La svastica 
                  allo stadio 2  
                Ernest Erbstein, l'uomo che fece grande il Torino  
                di Giovanni A. Cerutti 
                    Molti ricordano il Grande Torino; pochi la storia del suo allenatore Ernest Erbstein, ebreo ungherese, morto anche lui nel famoso incidente aereo di Superga. Calcio e politica si intrecciano nell'odissea sua e della sua famiglia attraverso l'Europa. 
                
                   
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                    “Ernest” Erbstein (Nagyvárad,13 maggio 1898 -  Superga,4 maggio 1949)  | 
                   
                 
                 
                   
                   
                  Bacigalupo; Ballarin, Maroso; 
                  Grezar, Rigamonti, Castigliano; Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, 
                  Ossola. Chi non ha sentito almeno una volta nella vita scandire 
                  la formazione della formidabile squadra che aveva fatto sognare 
                  l'Italia che provava a lasciarsi alle spalle i disastri della 
                  guerra e del ventennio fascista? O narrare le gesta leggendarie 
                  di capitan Mazzola, quando rimboccandosi le maniche dava il 
                  via al “quarto d'ora granata”, che segnava la fine 
                  di ogni velleità di vittoria per qualsiasi avversario? 
                  E chi non conosce la vicenda della tragedia del 4 maggio 1949, 
                  quando l'aereo che riportava a casa la squadra granata da Lisbona 
                  si schiantò sul terrapieno della collina di Superga che 
                  sovrasta la città di Torino? Ma è ben difficile 
                  che abbiate sentito raccontare la storia dell'uomo che quella 
                  squadra guidò, dopo averla costruita pezzo per pezzo. 
                  E, soprattutto, che sappiate quanto quella storia si intrecciò 
                  con la pagina più buia del Novecento europeo. 
                  Ernest Erbstein era nato il 13 maggio 1898 a Nagyvárad, 
                  una cittadina dell'impero austroungarico che allora contava 
                  circa cinquantamila abitanti, e che oggi, con il nome di Oradea, 
                  fa parte della Romania, cui fu assegnata dal trattato di Trianon 
                  al termine della Prima guerra mondiale. 
                  Quando Ernest aveva due anni, la sua famiglia si trasferì 
                  a Budapest, dove completò gli studi diplomandosi al Magyar 
                  Testnevelesi Foiskö, l'Accademia ungherese di educazione 
                  del corpo. 
                  Nel 1915, all'età di diciassette anni, iniziò 
                  la carriera di calciatore nel B.A.K Budapest, dove restò 
                  fino al 1924. Per mantenersi, aveva parallelamente iniziato 
                  l'attività di agente di borsa. Nel 1924 trovò 
                  un ingaggio in Italia, nell'Olympia Fiume, che militava in Seconda 
                  divisione - equivalente grosso modo all'attuale Prima divisione 
                  della Legapro - e l'anno successivo passò al Vicenza, 
                  sempre nella stessa categoria. Quello stesso anno si era sposato 
                  con Jolanda Hunterer e nel 1926, a Budapest, nacque la loro 
                  prima figlia, Susanna. Nonostante la buona stagione al Vicenza, 
                  dove disputò ventotto partite realizzando due gol, la 
                  carriera professionistica stentava a decollare, tanto più 
                  che la Carta di Viareggio - come viene comunemente chiamato 
                  il documento con il quale, nel 1926, la Federazione Italiana 
                  Gioco Calcio dettò le linee attorno a cui vennero ristrutturati 
                  i campionati - aveva, tra le altre disposizioni, vietato l'ingaggio 
                  di calciatori stranieri a partire dal 1928 - dopo due anni di 
                  regime transitorio in cui sarebbe stato possibile tesserare 
                  due calciatori stranieri, ma farne giocare uno per volta - in 
                  ossequio alla politica nazionalista del regime fascista, che 
                  aveva appena consolidato il suo potere con le leggi fascistissime 
                  del 1925-1926. Il danno per le società fu enorme, considerando 
                  che nei campionati italiani militavano più di ottanta 
                  calciatori di nazionalità straniera, soprattutto austriaci 
                  e ungheresi. Fu allora che improvvisamente alla maggior parte 
                  dei campioni argentini e uruguagi - per usare la lezione di 
                  Brera - furono avventurosamente scovati nonni, o almeno bisnonni, 
                  italiani, dando il via a tortuose pratiche di naturalizzazione 
                  che portarono molti di loro a giocare addirittura in Nazionale. 
                  Il principio dello ius soli era al di là da venire; 
                  non restava, dunque, che darsi da fare sulle linee di successione 
                  del sangue. Erbstein fu così costretto a cercarsi un 
                  ingaggio negli Stati Uniti, nei Brooklyn Wanderers di proprietà 
                  di Nathan Agar, che all'inizio del secolo era stato tra i fondatori 
                  della United States Football Association. Dopo poco più 
                  di un anno, però, rientrò in Italia e pensò 
                  di combinare la sua passione per il calcio con i suoi studi, 
                  intraprendendo la carriera di allenatore. 
                   
