rivista anarchica
anno 43 n. 379
aprile 2013


letture

Contro la disuguaglianza

di Roberto Marchionatti


È recentemente uscito, per Elèuthera, L' Anarchia selvaggia di Pierre Clastres, sottotitolo “Le società senza stato, senza fede, senza legge, senza re”. Riportiamo ampi stralci della prefazione di Roberto Marchionatti.


La riflessione sulla libertà selvaggia

Pierre Clastres ha lasciato alla sua prematura morte, più di trent'anni fa, il 29 luglio del 1977, un'opera inevitabilmente incompiuta ma, come ha ben scritto Marcel Gauchet, «densa e capitale», capace di trasformare radicalmente il nostro sguardo sulla società e la storia e che non cessa di sorprendere per la sua forza di rinnovamento intellettuale nel campo dell'antropologia e della filosofia politica.
Nato il 17 maggio 1934 a Parigi, egli studiò filosofia prima di dedicarsi all'antropologia, verso la fine degli anni cinquanta, nel contesto del fermento critico tra gli intellettuali francesi a seguito della crisi del 1956 e sotto l'influenza del pensiero di Claude Lévi-Strauss. L'incontro con gli indiani amerindiani, che saranno il suo campo di studio, avvenne inizialmente leggendo, non solo gli studi etnografici contenuti nel monumentale Handbook of South American Indians, ma, soprattutto, le cronache e i resoconti dei primi viaggiatori:

“Prima che nella foresta tropicale, Clastres ha incontrato gli indiani nei libri e nelle cronache degli antichi viaggiatori e missionari; con una lucida e ispirata immaginazione decifrando quei dati a cui la pagina spesso alludeva senza individuare, quando non li dissimulava.”
Così scrive Claude Lefort nel suo scritto in memoria dell'amico (in «Libre», 4/1978, p. 51). Su quei testi – da Hans Staden ad André Thevet, da Jean de Léry ai gesuiti – si forma il pensiero di Pierre Clastres, prima del tempo dei viaggi, che l'esperienza e le riflessioni seguenti serviranno ad arricchire. I testi degli esploratori e dei missionari offrivano un immenso materiale su di un'epoca precedente la colonizzazione, e parlavano di «genti del tutto nuove». A essi avevano già attinto due filosofi, fondamentali nel formare il pensiero di Clastres: Michel de Montaigne ed Étienne de La Boétie.
Lo spazio epistemologico entro cui si muoveva quel pensiero scettico offre la «disponibilità» all'altro, ma anche la consapevolezza dell'enorme distanza, meglio sarebbe dire discontinuità, tra noi – i civilizzati – e loro – i selvaggi –, la possibilità di un dialogo e l'impossibilità, forse, di una comprensione totale. Da questi autori deriva a Clastres il modo di affrontare il problema della storia, antitetico a quello marxista ed evoluzionista, giudicando quel che c'è stato dopo in rapporto a ciò che c'era prima: che ne è delle società post-primitive? Perché sorsero la diseguaglianza, la divisione sociale, il potere separato? E sono questi gli autori il cui pensiero, insieme a quello dei filosofi che tra il sedicesimo e il diciottesimo secolo, levarono le loro voci in difesa dei popoli primitivi, costituì il fondamento dell'opposizione alla ratio descartiana, che portava, con la sua netta separazione tra la ragione e ciò che essa non è, il silenzio tra la cultura occidentale e i selvaggi. Opposizione presto sconfitta. Se un ponte tra le culture è ancora possibile, pensava Clastres, è ora l'antropologia a renderlo possibile, sulle fondamenta gettate da autori quali, soprattutto, Lévi-Strauss, un pensatore che ha saputo «prendere sul serio» i selvaggi. Di qui parte il viaggio antropologico di Pierre Clastres.

Il problema del politico
L'indagine della dimensione politica nella società rappresenta il cuore della speculazione di Clastres, il luogo intorno a cui ruota la sua interpretazione delle società primitive. Indagine antropologica che giunge a porsi una questione che travalica il campo specifico: da dove viene il potere dell'uomo sull'uomo? da dove viene il potere politico?

