Le Br,  
                  dalle grandi fabbriche alla sconfitta 
                 La più duratura organizzazione della lotta armata in 
                  Italia è stata oggetto di un'ampia pubblicistica concentrata 
                  tuttavia in modo quasi esclusivo sugli eventi che hanno ruotato 
                  intorno al sequestro dell'on. Aldo Moro e non sugli “anni 
                  della formazione”. Come se le Brigate rosse, che nel 1978 
                  operavano già da sette anni, fossero nate e si fossero 
                  strutturate solo in vista dell'obiettivo finale di rapire lo 
                  statista democristiano. Poca e superficiale attenzione è 
                  stata invece dedicata alla nascita e agli albori dell'organizzazione, 
                  intorno ai quali circolano ancora giudizi storiograficamente 
                  imprecisi e rievocazioni solo giornalistiche sganciate da qualsiasi 
                  contesto. 
                  Il saggio di Andrea Saccoman (Le Brigate Rosse a Milano: 
                  dalle origini della lotta armata alla fine della colonna “Walter 
                  Alasia”, Unicopli, Milano 2013, pagg. 287) colma tale 
                  lacuna e rappresenta una affidabile ricerca storica basata sullo 
                  studio attento dei documenti provenienti dall'organizzazione 
                  e sull'esame di prima mano degli atti processuali e che utilizza, 
                  correttamente, solo come fonti secondarie le dichiarazioni degli 
                  appartenenti alle Br, pentiti o irriducibili che siano, per 
                  evitare rielaborazioni basate su racconti autogiustificatori 
                  o autoelogiativi. 
                  Grazie a tale metodo la ricerca di Saccoman consente di fissare 
                  alcuni punti fermi: il luogo e la data di nascita delle Brigate 
                  rosse, l'esordio delle loro azioni, la composizione sociale 
                  e la provenienza dei suoi componenti. 
                  Luogo di nascita è stato senza dubbio Milano, dalle cui 
                  fabbriche provenivano i primi nuclei di brigatisti, con un apporto 
                  limitato dal mondo universitario di Trento, fornito anche dall'interno 
                  del cattolicesimo del dissenso, e del collettivo “gruppo 
                  dell'appartamento” di Reggio Emilia, formato in parte 
                  da ex militanti del Pci usciti dal partito su una linea “avventurista”. 
                  L'arrivo a Milano da Trento di Renato Curcio e di sua moglie 
                  Margherita Cagol e di Franceschini da Reggio Emilia sarebbe 
                  stato tuttavia insufficiente a creare una nuova forza e avrebbe 
                  aggiunto alla piazza solo qualche rivoluzionario di professione 
                  in più se non si fosse incontrato con nuclei radicali 
                  presenti in modo significativo all'interno delle grandi fabbriche: 
                  la Pirelli, la Sit Siemens, la Magneti Marelli, la Breda, la 
                  Falck, luoghi di lavoro dell'operaio-massa e ormai come tali 
                  praticamente scomparsi 
                  Certa è quindi l'origine operaia delle Brigate rosse, 
                  a smentita di una percezione ancora diffusa che le vorrebbe 
                  creazione di studenti e di piccoli borghesi frustrati, ed è 
                  individuata con certezza nel saggio di Saccoman la loro data 
                  di nascita: il convegno di Pecorile, un minuscolo paese dell'Emilia, 
                  nell'agosto del 1970 che sancì il processo di uscita 
                  delle Br dal bozzolo di Sinistra proletaria, involucro destinato 
                  a estinguersi una volta terminata la sua funzione di incubazione 
                  della nuova realtà. Una realtà che teorizzava 
                  come ormai impossibile la lotta semplicemente politica e inevitabile 
                  l'unificazione con il piano militare sulla base anche della 
                  distorsione percettiva che giudicava parimente inevitabile lo 
                  scivolamento a breve dell'Italia in uno scenario autoritario 
                  e golpista. 