                    Il calcio 
                  diventa un business
                
  L'aspetto principale della Carta di Viareggio era stato quello 
                  di introdurre ufficialmente il professionismo, regolamentando 
                  una situazione che si era creata di fatto e che, nel vuoto normativo, 
                  aveva sollevato più di una polemica. La crescente popolarità 
                  del calcio ne stava facendo un centro di interessi economici. 
                  Le squadre delle grandi città strappavano i campioni 
                  alle squadre di provincia offrendo soldi alle società 
                  e stipendi ai calciatori, trasformando definitivamente un hobby 
                  in una professione ben remunerata - anche se i campioni di allora 
                  impallidirebbero di fronte agli stipendi che percepiscono oggi 
                  mediocri brocchetti che passano il tempo tra la panchina e la 
                  tribuna - e mettendo fine alla stagione romantica della squadra 
                  di calcio espressione della gioventù cittadina, con relativa 
                  identificazione. Da allora diventò anche molto difficile, 
                  per quelle squadre che sarebbero ben presto state definite “provinciali”, 
                  vincere il campionato. Paradigmatico in questo senso il caso 
                  di Virginio Rosetta, il terzino vercellese che a diciotto anni 
                  trascinò la Pro Vercelli vincitrice dei campionati 1920-21 
                  e 1921-22, che nel 1923 passò alla Juventus di Edoardo 
                  Agnelli, per l'allora astronomica cifra di cinquantamila lire 
                  e, soprattutto, per il congruo stipendio che gli permetteva 
                  di non lavorare, mentre pare che alla Pro non esistessero neppure 
                  i premi partita, visto che ciò che contava era l'orgoglio 
                  di difendere i colori della squadra della propria città. 
                  Furono gli ultimi due scudetti di un club che ne vanta sette 
                  nel suo palmarès e che era riuscita, unica squadra 
                  dell'epoca, a non perdere contro il Liverpool nel corso della 
                  tournée italiana dei maestri inglesi. Era chiaro che 
                  gli investimenti massicci dei proprietari delle squadre - in 
                  larga parte industriali spinti dai gerarchi cittadini ad acquisire 
                  le società calcistiche per sfruttare la popolarità 
                  del calcio in termini di consenso al regime e, nel contempo, 
                  per costruire le proprie carriere personali - richiedessero 
                  di essere tutelati affidandole ad allenatori competenti e preparati. 
                  Anzi, anche se gli stipendi degli allenatori erano di molto 
                  inferiori a quelli dei grandi campioni, persino le squadre dilettantistiche 
                  iniziarono a investire i pochi soldi che avevano nell'ingaggio 
                  di allenatori che conoscessero decentemente i rudimenti del 
                  gioco. 
                  La carriera di allenatore di Erbstein iniziò nella stagione 
                  1928-29 nel Bari, che allora militava nella Divisione nazionale. 
                  Fu quello l'ultimo campionato della massima serie disputato 
                  con questa formula, prima dell'introduzione del girone unico. 
                  Quell'anno il Bari si piazzò tredicesimo nel girone A. 
                  La stagione successiva Erbstein si trasferì a Nocera, 
                  dove guidò la squadra locale a ottenere il quinto posto 
                  nel girone finale meridionale del campionato di Prima divisione 
                  - terzo livello del campionato di calcio dopo la riforma. Un 
                  risultato così entusiasmante che, nel dopoguerra, la 
                  città campana intitolò a Erbstein il viale attiguo 
                  allo stadio. 
                  Nella stagione 1930-31 passò al Cagliari, che militava 
                  nello stesso campionato, ottenendo la promozione dopo aver vinto 
                  sia il girone F che il successivo girone finale del sud. La 
                  stagione seguente arrivò il tredicesimo posto nel campionato 
                  di serie B. Intanto, nel 1931, a Budapest, dove era rimasta 
                  la famiglia, era nata Martha, la seconda figlia. 
                  La fama di Erbstein cominciò a crescere, tanto che nella 
                  stagione 1932-33 venne richiamato a Bari, ma questa volta in 
                  serie A, a sostituire Árpád Weisz, ritornato all'Inter. 
                  La stagione, però, cominciò male e dopo sette 
                  giornate Erbstein venne esonerato; il Bari retrocedette comunque, 
                  avendo ottenuto il diciassettesimo posto in classifica. Così, 
                  l'anno successivo, Erbstein tornò ad allenare in Prima 
                  divisione alla Lucchese, dove restò cinque anni affermandosi 
                  definitivamente come uno dei più capaci tecnici del calcio 
                  italiano. La Lucchese ottenne subito la promozione in serie 
                  B, vincendo sia il girone F che il girone finale C, in cui vinse 
                  tutte le partite. Dopo un settimo posto nel girone A nella stagione 
                  1934-35, la stagione successiva Erbstein portò la Lucchese 
                  in serie A per la prima volta nella storia della squadra, vincendo 
                  davanti al Novara, anch'esso promosso, il primo campionato di 
                  serie B a girone unico. L'esordio nella massima divisione si 
                  concluse con uno strabiliante settimo posto, a pari merito con 
                  l'Ambrosiana, mentre il Novara retrocesse subito, nell'anno 
                  del secondo scudetto del Bologna di Weisz. La stagione seguente 
                  Erbstein ebbe problemi di salute, tanto che alla diciottesima 
                  giornata venne affiancato da Umberto Calligaris, il terzino 
                  della Juventus dei cinque scudetti e della Nazionale. La Lucchese 
                  concluse la stagione al quattordicesimo posto, l'ultimo utile 
                  per la salvezza. 
                  Ma ormai Erbstein era universalmente riconosciuto come uno dei 
                  tecnici più preparati del campionato italiano e ricevette 
                  dal presidente Cuniberti l'offerta di trasferirsi al Torino. 
                  Dopo i secondi posti ottenuti nel 1907 e nel 1915, la squadra 
                  granata era emersa tra le protagoniste del calcio nazionale 
                  soltanto alla fine degli anni venti, quando era arrivato alla 
                  presidenza il conte Marone Cinzano, vincendo due scudetti consecutivi 
                  nelle stagioni 1926-27 e 1927-28 - anche se il primo venne revocato 
                  per una faccenda di corruzione mai veramente chiarita, che coinvolse 
                  il terzino della Juventus e della Nazionale Allemandi - e perdendo 
                  soltanto la finale della Divisione nazionale contro il Bologna 
                  la stagione successiva, grazie soprattutto al formidabile centravanti 
                  argentino - ma con nonni italiani... - Julio Libonatti e alle 
                  mezzeali Adolfo Baloncieri e Gino Rossetti. Dopo qualche anno 
                  di flessione era tornata a occupare le prime posizioni della 
                  classifica alla metà degli anni trenta, ottenendo due 
                  terzi posti nel 1935-36 e nel 1936-37. Per Erbstein si trattava, 
                  dunque, di un'occasione decisamente interessante per dare una 
                  svolta alla sua carriera, tuttavia esitò non poco ad 
                  accettare. A Lucca aveva trasferito definitivamente la sua famiglia, 
                  che si era ambientata molto bene, e le sue figlie avevano cominciato 
                  a frequentare la scuola, stringendo le prime amicizie. Ma l'entità 
                  della proposta economica di Cuniberti fu tale che Erbstein decise 
                  di firmare il contratto con la società granata. 
                   