Etnologia e problema del potere
In relazione al problema del potere, avverte Clastres, l'etnologia ha fatto ruotare le culture primitive intorno alla cultura occidentale, senza prendere sul serio le forme politiche primitive: società senza Stato secondo la concezione tradizionale delle società primitive – «l'assenza di Stato ne segna l'incompletezza, lo stato embrionale della loro esistenza», come scrive Clastres nel breve ma essenziale La question du pouvoir dans les sociétés primitives. Analoga per molto tempo è stata la situazione riguardo alle forme economiche: un criterio fondamentale applicato tradizionalmente alle economie primitive è stato quello di economia di sussistenza, solo recentemente criticato a partire dall'opera capitale dell'antropologo americano Marshall Sahlins, del cui Stone Age Economics Clastres scrisse un'importante introduzione all'edizione francese. La medesima prospettiva che fa considerare i primitivi come uomini viventi miseramente, scrive Clastres, determina altresì il senso e il valore del discorso corrente sulla politica e il potere. La cultura occidentale pensa il potere politico in termini di relazioni gerarchiche e autoritarie di comando e obbedienza, ovvero una relazione di coercizione: ne deriva che le società primitive sono senza, mancanti di, potere politico.
Questo legame potere-coercizione è rifiutato da Clastres, che in un celebre saggio del 1969, Copernic et les Sauvages, poi primo capitolo di La Société contre l'État, scrive:

“Non è possibile dividere le società in due gruppi: con o senza potere.
Riteniamo al contrario [...] che il potere politico sia universale, immanente al fatto sociale [...] ma che si realizzi in due modi principali: potere coercitivo e potere non coercitivo; [...] Il potere politico coercitivo [...] non è il modello del vero potere, ma semplicemente un caso particolare [...] Anche nelle società in cui l'istituzione politica è assente [...] anche là la politica è presente; anche là si pone il problema del potere: [...] nel senso in cui [...] qualche cosa esiste nell'assenza [...] Non è pensabile il sociale senza il politico: in altre parole non vi sono società senza potere.”
Ciò che differenzia le società non è la presenza o l'assenza del potere politico, ma la relazione tra sfera politica e società. Il compito di un'antropologia politica è così individuato e si articola in due interrogativi: che cos'è il potere politico? e come e perché si passa dal potere politico non coercitivo al potere politico coercitivo?

Il ruolo della sfera politica nelle società primitive
Il primo scritto edito di Clastres, Echange et pouvoir: philosophie de la chefferie indienne, del 1962 (poi in La Société contre l'État), un anno prima della sua ricerca sul campo tra i Guayaki, contiene, in relazione alle società amerindiane, l'enunciazione del problema e le linee essenziali della sua interpretazione. Sulla base delle informazioni disponibili a partire dal sedicesimo secolo, appare che «è la mancanza di stratificazione sociale e di autorità del potere, che si deve considerare come il tratto pertinente dell'organizzazione politica della maggioranza delle società amerindiane». Ciò che si tratta di comprendere è «la strana persistenza di un potere pressoché impotente, di capi senza autorità». Il senso di ciò, scrive Clastres, risiede mascherato sul piano della struttura. La sua comprensione sta nell'indagine della relazione tra sfera politica e sfera dello scambio.
L'idea secondo la quale il principio di reciprocità, legge che fonda e regge la società, determini anche il rapporto tra potere e società è, sostiene Clastres, insufficiente. Infatti, soltanto apparentemente il potere è fedele a quella legge: guardando al triplice fondamentale movimento di scambio – scambio di beni, di donne, di parole – si scopre che la circolazione di questi beni avviene a senso unico, dal gruppo verso il capo (donne) e dal capo verso il gruppo (beni e parole), non è mai reciproca. Valori di scambio non regolati dal principio della reciprocità, questi flussi cadono «fuori dell'universo della comunicazione» nelle società primitive. Relazione privilegiata del potere con gli elementi il cui movimento reciproco fonda la struttura della società primitiva, ma relazione che fonda la sfera politica come esterna alla struttura della società. In quanto esterna, essa non può svilupparsi effettivamente: «Il rigetto di questa [sfera politica] all'esterno della società è il mezzo stesso per ridurla all'impotenza», così spiegando l'impotenza del capo selvaggio.
Qual è la ragion d'essere di questa separazione tra sfera politica e società? Queste società, risponde Clastres, costituiscono la loro sfera politica in funzione di un'intuizione: che il potere è nella sua essenza coercizione. La trascendenza del potere racchiude per il gruppo un rischio mortale, ed è l'intuizione di questa minaccia che conferisce profondità alla loro filosofia politica. Con questa tesi di una filosofia politica selvaggia anti-statalista viene rifiutata quell'immagine sbiadita di un'incapacità a risolvere il problema del potere politico che offriva la teoria etnologica tradizionale.
La filosofia politica anti-statalista è parte del sapere dei selvaggi: esso si costituisce attraverso le forme del mito, modo di espressione del pensiero selvaggio, e si trasmette attraverso i discorsi e i canti di capi e sciamani e attraverso i riti. Situando la propria origine nel tempo mitico del pre-umano, la società si rappresenta a se stessa immodificabile, perché insieme di regole e linguaggi voluti dai grandi antenati, dagli eroi culturali. Il pensiero indiano disloca gli antenati in un tempo prima del tempo: tempo degli accadimenti del mito, dove si svolgono, accadono, i vari atti e momenti della creazione della cultura; questa società remota del tempo del mito è continuamente rammentata nei quotidiani racconti e canti di sciamani e capi, i signori della parola, e nelle pratiche rituali. I riti, in particolare i riti di iniziazione, sono un fondamentale veicolo del sapere.
Nel rituale iniziatico la società imprime il suo marchio sul corpo dei giovani – il corpo è «una memoria» – e detta la sua legge ai propri membri: «Tu non vali meno di un altro, tu non vali più di un altro». La legge primitiva è così «un divieto di disuguaglianza».
Il sapere selvaggio esprime una filosofia politica anti-statalista: ragion d'essere dell'esistenza di un capo senza potere effettivo, come pure di altri fenomeni tipici delle società primitive, uno dei quali è argomento capitale dell'ultimo Clastres: la guerra selvaggia, di cui egli indaga il senso.
[...]