                  La provenienza operaia, con l'abitudine alla disciplina del 
                  lavoro e alla frugalità, ha certamente favorito quella 
                  scelta strategica dell'organizzazione che nel saggio è 
                  descritta con grande efficacia: l'assoluta clandestinità 
                  dei militanti, applicata dalle Brigate rosse per prime dopo 
                  la fine della guerra. Quindi sparizione dai luoghi di lavoro 
                  e rottura di ogni legame familiare, assunzione di una nuova 
                  identità e contemporanea “apparizione” di 
                  un altro individuo, un “uomo senza qualità” 
                  con regole precise: abita in una casa anonima e “compartimentata”, 
                  conosciuta cioè solo dai militanti che la abitano e da 
                  un altro componente della “colonna”, si inventa 
                  una figura sociale, operaio, artigiano rappresentante e quindi 
                  esce e rientra in casa a orari precisi, gentile ma riservato 
                  con i vicini, non stringe rapporti sociali nel quartiere tanto 
                  da non comperare i giornali sempre nella stessa edicola. Una 
                  scelta obbligata per la guerra rivoluzionaria nella metropoli, 
                  che tuttavia col tempo ha separato i militanti dalla loro base 
                  sociale di riferimento e li ha distaccati dalla realtà. 
                  Un aspetto, questo, poco studiato e, aggiungiamo, l'esatto contrario 
                  dello stile di vita alternativo, della creatività rivoluzionaria, 
                  dell'attenzione al “personale” che sono stati tra 
                  i tratti salienti dei movimenti del '68. 
                  È il 17 settembre 1970 la data della prima azione rivendicata 
                  con il simbolo della stella a cinque punte, il banale incendio 
                  della porta del garage dell'ing. Giuseppe Leoni, dirigente della 
                  Sit Siemens, azienda che, tra azioni contro uomini e cose, sarà 
                  colpita nel corso della vita delle Br per ben 30 volte. 
                  Seguiranno i sequestri “volanti” di altri dirigenti, 
                  fotografati con un cartello appeso al collo (il primo, Idalgo 
                  Macchiarini, il 3 marzo 1972), la produzione “seriale” 
                  delle gambizzazioni (la prima vittima è l'esponente democristiano 
                  Massimo De Carolis il 15 maggio 1975) e delle uccisioni, fra 
                  cui, tra le più efferate, la strage, nel gennaio 1980, 
                  in un sottopassaggio di via Schievano, di tre agenti di polizia, 
                  che nulla avevano a che fare con l'antiterrorismo. 
                  A metà di questa catena di delitti, tutti descritti in 
                  dettaglio nel saggio anche nei loro aspetti più curiosi 
                  (una volta fu gambizzato un dirigente d'azienda scambiato per 
                  un altro e il volantino di rivendicazione fu precipitosamente 
                  corretto) si consuma alla fine del 1980 la scissione della colonna 
                  Walter Alasia dall'esecutivo romano di Moretti e Balzerani, 
                  accusato dalla componente “autonomista” milanese 
                  di aver privilegiato un velleitario attacco al cuore dello Stato 
                  a discapito dell'origine fondante delle Br e cioè il 
                  collegamento con la classe operaia. 
                  Per qualche tempo sono esistite dunque due Brigate rosse e poi 
                  addirittura tre con la nascita a Napoli dell'ancor più 
                  feroce Partito della guerriglia. 
                  La fine della Walter Alasia milanese e dell'intera esperienza 
                  delle Br storiche si consuma con lo smantellamento delle ultime 
                  basi nel 1982, cui seguiranno, dopo anni di silenzio, le riedizioni, 
                  dal 1988 in poi con gli omicidi Ruffilli, Biagi e d'Antona, 
                  che tuttavia sono all'esterno del perimetro storico del saggio. 
                  Perché le Brigate rosse, nonostante il primato di longevità 
                  come organizzazione della lotta armata in Europa, hanno fallito 
                  e si sono poi ridotte ad una variante marginale? Le ragioni 
                  sia tattiche sia strutturali indicate nella conclusione del 
                  volume sono tutte condivisibili. 
                  In primo luogo sono scomparse le grandi fabbriche, serbatoio 
                  di militanti e di simpatizzanti. Dove vi era la concentrazione 
                  operaia della Pirelli-Bicocca sorge ora la seconda Università 
                  milanese in cui è ricercatore proprio l'autore del saggio. 