                    Bruno 
                  Neri, mediano e partigiano
                  Erbstein si era portato dalla Lucchese il neocampione del 
                  mondo Aldo Olivieri, che aveva sostituito tra i pali della Nazionale 
                  Giampiero Combi, e aveva fatto debuttare la mezzala dei Balon 
                  Boys - come si chiamava allora la squadra cadetta del Torino 
                  - Raf Vallone. Aveva anche ritrovato il mediano Bruno Neri, 
                  tre presenze in Nazionale, che era passato dalla Lucchese al 
                  Torino l'anno prima. Nel 1931, quando militava nella Fiorentina, 
                  nel corso dell'inaugurazione dello stadio di Firenze - oggi 
                  intitolato ad Artemio Franchi - al “martire fascista” 
                  Giovanni Berta, Neri rifiutò, unico calciatore in campo, 
                  di fare il saluto romano. Vicino al gruppo popolare di Giovanni 
                  Gronchi, dopo l'armistizio Neri interruppe la carriera - dal 
                  1941 era diventato allenatore alla guida del Faenza - per unirsi 
                  alle prime bande partigiane, fino a diventare vicecomandante 
                  del Battaglione Ravenna. Il 10 luglio del 1944 venne ucciso 
                  all'Eremo di Gamogna, sull'Appenino tosco-romagnolo, durante 
                  uno scontro a fuoco con reparti tedeschi. 
                  L'inizio di campionato fu spumeggiante. Dopo aver battuto 5 
                  a 1 la Lucchese a Torino, alla quarta giornata il Torino di 
                  Erbstein batté a Bologna la squadra di Weisz per 3 a 
                  0, portandosi in testa alla classifica a pari punti con il sorprendente 
                  Liguria. Un pareggio in casa con la Lazio e una brutta sconfitta 
                  contro la Roma fermarono momentaneamente la corsa dei granata. 
                  Ma all'undicesima giornata, sconfiggendo in casa i campioni 
                  d'Italia dell'Ambrosiana per due a uno, il Torino tornò 
                  in testa alla classifica. È il 18 dicembre del 1938. 
                  La sera stessa Erbstein venne convocato in questura. È 
                  un cittadino straniero e dal suo nome si evince chiaramente 
                  la sua origine ebraica. Poco importa che non pratichi da tempo 
                  nessuna religione, pur avendo un profondo rispetto per la dimensione 
                  religiosa. E le sue figlie, pur essendo state battezzate, non 
                  potranno più frequentare la scuola. In forza delle disposizioni 
                  delle leggi razziali, come abbiamo visto (“A” 374), 
                  deve lasciare l'Italia e, di conseguenza, la panchina del Torino. 
                  Due mesi dopo Weisz, un altro allenatore è costretto 
                  ad abbandonare il campionato. Come nel caso di Weisz, nessuna 
                  reazione. L'allenatore rivelazione alla guida della capolista 
                  e il maestro vincitore di tre scudetti spariscono senza che 
                  nessuno senta la necessità di prendere pubblicamente 
                  la parola. Nessuna protesta, nessun rilievo, nessuna osservazione. 
                  Solo in un articolo di commento al campionato di qualche settimana 
                  dopo, Vittorio Pozzo, il commissario tecnico della Nazionale 
                  che seguiva le partite del Torino per il quotidiano torinese 
                  “La Stampa”, osservò che la squadra granata 
                  avrebbe dovuto lavorare ancora molto per tornare al gioco brillante 
                  che le aveva dato Erbstein. Certo, nessun riferimento al motivo 
                  che l'ha costretto a lasciare la guida della squadra, ma se 
                  non altro il nome di Erbstein viene evocato. Più dell'antisemitismo, 
                  che pure dimostrò di avere radici nella società 
                  italiana, fa riflettere oggi l'indifferenza con cui la maggior 
                  parte degli italiani assistette all'applicazione delle leggi 
                  razziali. Il regime dittatoriale non spiega tutto: emerge una 
                  desuetudine alla dimensione pubblica della vita associata da 
                  cui, forse, non ci siamo del tutto affrancati neppure oggi. 
                  Non si tratta solo di aver ignorato il destino degli altri, 
                  in questo caso chi viene definito ebreo, si tratta dell'assenza 
                  della consapevolezza della ferita che l'esclusione immotivata 
                  stava infliggendo all'idea stessa di convivenza umana. Vale 
                  la pena notare che il campionato 1938-39 si concluderà 
                  con la vittoria del Bologna con quarantadue punti e il secondo 
                  posto del Torino con trentotto punti. Di Weisz, come abbiamo 
                  visto, e di Erbstein, come vedremo, nessuno si ricordava già 
                  più. 
                  Al Torino, però, cercarono, per quanto possibile, di 
                  restare al fianco di Erbstein e di aiutarlo a trovarsi una sistemazione. 
                  Tra i dirigenti della squadra granata, fu soprattutto Ferruccio 
                  Novo a comprendere il valore di Erbstein. I due strinsero un 
                  intenso rapporto di collaborazione, che si rafforzò dopo 
                  che Novo assunse la presidenza del Torino al termine del campionato 
                  1938-39, e che sarà la base sulla quale verrà 
                  costruito lo squadrone che dominerà il calcio italiano 
                  nell'immediato dopoguerra. 
                   