Testimone d'un antichissimo sapere

Pierre Clastres ha dato un contributo fondamentale alla riflessione sul problema della libertà: attraverso l'etnologia, ponendo il problema del politico nelle società selvagge in termini da cui nessun ricercatore dopo di lui può più prescindere. Una ricerca la sua che, a partire dallo studio della realtà amerindiana, ha teso a essere un contributo di valore generale – «non rifletto soltanto sulle società primitive amerindiane, ma sulla società primitiva in generale: luogo astratto dove si raccolgono e identificano tutte le singole società primitive», scrive in un saggio del 1977.
Grande chroniqueur, Clastres ha saputo, come pochi altri, dare spazio alla parola dell'altro. Erede di una grande tradizione culturale, quella che da Montaigne arriva a Lévi-Strauss, egli ha fatto della sua etnologia, con una lucidità teorica e una passione rara, quel che si era prefisso: la testimonianza di un antichissimo sapere, testimonianza di alternative, prima che l'ombra mortale si stenda «sull'ultimo cerchio di quest'ultima libertà». Una ricerca e un compito tragicamente interrotti, una lezione assolutamente viva.

Roberto Marchionatti

Gli stralci della prefazione qui riportati sono privi di note e riferimenti bibliografici, per la versione integrale si rimanda al libro di Pierre Clastres.

L'anarchia selvaggia

L'indagine sulla dimensione politica è il cuore della speculazione etnologica di Clastres: da dove viene il dominio dell'uomo sull'uomo? come si afferma la coercizione politica? Per rispondere a queste domande cruciali Clastres interroga quelle società “selvagge” che – smantellando un consolidato pregiudizio etnocentrico – non considera affatto come insiemi sociali immaturi che per uscire dalla loro arretratezza socio-culturale devono evolvere nella direzione della divisione sociale e dunque della gerarchia.
Al contrario, queste società indivise resistono coscientemente a qualsiasi accumulazione del potere al proprio interno che possa insinuare la diseguaglianza nel corpo sociale. E lo fanno ponendo i propri capi tribali sotto il segno di un debito verso la comunità che impedisce al loro desiderio di prestigio di trasformarsi in desiderio di potere. Sono appunto questi capi senza potere che esprimono compiutamente la filosofia politica del pensiero selvaggio, il suo essere in realtà non senza ma contro lo stato.
Pierre Clastres (1934-1977), prematuramente morto in un incidente stradale che interrompe la sua innovativa ricerca sul campo, ha insegnato Etnologia alla École Pratique des Hautes Études di Parigi. Allievo prediletto di Claude Lévi-Strauss, ha condotto le sue ricerche sulle dinamiche del potere, la guerra e la violenza in Sud America, in particolare presso le popolazioni dei Guayakí, dei Guaraní e dei Chulupi.

L'anarchia selvaggia
(le società senza stato, senza fede, senza legge, senza re)

Elèuthera, 2013, Milano,
pp. 120, € 12,00