                  Sul piano generale, soprattutto dopo il sequestro di Aldo Moro, 
                  le Br si erano infilate in un vicolo cieco. Per quanto ottusa 
                  e corrotta fosse parte della classe politica, nella Dc come 
                  in altri partiti, la sua impopolarità non fu mai tale 
                  da spingere una parte significativa della popolazione italiana 
                  anche solo ad augurarsi una soluzione rivoluzionaria guidata 
                  dalle Br o da gruppi simili che mancava di una qualsiasi progettualità 
                  di ampio respiro. 
                  Oltretutto le Br non si erano nemmeno prese cura di descrivere 
                  cosa avrebbero fatto dell'Italia se avessero vinto la loro guerra 
                  contro lo Stato. Non esisteva in pratica una parte “costruttiva” 
                  del loro progetto che facesse da specchio alla parte “distruttiva”, 
                  ritmata dalle esecuzioni e dai volantini di rivendicazione. 
                  Era possibile solo, e in modo più che giustificato, immaginare 
                  che in caso di presa del potere avrebbero instaurato un regime, 
                  ben lontano tra l'altro dall'anima libertaria del '68, molto 
                  simile quello di Stalin e di Pol Pot: una prospettiva questa 
                  di qualche attrattiva davvero per molto pochi. 
                  Sul piano strategico era impensabile che una guerriglia urbana, 
                  incentrata solo su azioni in alcune città, potesse avere 
                  risultati decisivi. Anche i Gap del resto, i Gruppi di azione 
                  patriottica che agivano nelle città, avevano avuto, durante 
                  la Resistenza, un semplice ruolo ausiliario. E le Br non erano 
                  mai riuscite nè avevano tentato di costruire anche solo 
                  una parvenza di esercito regolare che agisse in montagna o in 
                  altre zone non metropolitane del paese. 
                  Sul piano tattico le azioni delle Br si erano poi disperse su 
                  molti e troppi obiettivi: dirigenti di azienda, democristiani, 
                  sindacalisti “revisionisti”, poliziotti, agenti 
                  di custodia, giornalisti. Un vasto numero di obiettivi dà 
                  certamente il vantaggio di rendere ardua l'azione di prevenzione 
                  dello Stato (più numerosi sono i potenziali obiettivi, 
                  più difficile è difenderli tutti) ma in tal modo 
                  l'organizzazione armata non era riuscita a portare veramente 
                  in profondità nessuna campagna. Anche durante le intermittenti 
                  campagne contro i dirigenti di azienda, le carceri, i giornalisti, 
                  nessuna azienda si era fermata per paura, nessun carcere aveva 
                  cessato di funzionare, nessun giornale aveva interrotto le pubblicazioni. 
                  Infine, benché attente alla pubblicità delle loro 
                  azioni e ai mezzi di comunicazione di massa le Br si erano dimostrate 
                  incapaci di costruire messaggi di una qualche efficacia: i loro 
                  volantini e le loro risoluzioni erano monotone e ripetitive 
                  come le loro azioni. In poche parole: illeggibili. Sono state 
                  più studiate dai carabinieri che le analizzavano a fini 
                  investigativi – e questo è un ricordo personale 
                  di quando negli anni '80 ero giudice istruttore – che 
                  lette da coloro che, operai, proletari, studenti, ne sarebbero 
                  stati i naturali destinatari. 
                  A questi fattori di sconfitta si deve unire, aggiungiamo noi, 
                  il mutamento del quadro internazionale. Le Br non erano certo 
                  dirette dall'esterno ma erano comunque nate all'interno della 
                  Guerra fredda e lo spostarsi del conflitto dall'Est\Ovest al 
                  Nord\Sud del mondo ha reso obsolete le loro analisi e la loro 
                  pratica e quasi artigianali le loro azioni: una uccisione ogni 
                  tanto, di fronte a nuove forze che con un modesto sforzo sono 
                  riuscite a far crollare le Torri gemelle. 
                  Chiudono il volume due documenti del tutto inediti, custoditi 
                  presso la Fondazione Isec di Sesto San Giovanni e provenienti 
                  dalla Federazione milanese del Pci: una dettagliata “indagine” 
                  del partito su sospetti brigatisti presenti nelle fabbriche 
                  milanesi e una confessione-relazione di un militante del Pci 
                  della Sit Siemens, “sedotto” alla metà degli 
                  anni '70 per breve tempo dalle Br, fitta di dati su coloro che 
                  avevano cercato di reclutarlo. 