                    Fermati 
                  alla frontiera
                  Quando Erbstein capì che non c'era alcuna possibilità 
                  di sfuggire alle disposizioni previste dalle leggi razziali, 
                  prese contatti con un suo vecchio amico, Ferenc Molnar, che 
                  già quindici anni prima gli aveva procurato l'ingaggio 
                  all'Olympia Fiume, che si trovava a Rotterdam, dove allenava 
                  il Feyenoord. Molnar era ben conosciuto nell'ambiente, avendo 
                  militato a lungo nel campionato italiano sia come calciatore 
                  che come allenatore. Con l'aiuto di Molnar, Erbstein riuscì 
                  ad accordarsi con la squadra olandese, proponendo al Torino 
                  di ingaggiare al suo posto il collega che gli aveva ceduto il 
                  posto. Il Torino accettò, soprattutto per permettergli 
                  di trovare una sistemazione. 
                  Molnar venne presentato alla squadra il 4 febbraio del 1939; 
                  Erbstein, invece, non arrivò mai a Rotterdam. Partito 
                  in treno con la famiglia da Torino, venne fermato in territorio 
                  tedesco alla frontiera tra la Germania e l'Olanda, probabilmente 
                  a Kleve, dalle autorità naziste. Era in possesso di un 
                  visto rilasciato dal consolato olandese e aveva con sé 
                  il contratto firmato con il Feyenoord, ma non ci fu nulla da 
                  fare. Intervenne il console ungherese in Germania; furono presi 
                  contatti con il consolato olandese di Torino, che inviò 
                  un nuovo visto, ma alla famiglia Erbstein non fu permesso di 
                  entrare in Olanda. Il soggiorno in Germania si protrasse, così, 
                  per alcune settimane, ma per l'ebreo Erbstein nessun albergo 
                  aveva una stanza. Non riuscì nemmeno ad affittare una 
                  casa e dovette cercare una famiglia ebrea disposta a ospitarlo. 
                  Del resto nella Germania del 1939 non era difficile capire dove 
                  abitavano le famiglie ebree: bastava cercare le stelle gialle 
                  sulle porte. 
                  Alla fine Erbstein dovette rinunciare al Feyenoord. L'unica 
                  possibilità che gli rimaneva era di tornare a Budapest, 
                  dove aveva ancora i genitori e gli zii, ma dove avrebbe dovuto 
                  inventarsi un lavoro e fronteggiare l'inasprimento del tradizionale 
                  antisemitismo che aveva caratterizzato il regime di Horty, che 
                  la contrastata alleanza con la Germania nazista stava scatenando. 
                  Il problema del lavoro fu risolto grazie all'aiuto del Torino. 
                  Novo gli procurò la rappresentanza di alcune ditte tessili 
                  del biellese, attività che gli permise, tra l'altro, 
                  di recarsi in Italia più di una volta, verosimilmente 
                  fino all'armistizio dell'8 settembre 1943, sottoponendosi a 
                  incredibili rischi nell'attraversare l'Europa occupata dall'esercito 
                  tedesco. Erbstein divenne il consigliere principale di Novo, 
                  che stava costruendo quello che sarebbe presto diventato il 
                  Grande Torino. Dopo il secondo posto nel campionato 1941-42 
                  dietro alla Roma, il primo scudetto arrivò nel campionato 
                  1942-43, l'ultimo disputato prima della sospensione bellica, 
                  dopo che Erbstein aveva consigliato a Novo l'acquisto delle 
                  mezzeali del Venezia Ezio Loik e Valentino Mazzola e del mediano 
                  della Triestina Giuseppe Grezar. 
                  Quanto all'antisemitismo, il clima stava diventando così 
                  pesante che Erbstein pensò prudentemente di cambiare 
                  il suo cognome in Egri, un nome molto diffuso in Ungheria e 
                  che non tradiva le sue origini ebraiche. Da qui la confusione 
                  che qualche volta si crea sul nome di Erbstein. Ma l'accorgimento 
                  servì a poco quando l'Ungheria venne invasa dalle truppe 
                  tedesche il 18 marzo del 1944.
                 
