attenzione sociale 
                    
                  a cura di Felice Accame 
                 
                    
                Il partito 
                  e il marito 
                 
                   
                  1. Nei suoi famosi Miti d'oggi 
                  – scritti tra il 1954 e il 1956 e tradotti in italiano 
                  nel 1962 –, il semiologo francese Roland Barthes battezza 
                  un tipo di critica come quella del “né-né”. 
                  Un “né questo né quello” che serve 
                  a mantenere accorte equidistanze – un sotterfugio retorico 
                  ben funzionale alla strategia politica del vile in genere. Barthes 
                  si riferiva essenzialmente ad una critica letteraria secondo 
                  la quale l'esercizio del proprio mestiere non avrebbe dovuto 
                  essere “né un gioco da salotto, né un servizio 
                  municipale”, ovvero – in altre e più esplicite 
                  parole – “né reazionaria, né comunista, 
                  né gratuita, né politica”. A suo avviso, 
                  a monte di questa “meccanica della duplice esclusione” 
                  stava tutta quella pavidità piccolo-borghese con cui, 
                  senza darlo a veder troppo, ci si erge ad “arbitri imponderabili, 
                  dotati di una spiritualità ideale, e perciò stesso 
                  giusta, come l'asta che giudica la pesata”. 
                
                  
                  2. Non occorre approfondire il 
                  pensiero anarchico per far emergere alcune connotazioni negative 
                  della nozione di “partito”. Per sua natura, per 
                  il fatto stesso di unire in nome di un criterio dirimente, il 
                  partito, al contempo, divide. Ci si fa “parte” e 
                  si tiene fuori il resto. Nel mettersi assieme ci si contrappone 
                  ad altro e, spesso, la difesa di quanto unito fa perdere di 
                  vista le buone ragioni che potrebbero essere avanzate da chi 
                  ne sta fuori. Sulle modalità stesse con cui deve poi 
                  funzionare questo partito ci si 
 
                  può dividere ulteriormente. Non a caso un valido argomento 
                  contro un partito è stato quello di chi faceva notare 
                  che, tra modalità del suo funzionamento interno e obiettivi 
                  di trasformazione sociale dichiarati, dovesse esserci piena 
                  compatibilità – che un partito sorto per trasformare 
                  una società in senso libertario – lo dico per essere 
                  ancora più chiaro – non potesse governarsi tramite 
                  il cosiddetto “centralismo democratico”, né 
                  tramite strutture decisamente autoritarie. Si potrebbe essere 
                  portati a pensare, allora, tutto il contrario di quel che, sul 
                  finire degli anni sessanta del secolo scorso, sosteneva uno 
                  slogan come “senza partito niente rivoluzione”. 
                  A questo male palese – dico al male del partito in genere 
                  –, d'altronde, non è neppure facile porre rimedio. 
                  Non è cambiandogli il nome che si cambia la natura della 
                  cosa. In molti casi, mera ipocrisia e convenienza hanno fatto 
                  sì che un partito venisse chiamato “movimento” 
                  – quando non “associazione”, sia essa “politica” 
                  o “culturale” – senza per questo mutarne la 
                  funzione, mentre, in determinate circostanze, il mancato conferimento 
                  del nome ha semplicemente significato gestioni verticistiche 
                  del tutto sottratte al controllo della base degli aderenti. 
                  È così che, anche all'epoca che stiamo vivendo, 
                  non senza angoscia assistiamo al venir meno di una garanzia 
                  fondamentale come quella che prevede almeno la piena esplicitezza 
                  dei criteri in virtù dei quali ci si riunisce in un partito 
                  piuttosto che in un altro, includendo e, di converso, escludendo. 
                   
                     
                 
                  3. Occorre invece approfondire 
                  il pensiero antiautoritario (qui la categoria di “anarchico” 
                  mi va un po' stretta) per far emergere alcune connotazioni negative 
                  della nozione di “marito”. Il termine ci deriva 
                  dal latino e designa innanzitutto la maschilità, ma non 
                  solo, perché – da un certo momento in poi – 
                  questa maschilità è diventata relazionale, designante 
                  quindi un preciso ruolo nell'istituzione matrimoniale. Non si 
                  tratta più, allora, del maschio in quanto tale, ma di 
                  una figura storica investita – autoinvestita – di 
                  potere; una figura che ha segnato l'intera storia umana di una 
                  asimmetria sociale doverosamente quanto difficilmente riducibile. 
                  Una critica dell'asimmetria di genere, dunque, non può 
                  prescindere dai requisiti ideologici assegnati al “marito” 
                  a tutto danno della “moglie” – nella divisione 
                  del lavoro, nelle competenze familiari e sessuali, nella realizzazione 
                  di ambiti di creatività, nella pratica generalizzata 
                  della quotidianità. Il “marito”, insomma, 
                  è una costruzione sociale di cui dobbiamo liberarci affinché 
                  le sue prerogative storiche non agiscano inesorabilmente nella 
                  sottomissione della donna. La ripulitura del “maschio” 
                  dalle sue incrostazioni ideologiche passa anche da lì. 
                 
                   
                4. Un particolare tipo di critica, 
                allora – non della letteratura, ma soprattutto degli usi 
                e dei costumi sociali – è quella espressa su un muro 
                di Milano verso la fine di settembre di questo 2012: “Né 
                partito Né marito” firmato da una A cerchiata in 
                simbiosi con il segno della sessualità femminile. In essa, 
                il “né-né” sarà anche il risultato 
                di una “retorica bilanciata” – come avrebbe 
                voluto Barthes –, ma vi è anche consegnato il risultato 
                di un'analisi radicale del meccanismo del consenso colto nei due 
                ambiti fondamentali della “politica” e delle “mura 
                domestiche” – ambiti la cui sinergicità, per 
                una volta, viene finalmente svelata.
    
                  Felice Accame 
                 Nota 
                  La simbiosi tra il simbolo dell'anarchia e quello della sessualità 
                  femminile piacerebbe a Giorgio Galli che, da storico, ha visto 
                  nella caccia alle streghe ed in altre analoghe manifestazioni 
                  degli apparati di potere la repressione del pensiero oppositivo 
                  in genere. Tuttavia, come tale, pone anche dei “problemi” 
                  – forse gli stessi che Barthes avrebbe ascritto alla matrice 
                  piccolo-borghese della critica del “né-né”. 
                  La progettazione sociale anarchica, infatti, non può 
                  passare attraverso nessuna discriminazione, pena il venir meno 
                  della correttezza del rapporto fra mezzo e scopo – nemmeno 
                  può passare, dunque, dal semplice rovesciamento di un 
                  rapporto di forze tra i suoi soggetti storici. 
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