                  A riprova del fatto che, per quante azioni di fuoco riuscissero 
                  a mettere a segno, il destino delle Br, strette tra la tenaglia 
                  delle forze dello Stato e del Pci che si muoveva dall'interno 
                  della loro base sociale, era, anche nei momenti della loro massima 
                  espansione, a lungo termine segnato. 
                  Infine l'autore ha ricordato le difficoltà incontrate 
                  negli anni nelle sue ricerche per reperire negli archivi giudiziari, 
                  di difficile accesso e privi di una catalogazione se non per 
                  numero dei processi, le sentenze e gli atti di indagine. Fortunatamente 
                  tale ostacolo è stato da poco superato, grazie al lavoro 
                  dei responsabili dell'archivio del tribunale di Milano, che 
                  ha consentito di versare all'archivio di Stato di Milano gli 
                  originali e in più la versione digitalizzata non solo 
                  dei processi alle Br, ma anche sul terrorismo di destra, sul 
                  caso Calvi- Sindona, sulla strage di via Palestro e gli altri 
                  casi “storici”. 
                  Un patrimonio che merita ancora di essere esplorato da studiosi 
                  come Saccoman, con metodi storiografici e senza l'intento di 
                  giudicare o di condannare ma quello di offrire ad altri gli 
                  strumenti per leggere e per riflettere. 
                 Guido Salvini 
                   
                   
                Musica/ 
                  InCanto sulla Martesana 
                 L'attività poliedrica del complesso corale e strumentale 
                  Martesana InCanto Ensemble (www.incanto.name) non è 
                  solamente esecutiva, ma soprattutto creativa, nella forma di 
                  un autentico laboratorio poetico e musicale, tramite la formula 
                  del concerto tematico. Ogni esperienza concertistica risulta 
                  strutturata all'interno di un contesto narrativo, costituito 
                  dall'agile e sagace intreccio tra canti, testi e immagini, al 
                  punto da connotarsi come autentica opera corale. Le musiche 
                  proposte sono rielaborazioni di brani classici (Mozart, Haydn, 
                  Clementi, Vivaldi, Brahms ecc.), oppure direttamente composte 
                  dal maestro Bruno Belli, le parole dei canti sono tratte da 
                  testi di poeti contemporanei o personalità storiche, 
                  da Martin Luther King a David Maria Turoldo, da Gandhi a Piero 
                  Calamandrei, da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino a Vandana 
                  Shiva e molti altri. 
                  Lo spettacolo dal titolo “Con lo sguardo dei bambini” 
                  spazia dalla rievocazione della storia, tramite la suggestione 
                  delle poesie dei fanciulli internati nel ghetto di Terezin, 
                  all'attualità del nostro presente, della contemporaneità, 
                  nelle zone in cui l'infanzia è negata e violata dalla 
                  guerra, dallo sfruttamento, dalla fame, dalla più atroce 
                  sopraffazione sulle fragilità e diversità infantili. 
                  Lo spettacolo “Desiderio di pace” presenta percorsi 
                  di riflessione tramite il prisma del desiderio di fratellanza 
                  e solidarietà, annientato dal lager, dai campi di sterminio, 
                  nell'indifferenza della discriminazione, del razzismo, della 
                  segregazione, ricordando l'alto prezzo pagato in vite umane, 
                  per i diritti imprescindibili della persona sanciti dalla Costituzione. 
                  Per approdare al nobile ideale della pace, le proposte musicali 
                  spaziano attraverso gli stilemi della musica di Brahms e il 
                  sapiente andamento delle strofe di Calvino, con un grande anelito 
                  agli ideali di libertà, di lotta alla discriminazione 
                  e al razzismo, tramite la partecipazione, l'impegno e la solidarietà. 