                   
                    |   | 
                   
                   
                    Erbstein 
                        (il primo a destra) e il Grande Torino nel 1949  | 
                   
                 
                   Il 
                  regime di Horty e leggi razziali  
                  Gli ebrei ungheresi avevano ottenuto la parità civile 
                  e politica fin dal 1867, con la nascita della monarchia austro-ungarica, 
                  e la parità religiosa nel 1895. Tuttavia, dopo la disgregazione 
                  dell'Impero al termine della Prima guerra mondiale, la questione 
                  ebraica divenne uno degli argomenti centrali del dibattito pubblico 
                  del nuovo stato e forti correnti antisemite si affermarono all'interno 
                  della società ungherese. L'omogeneità etnica che 
                  si era determinata all'interno dei nuovi confini rendeva inutile 
                  la ricerca dell'alleanza del gruppo ebraico, che invece era 
                  risultata strategica nel mantenere la rilevanza dell'elemento 
                  ungherese nel mosaico multinazionale dell'Impero. Anzi, dopo 
                  il fallimento della rivoluzione democratica del 1918, interrotta 
                  dalla dittatura comunista di Bela Kun, e la successiva nomina 
                  dell'ammiraglio Horty a reggente dell'Assemblea nazionale dopo 
                  il suo ingresso a Budapest alla testa dell'“esercito nazionale”, 
                  l'ideologia cristiano-nazionale del nuovo regime - che rimase 
                  uno stato parlamentare, anche se non certo liberale, in cui 
                  il partito unico di governo era diviso al suo interno tra un'ala 
                  ultraconservatrice e un'ala propriamente fascista, che non fu 
                  mai maggioritaria - aveva tra i suoi fondamenti un naturale 
                  antisemitismo. Tanto che nel 1920 l'Ungheria fu il primo paese 
                  europeo nel corso del Novecento a introdurre una legge antiebraica, 
                  detta del “numerus clausus”, che limitava l'accesso 
                  degli studenti di origine ebraica agli istituti di istruzione 
                  superiore. 
                  Dopo l'avvento al potere di Hitler in Germania nel 1933, l'Ungheria 
                  entrò nell'orbita di influenza tedesca, non tanto per 
                  motivi di affinità ideologica, quanto per logiche di 
                  politica estera. Punto centrale della politica del regime di 
                  Horty, anzi si può dire motivo principale della sua esistenza, 
                  era la revisione dei trattati di Trianon, per recuperare tutti 
                  i territori all'interno dei quali vivevano gruppi di etnia ungherese, 
                  o supposta tale. È un classico esempio del tarlo che 
                  il principio di nazionalità di Wilson, così nobile 
                  nelle intenzioni, inserì nella politica europea del primo 
                  dopoguerra, rendendo ingovernabile l'area dei Balcani. E sulla 
                  scena europea il regime di Hitler si presentò come la 
                  giovane potenza decisa a mettere in discussione l'ingiusto dominio 
                  delle nazioni decadenti sancito a Versailles e a Trianon da 
                  trattati di pace illegittimi. L'alleanza con la Germania venne 
                  formalizzata dall'adesione dell'Ungheria al patto anti-comintern 
                  il 13 gennaio 1939 e al patto dell'asse il 20 novembre 1940. 
                  Ma già prima di allora l'Ungheria aveva beneficiato di 
                  ampliamenti territoriali dopo tutte le prove di forza che avevano 
                  caratterizzato la politica estera del regime hitleriano sul 
                  finire degli anni trenta, a cominciare dal patto di Monaco. 
                  Il 27 giugno del 1941, l'Ungheria affiancò le potenze 
                  dell'asse, dichiarando guerra all'Unione Sovietica. Ma l'andamento 
