utile 
                  come rivendicazione dell’unità dei lavoratori e 
                  della necessità di obiettivi comuni, il suo grado di 
                  efficacia dipende poi dalla prassi effettiva che si sviluppa 
                  su questo tema. 
                Cosimo Scarinzi 
                  coordinatore nazionale Cub Scuola Università Ricerca 
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