                  Lo spettacolo “La musica non è indifferente”, 
                  in un connubio tra pensiero razionale ed elemento emotivo trasforma 
                  il contesto musicato in un potente mezzo di liberazione del 
                  pensiero e di esercizio di tolleranza antidogmatico. Attraverso 
                  le immortali parole di Martin Luther King, grazie alle quali 
                  il sogno della pace diventa aspirazione alla consonanza, alla 
                  ricerca dell'ideale di libertà, si giunge alla riflessione 
                  musicale che, con brani adeguati, parte dai processi di liberazione 
                  dall'oppressione dei regimi totalitari, per approdare all'esplorazione 
                  delle condizioni di pace da coniugare con alti ideali di giustizia, 
                  solidarietà e incontro di culture e diversità, 
                  per comprendere noi stessi e la dignità umana, lungo 
                  le strade della speranza, della progettualità, dei processi 
                  di pace, di liberazione ed emancipazione anche femminile, vissuti 
                  nell'interiorità e nella socialità. Il cuore dell'opera 
                  corale “Variazioni sulla memoria” propone un percorso 
                  di narrazione degli orrori della Shoah, tramite brani che raccolgono 
                  la dolorosa testimonianza delle vittime, che si compongono, 
                  come tessere di un mosaico di pace, con la rappresentazione 
                  di altri eventi drammatici, ma anche capaci di smuovere le coscienze 
                  e orientarle al cambiamento, nella solidarietà che sempre 
                  sconvolge ed erode il potere, tramite piccoli passi, passaggi 
                  e processi di pace che si alimentano di musica, pensieri e poesia 
                  in un impianto corale, un autentico InCanto concertistico, che 
                  vibra negli animi per far vivere l'anelito del grande sogno 
                  della pace, contro ogni razzismo, contro tutte le guerre, contro 
                  tutti i totalitarismi. 
                 Laura Tussi 
                   
                 
                   La 
                  famiglia Scarselli/
                   Un libro. Un mito 
                 Correte a leggere la storia degli Scarselli, scritta da Angelo 
                  Pagliaro. Vi accorgerete che è possibile fare del male 
                  al Male. E che c'è stato chi s'è ribellato ai 
                  fascismi, senza perdere la gioia. 
                  La letteratura sui movimenti rivoluzionari ci ha abituato ad 
                  una certa forma di schizofrenia. Da una parte i racconti aridi 
                  di una storiografia farraginosa e specialistica, riservata ad 
                  “eletti” ed “iniziati”; dall'altra i 
                  salti onirici di un'affabulazione a tratti trionfalistica. In 
                  mezzo, massacrate dall'editoria commerciale, dal carrierismo 
                  accademico e da qualche produttore cinematografico a caccia 
                  di emozioni forti, rimangono le carogne delle passioni politiche 
                  e della verità storica. Che persino quando è perseguita 
                  con strumenti certosini, si rivela diafana, inconcludente, criptica. 
                  Grande assente, ai giorni nostri, è la mitopoiesi, la 
                  produzione di mito. Qualcosa d'interessante è stato scritto 
                  e pubblicato a ridosso del ciclo di lotte sociali del 2001. 
                  Ma poi i movimenti antagonisti che si oppongono al Potere hanno 
                  ripreso a parlare difficile. I santoni della conoscenza pickpocket, 
                  quelli che borseggiano i produttori di sapere per infilarselo 
                  in tasca e rivenderlo al miglior offerente, si parlano e si 
                  capiscono da soli. E anche quando narrano qualcosa d'interessante, 
                  finiscono per trasmettere depressione. Sembra si sia persa la 
                  voglia di raccontarsi e sentire raccontare. Del resto la rapidità 
                  con cui viaggia l'odierna comunicazione politica genera un effetto 
                  illusorio. In apparenza, disponiamo di qualsiasi strumento comunicativo. 
                  In realtà viviamo rinchiusi dentro il recinto di una 
                  democrazia drogata. Così diviene inarrestabile la deriva 
                  verso forme improbabili di partecipazione politica. E non ci 
                  si può più aggrappare all'unico argine simbolico: 
                  il piacere di sapere che è ancora possibile non solo 
                  ribellarsi, ma anche giusto e divertente, visto che in tanti, 
                  prima di noi, lo hanno già fatto. Sì, soffrendo, 
                  spesso pagando con la vita e la libertà, ma sempre muniti 
                  di una tendenza ideale alla ricerca della felicità. Da 
                  trovare qui ed ora. 
                  Lo spiega bene Domenico Liguori, della Fai di Spezzano Albanese 
                  (Cosenza): “La storia reale è quella che va al 
                  di là dei libri di testo scolastici, la storia di personaggi 
                  cosiddetti minori”. Nell'ultimo decennio, è andato 
                  in metastasi un male antico, quello della messa a profitto dell'intelligenza 
                  sovversiva. La ricerca storica sponsorizzata dal neoliberismo, 
                  anche quando mascherata da inchiesta genuina, ha continuato 
                  a divorare miti, storie e simboli. 