                  del conflitto bellico indusse Horty a prendere contatti con 
                  l'Inghilterra nel settembre del 1943 per trattare un armistizio. 
                  Di conseguenza, il 18 marzo 1944 Hitler invase l'Ungheria per 
                  dettare a Horty, che restò formalmente al potere, le 
                  linee di politica interna da seguire. Tra i primi provvedimenti 
                  presi, la deportazione degli ebrei ungheresi. D'altra parte 
                  le due leggi antiebraiche approvate dal parlamento ungherese 
                  il 29 maggio 1938 e il 5 maggio 1939 avevano già introdotto 
                  restrizioni sempre più soffocanti. Avevano anche aperto 
                  una linea di conflitto all'interno delle comunità ebraiche. 
                  Le due leggi, infatti, definivano l'appartenenza alla comunità 
                  ebraica su base religiosa e non razziale, suggerendo, implicitamente, 
                  che chi si fosse fatto battezzare non sarebbe incorso nelle 
                  disposizioni introdotte. Paradossalmente, questa concezione 
                  meno fanatica di quella nazista finiva per porre dilemmi in 
                  cui scelte personali e lealtà collettive venivano sollecitate 
                  oltre misura. Nel mese di luglio, però, indotto dalle 
                  pressioni di Roosevelt, che minacciò di penalizzare duramente 
                  l'Ungheria nel trattato di pace, e dal re della neutrale Svezia 
                  Gustavo, Horty fermò le deportazioni dei cittadini ebrei, 
                  procedendo nel contempo a un rimpasto di governo. E il 15 ottobre 
                  1944 concluse un armistizio con l'Unione Sovietica. A quel punto, 
                  Hitler procedette all'occupazione militare anche di Budapest, 
                  arrestando Horty e affidando la gestione del governo al leader 
                  delle Croci frecciate Ferenc Szálasi. Era la logica fine 
                  di una politica velleitaria e presuntuosa, che pensava di utilizzare 
                  il revanscismo nazista per i propri fini senza pagare dazio. 
                  È anche la dimostrazione di quanto la cifra fondamentale 
                  del Novecento sia stata la dismisura: nell'età dei totalitarismi 
                  - L'ère des tyrannies di Élie Halévy 
                  - non era possibile pensare di intraprendere una politica senza 
                  arrivare alle conseguenze finali. La discriminazione portava 
                  direttamente all'annientamento; pensare di evitare le deportazioni 
                  dopo aver discriminato sulla base degli stessi argomenti si 
                  era rivelata una tragica illusione. Se non altro oggi dovrebbe 
                  esserci chiaro che certe chine non vanno mai, per nessuna ragione, 
                  nemmeno imboccate. 
                  Con l'invasione tedesca di Budapest, il precario equilibrio 
                  che Erbstein era riuscito a mantenere per sé e per la 
                  sua famiglia venne drammaticamente infranto. La decisione di 
                  far battezzare le sue figlie in ossequio alla tradizione del 
                  paese che lo ospitava le aveva poste al riparo dalla politica 
                  antisemita del regime di Horty e anche lui era riuscito a barcamenarsi 
                  tra le misure introdotte dalla legislazione antiebraica. Ma 
                  con l'avvento al potere di Szálasi, che il regime di 
                  Horty aveva imprigionato più di una volta, si scatenò 
                  in Ungheria la caccia all'ebreo, con massacri e uccisioni indiscriminate, 
                  che aprirono un conflitto nientemeno che con Himmler, che non 
                  gradiva questi atti sconsiderati senza metodo e cercò 
                  di riportare l'annientamento degli ebrei all'interno della ordinata 
                  logica pianificata insieme a Eichmann. I sovietici erano ormai 
                  alle porte, ma riusciranno a prendere il controllo di Budapest 
                  soltanto l'11 febbraio 1945. 
                   
                    Fu Susanna 
                  a intercettare la notizia...
                  Furono quattro mesi infernali. Dopo la prima invasione tedesca 
                  nel marzo del 1944, Erbstein era stato internato in un campo 
                  in territorio ungherese, i cui prigionieri erano utilizzati 
                  per la costruzione di strade e ferrovie o per rimuovere macerie 
                  e scavare fortificazioni. Sfuggì, così, alla prima 
                  ondata di deportazioni, molto probabilmente perché venne 
                  giudicato adatto a essere utilizzato per le esigenze belliche 
                  del Reich. La figlia Susanna, diciottenne, riuscì invece, 
                  grazie ai contatti che aveva mantenuto con gli ambienti cattolici, 
                  a riparare in un pensionato per ragazze cattoliche di origine 
                  ebraica, che il sacerdote padre Klinda era riuscito a organizzare 
                  alla periferia di Budapest, ottenendo l'autorizzazione a produrre 
                  divise per l'esercito ungherese e ponendolo, tramite l'intervento 
                  del nunzio vaticano a Budapest monsignor Angelo Rotta, sotto 
                  la protezione dello Stato Pontificio. Dopo poco tempo, Susanna 
                  ottenne che fosse accolta nel pensionato anche la madre, per 
                  svolgere le funzioni di cuoca, e con lei la sorella tredicenne. 
                  Ma dopo l'invasione nazista di Budapest la situazione precipitò. 
                  Una domenica di autunno, il pensionato di padre Klinda venne 
                  assaltato da un reparto di Croci frecciate. Le ragazze furono 
                  costrette a uscire dalla villa. Ma mentre stavano marciando, 
                  la colonna fu intercettata da un reparto dell'esercito regolare 
                  che intimò ai miliziani di liberare le ragazze, che furono 
                  ricondotte al pensionato. Susanna e la madre decisero di fuggire 
                  quella notte stessa, riuscendo a raggiungere Pest, dove abitava 
                  la sorella di Jolanda, che riuscì a procurare alle tre 
                  donne dei documenti falsi, da cui risultavano sfollate da una 
                  città già occupata dalle truppe russe. Poterono, 
                  così, essere registrate come regolari inquiline. Con 
                  questi documenti, Susanna poté anche presentarsi a un 
                  centro di addestramento di primo soccorso, ottenendo il brevetto 
                  di crocerossina, in virtù del quale fu dotata di una 
                  tessera che la autorizzava a circolare anche dopo il coprifuoco. 
                  Anche Erbstein riuscì a fuggire dal campo di lavoro in 
                  cui era internato e a raggiungere il resto della famiglia. Ma 
                  per lui non fu più possibile ottenere documenti falsi 
                  e dovette nascondersi nelle cantine dello stabile in cui abitava 
                  la cognata. Il 20 dicembre cominciò l'assedio finale 
                  di Budapest da parte delle forze alleate. Ma anche sotto i colpi 
                  dell'artiglieria e dell'aviazione sovietica, le Croci frecciate 
                  continuarono senza sosta la loro fanatica caccia agli ebrei. 
                  Che arrivò fino alle cantine del palazzo dove si era 
                  rifugiato Erbstein. Fu Susanna, mentre stava prestando le proprie 
                  cure a un'inquilina del palazzo, a intercettare appena in tempo 
                  la notizia e a decidere su due piedi di attraversare la città 
                  per mettere il padre sotto la protezione di Raul Wallenberg, 
                  un funzionario della legazione svedese, incaricato dal War Refugee 
                  Board, fondato dal presidente Roosevelt, di impedire per quanto 
                  possibile la deportazione degli ebrei ungheresi. Wallenberg 
                  venne poi arrestato dai soldati sovietici il 16 gennaio 1945, 
                  subito dopo l'ingresso a Budapest, e ancora oggi non si conosce 
                  con esattezza la sua sorte. Indossata la divisa della Croce 
                  Rossa e munita del suo lasciapassare, Susanna si caricò 
                  sulle spalle il padre, che strascicava i piedi fingendosi ferito, 
                  riuscendo a giungere a destinazione dopo alcune ore. Quindi 
                  tornò a casa, dove il giorno dopo avvenne effettivamente 
                  la perquisizione alla ricerca di ebrei nascosti. Ne vennero 
                  trovati tre, due anziani coniugi e un uomo, che furono immediatamente 
                  uccisi nel cortile. 
                  Liberata Budapest, Erbstein poté lasciare lo stabile 
                  posto sotto la protezione svedese dove era stato sistemato da 
                  Wallenberg e tornare a casa, riunendo finalmente la sua famiglia. 
                  Non appena fu terminata la guerra, si ristabilirono i contatti 
                  con Ferruccio Novo, che gli propose subito di tornare a Torino 
                  per riprendere la guida della squadra. Dopo due stagioni di 
                  interruzione, il 14 ottobre 1945 sarebbe ripreso il campionato 
                  di serie A, ripristinando l'antica formula della Divisione nazionale 
                  - Campionato Alta Italia e Campionato misto Bassa Italia, più 
                  un girone finale nazionale - in un paese ferito dalla guerra, 
                  in cui era ancora molto difficile spostarsi. Il Torino si apprestava 
                  a partecipare con lo scudetto sulla maglia, avendo vinto l'ultimo 
                  campionato disputato nel 1942-43. 
                   