                  Potrà forse apparire retorico, quasi obsoleto, eppure 
                  a segnare il confine tra la ricerca fine a se stessa e il sincero 
                  lavoro politico c'è, come si diceva tanto tempo fa, una 
                  questione “di classe”. Dipende quindi soprattutto 
                  da chi scrive. Quando a farlo è un libertario 
                  sincero, un attivista della ricerca autonoma, che dedica tutta 
                  la propria esistenza alla ricostruzione di fatti diversamente 
                  destinati all'oblio, il risultato è quanto meno dignitoso. 
                  Nel caso de La famiglia Scarselli (edizione Coessenza, 
                  Cosenza, 2012, pp. 211, e 10,00), Angelo Pagliaro è andato 
                  al di là della semplice testimonianza, regalandoci un 
                  testo che potrebbe a pieno titolo far parte della biblioteca 
                  di ogni sovversivo, oltre che dei pochi sceneggiatori e romanzieri 
                  liberi rimasti in circolazione. Ha ragione Katia Massara, docente 
                  di Storia contemporanea presso l'Università di Arcavacata, 
                  quando dice che quello di Pagliaro è un lavoro “generoso, 
                  appassionato, ricco di umanità e dignità”. 
                  È lo specchio di un'epoca, perché – aggiunge 
                  la Massara – è solo apparentemente storia locale. 
                  È una storia che è anche la storia della grande 
                  famiglia libertaria”. E lo è ancor di più 
                  perché la struttura del racconto è stata congegnata 
                  per lasciar entrare il lettore nel laboratorio dello scrittore. 
                  “Una struttura della narrazione molto interessante che 
                  procede dall'esterno, una sorta di gioco di scatole cinesi in 
                  cui l'aspetto politico acquista una forte tonalità emotiva. 
                  Non è un caso che il testo inizia e termina con dei brani 
                  intimi e familiari”, spiega Elena Giorgiana Mirabelli, 
                  precaria della conoscenza, nonché editor della casa editrice 
                  indipendente Coessenza. 
                  Pagliaro riporta nel volume tutta la documentazione cui ha attinto 
                  per tessere la tela di una vicenda umana e politica sinora confinata 
                  nella dimensione del banditismo, grazie a questo lavoro finalmente 
                  restituita alla sua reale natura. Gli Scarselli hanno vissuto 
                  in mezzo alle dittature fascista, staliniana e brasiliana, e 
                  sono riusciti a dare filo da torcere a tutte e tre, contribuendo 
                  a lastricare l'impervia strada dei movimenti rivoluzionari del 
                  secolo scorso. Grazie anche a loro, rimangono aperti i nostri 
                  infiniti sogni di liberazione. È un libro antidepressivo. 
                  Provare per credere, per arrabbiarsi, per sorridere. 
                  Per ordinare il libro: 
                  ordini.coessenza@libero.it 
                  fax 0984/1862284 
                 Claudio Dionesalvi 
                 
                  Note di lettura 
                  su Valerio Evangelisti 
                
                   
                    |    
  | 
                   
                   
                    |   Valerio 
                        Evangelisti  | 
                   
                 
                 
                Valerio Evangelisti è uno scrittore da anni noto al 
                  grande pubblico ed è anzi oggetto da parte di molti lettori 
                  di grande interesse che, a volte, sconfina in una vera e propria 
                  passione. È anche uno scrittore, per molti versi innovativo 
                  e, nel contempo, capace di riprendere forme assolutamente tradizionali 
                  della narrativa. 
                  Se si scorre l'elenco dei suoi libri si può cogliere 
                  la presenza di almeno due macrofiloni narrativi. Da una parte 
                  vi sono opere riconducibili al fantasy, in particolare, ma non 
                  solo, il ciclo di Nicolas Eymerich, un inquisitore, realmente 
                  esistito ma completamente trasformato da Evangelisti, protagonista 
                  di vicende che vedono spostamenti nel tempo e l'intervento di 
                  esseri innaturali. In questo caso la scelta, spiazzante, di 
                  un “cattivo” come personaggio principale permette 
                  di guardare in maniera allucinata e originale a una serie di 
                  eventi che si collocano alla frontiera fra la crisi culturale 
                  determinata dalla fine dell'egemonia culturale della Chiesa 
                  in Europa, sovrapporsi di diversi piani di realtà, sguardi 
                  in un “futuro” che vede spinti agli estremi gli 
                  aspetti più osceni del nostro oggi. 