                    Quattro 
                  campionati e molti record imbattuti
                  Cominciò così la straordinaria avventura del 
                  Grande Torino. Le leggi razziali erano state abrogate sul territorio 
                  italiano dal governo militare alleato il 12 luglio del 1943, 
                  due giorni dopo lo sbarco in Sicilia. Il decreto diventò 
                  una delle condizioni poste dall'armistizio e venne applicato 
                  man mano che procedeva la liberazione delle provincie italiane. 
                  Il primo documento del Regno d'Italia che recepisce la condizione 
                  armistiziale è datato 12 settembre 1943. Così, 
                  l'ebreo ungherese Erbstein può ristabilirsi in Italia; 
                  anzi può tornare a essere semplicemente un cittadino 
                  straniero che ha scelto di vivere e lavorare in Italia. Anche 
                  se nessuno può restituirgli gli anni che ha perso. Come 
                  sarebbe stata la sua carriera se non avesse dovuto abbandonare 
                  l'Italia nel 1938? Erbstein prova a lasciarsi alle spalle il 
                  passato, cominciando da subito a mettere mano alla squadra, 
                  che acquistò il suo volto definitivo con l'arrivo di 
                  Bacigalupo dal Savona, Ballarin dalla Triestina, Castigliano 
                  dallo Spezia e con il rientro dal prestito all'Alessandria del 
                  ventenne terzino Virgilio Maroso. Attorno alla straordinaria 
                  classe di Valentino Mazzola, l'operaio dell'Alfa Romeo che aveva 
                  scovato a Venezia, Erbstein sviluppò un'idea di calcio 
                  che avrebbe trovato un erede soltanto trent'anni dopo nell'Ajax 
                  di Johan Crujff. La sua versione del sistema WM era spiccatamente 
                  offensiva, costruita su una avanzata preparazione fisica, che 
                  prevedeva allenamenti differenziati per ogni ruolo e diete specifiche 
                  per ogni giocatore, su un costante sviluppo del bagaglio tecnico, 
                  che prevedeva raffinati esercizi con il pallone, e su un attento 
                  studio dei movimenti in campo dei giocatori, che prevedeva almeno 
                  un'ora alla settimana di lezione alla lavagna. Ma tutti quelli 
                  che hanno visto giocare quel Torino concordano nel ritenere 
                  che il suo vero punto di forza era l'affiatamento che legava 
                  i giocatori, anche fuori dal campo di gioco, affiatamento che 
                  nasceva intorno alle qualità umane di Erbstein. Tra i 
                  suoi libri più cari c'era l'Homo ludens dello 
                  storico olandese Johan Huizinga, pubblicato in lingua tedesca 
                  ad Amsterdam nel 1939 e tradotto in italiano nel 1946 da Einaudi, 
                  in cui l'autore dell'Autunno del Medioevo e della Crisi 
                  della civiltà, analizza per la prima volta il gioco 
                  come fenomeno culturale. Huizinga era stato poi arrestato nel 
                  1942 dalla Gestapo dopo aver tenuto un discorso all'università 
                  di Leiden - dove era titolare del corso di Storia generale - 
                  in cui criticava pesantemente il regime di occupazione nazista 
                  e recluso nel villaggio di De Steeg, vicino ad Arnhem, dove 
                  morì il primo febbraio del 1945. 
                  Nei quattro campionati che disputò, il Torino di Erbstein 
                  stabilì ogni tipo di record, alcuni dei quali ancora 
                  oggi imbattuti, diventando una delle squadre più famose 
                  e più richieste d'Europa. Fino a quel 4 maggio 1949, 
                  quando l'aereo che riportava a casa i granata da Lisbona - dove 
                  avevano giocato per celebrare l'addio al calcio di Francisco 
                  Ferreira, capitano del Benfica e grande amico di Mazzola - si 
                  schiantò contro il terrapieno su cui sorge la basilica 
                  di Superga. Ernest Erbstein era naturalmente tra i suoi ragazzi. 
                  Avrebbe compiuto cinquantuno anni dieci giorni dopo. 
                    
                  Giovanni A. Cerutti
                  Per 
                  saperne di più 
                
  Le vicende principali 
                  della vita di Ernest Erbstein sono state raccontate da Leoncarlo 
                  Settimelli in L'allenatore errante. Storia dell'uomo che 
                  fece vincere cinque scudetti al Grande Torino, Zona, Civitella 
                  in Val di Chiana 2006. La ricostruzione si basa fondamentalmente 
                  sulla testimonianza della figlia di Erbstein, Susanna Egri. 
                  Susanna Egri è stata ballerina classica e coreografa 
                  di fama internazionale e ancora oggi dirige una rinomata scuola 
                  di danza a Torino. 
                  Le caratteristiche del regime di Horty sono state analizzate 
                  da J. Erös nel volume Il fascismo in Europa, a cura 
                  di S. J. Woolf, Laterza, Roma-Bari 1968. 
                  La posizione degli ebrei ungheresi durante la seconda guerra 
                  mondiale è riassunta nella voce Ungheria redatta 
                  da Asher Cohen nel Dizionario dell'Olocausto, a cura 
                  di Walter Laqueur, Einaudi, Torino 2004. 
                  Per la storia della popolazione ebraica in Ungheria, il riferimento 
                  è ai lavori di Claudia Kocsisné Farkas (Senza 
                  leggi. La situazione degli ebrei in Ungheria 1922-1944, 
                  2010). 
                  Sul ruolo di Raul Wallenberg nel salvataggio degli ebrei ungheresi 
                  e sulla sua misteriosa fine il riferimento è alla voce 
                  redatta da Charles Fenyvesi nel Dizionario dell'Olocausto. 
                  Le notizie sulle leggi razziali sono tratte da Michele Sarfatti, 
                  Le leggi antiebraiche spiegate agli italiani di oggi, 
                  Einaudi, Torino 2002.
                 
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