                  Dall'altra Evangelisti, almeno a mio avviso, riprende la pratica 
                  classica del romanzo storico e da vita, per ora, ad almeno tre 
                  serie di romanzi di questo tipo: 
                  - il ciclo americano, famosissimi Noi saremo tutto e 
                  One Big Union, che tratta essenzialmente della storia 
                  del conflitto di classe e del sindacalismo radicale negli Usa 
                  fra '800 e '900; 
                  - il ciclo messicano che tratta delle vicende, appunto, del 
                  Messico fra seconda metà dell'800 e prima metà 
                  del '900 in stretta relazione con le contemporanee vicende statunitensi; 
                  - il ciclo dei pirati collocati fra '600 e '700 che reinterpreta 
                  la vicenda dei pirati che solcarono in quei secoli l'Atlantico 
                  come anticipazione delle rivoluzioni borghesi che nella seconda 
                  metà del '700 fecero saltare i vecchi equilibri. 
                  Quando faccio riferimento al classico romanzo storico come modello 
                  a cui Evangelisti si tiene – in maniera peraltro innovativa 
                  –, intendo opere che ricostruiscono dettagliatamente vicende 
                  storiche collocando al loro interno personaggi letterari. 
                  È anche vero che l'opera di Evangelisti si distingue 
                  significativamente da quella di Alessandro Manzoni o di Walter 
                  Scott, i maestri del romanzo storico, su almeno due piani, quello 
                  linguistico, caratterizzato dall'uso di uno stile secco e crudo 
                  che molto deve alla lezione di Hemingway, Steinbeck e Dos Passos 
                  e soprattutto quello del senso profondo delle sue opere. 
                  Se infatti Manzoni e Scott descrivono punti di crisi che trovano 
                  soluzione e superiore sintesi nelle fede religiosa e nel riconoscersi 
                  in una cultura nazionale, in Evangelisti non vi è “salvezza”. 
                  Che tratti dei pirati del Mar dei Caraibi, degli Iww (Industrial 
                  workers of the world) o dei rivoluzionari messicani, le contraddizioni 
                  di cui tratta rimandano da un romanzo all'altro e non hanno 
                  alcuna soluzione. 
                  Per Evangelisti, infatti, le contraddizioni che descrive non 
                  oppongono “buoni” e “cattivi” o, meno 
                  moralisticamente, progresso e reazione ma individui e gruppi 
                  sociali che esprimono derive storiche che sembrano attrarre 
                  l'autore essenzialmente da un punto di vista estetico, la storia 
                  come un immenso arazzo vivacemente colorato. E così, 
                  ad esempio, le vicende dei Cavalieri del Lavoro e degli Iww 
                  statunitensi vengono narrate attraverso la biografia immaginaria 
                  di un poliziotto privato infiltrato al loro interno per operare 
                  alla loro distruzione, e quelle dei pirati caraibici attraverso 
                  le vicissitudini di un ufficiale di Luigi XIV che opera come 
                  agente di collegamento fra la flotta francese e quella dei pirati 
                  che la supportano nell'assalto e nel saccheggio di Cartagena 
                  e che, col tempo, anche a causa di una singolare passione amorosa 
                  nei confronti di una nobildonna spagnola che è in realtà 
                  un “agente” dell'anziano marito governatore della 
                  città e che lo tradirà. 
                  Nell'opera di Evangelisti, insomma, si intrecciano erudizione 
                  notevolissima verificabile nella costruzione di ognuno dei suoi 
                  cicli, rielaborazione in chiave letteraria di una passione politica 
                  che ha caratterizzato la sua formazione, notevolissime curiosità 
                  e spregiudicatezza intellettuale. 
                  Una lettura insomma interessante e una sfida per chi, contemporaneamente, 
                  sogna universi altri rispetto all'esistente e opera con l'obiettivo 
                  di facilitarne la nascita.
                 Cosimo Scarinzi 
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