ricordando Victor 
                  Serge 
                  Memoria di mondi perduti 
                  di Claudio Albertani 
                     
                  Victor Serge, il vagabondo geniale, il rivoluzionario fuori-riga, 
                    lo scrittore russo di lingua francese nato in Belgio, riposa 
                    nel cimitero spagnolo di Città del Messico. La sua 
                    eredità spirituale s'innalza oltre le nubi che oscurano 
                    il nostro tempo. 
                    
                 
                
                   
                     
                         In ricordo 
                          di Vladimir Kibalchich (1920-2005),  
                          meglio conosciuto come Vlady,  
                          che dipinse le ossessioni di suo 
                          padre, Victor Kibalchich (1890-1947),  
                          meglio conosciuto come Victor Serge. 
                          | 
                   
                 
                 
                 A oltre sessant'anni dalla 
                  prima edizione pubblicata a Parigi nel 1951, le Memorie di 
                  un rivoluzionario hanno superato la prova del tempo. Ecco 
                  un testo indispensabile per capire la tragedia delle rivoluzioni 
                  sconfitte che è, al tempo stesso, un classico della letteratura 
                  e una commovente testimonianza umana. Fin dalle prime pagine, 
                  quando emerge quel “mondo senza evasione possibile, dove 
                  l'unico rimedio era lottare per un'evasione impossibile”, 
                  le tappe del dramma si succedono in un ordine implacabile. Il 
                  finale era implicito nel principio? Serge crede di no e non 
                  accetta il ruolo di vittima: “Una necessità che 
                  assomiglia alla complicità, – annota, – lega 
                  frequentemente la vittima al torturatore, il martire al carnefice”. 
                  Come Nietzsche, sua passione di gioventù, e come Benjamin, 
                  che conobbe di sfuggita, l'Autore esprime la necessità 
                  di tornare al passato per raccoglierne l'eredità e le 
                  speranze perdute. La parola “destino”, da lui spesso 
                  usata, non implica la fatalità, né esclude la 
                  volontà. Quando parla di “noi”, non annulla 
                  l'individuo, ma si riferisce a un “io” molteplice 
                  e collettivo che riassume le passioni e le speranze della sua 
                  generazione, oltre ogni espressione di parte. Il risultato è 
                  una scrittura polifonica, volta a riscattare la “memoria 
                  di mondi perduti”, come recitava il titolo originale pensato 
                  da Serge, troppo modesto per arrogarsi l'attributo di “rivoluzionario”. 
                  Alla fine, il libro fu pubblicato postumo con il titolo scelto 
                  da suo figlio Vlady, autore del magnifico quadro che figura 
                  in copertina dell'edizione curata dal mio vecchio amico Roberto 
                  Massari.
                 
                   
                    |   | 
                   
                   
                    Nascita 
                        del vulcano Paricutin. Con il pittore Dr. Atl ed una sconosciuta  | 
                   
                 
                  
                  Le radici libertarie 
                
  Scrittore francese di sangue e spirito russo, romanziere, 
                  poeta, storico, giornalista e traduttore, Victor-Napoleon Lvovich 
                  Kibalchich – alias Victor Serge, Le Rétif, 
                  Le Masque, Ralph, R. Albert, Victor Stern, Victor Klein, 
                  Alexis Berlowsky, Sergo, Siegfried, Gottlieb, V. Poderewski 
                  e qualche altro pseudonimo – nacque in esilio a Bruxelles, 
                  il 31 dicembre 1890, e morì, sempre in esilio, a Città 
                  del Messico, il 17 novembre 1947. Visse il mondo ipocrita della 
                  Belle Époque, l'esaltazione comunista degli anni Venti 
                  e l'incubo totalitario della “mezzanotte del secolo”. 
                  Passò per le correnti più importanti del movimento 
                  operaio: il socialismo riformista, il comunismo anarchico, l'individualismo, 
                  l'anarcosindacalismo, il bolscevismo e il trotzkismo, senza 
                  mai abbandonare una spiccata sensibilità libertaria. 
                  Trascorse una decina d'anni di prigionia in diversi Paesi, partecipò 
                  a tre rivoluzioni – la spagnola (1917), la russa (1919-20) 
                  e la tedesca (1923) – e fu attivo anche in Belgio, Francia, 
                  Austria e Messico. Sopravvisse al GULag e alla barbarie nazista, 
                  e fu tra i primi a qualificare l'URSS come un regime totalitario. 
                  Autore di culto, sebbene quasi sconosciuto al grande pubblico, 
                  non sviluppò un sistema dottrinale né lasciò 
                  una scuola di pensiero. Non fu neppure un intellettuale nel 
                  senso tradizionale; in ogni tappa critica, cercò di dare 
                  alle esigenze dello spirito uno sbocco nell'azione. La sua attualità 
                  risiede nella riflessione traboccante, letteraria e poetica 
                  ancor più che teorica, sulla tragedia di una rivoluzione 
                  che divora se stessa. Nelle centinaia di pagine che dedicò 
                  a questo tema, mantenne la freddezza dell'analista distaccato 
                  conservando, allo stesso tempo, la passione militante e la certezza 
                  di un avvenire migliore. 
                  È impossibile avvicinarsi all'opera di Victor Serge senza 
                  evocare le sue vicende umane. Nato nel seno di una famiglia 
                  poverissima, cominciò a guadagnarsi la vita a quindici 
                  anni. Fu, in ordine successivo, apprendista fotografo, fattorino, 
                  gasista, disegnatore tecnico, tipografo, traduttore, giornalista 
                  e correttore di bozze. Un lontano parente, il chimico Nicolai 
                  Kibalchich, era stato l'esperto in esplosivi della Narodnaia 
                  Volia (Volontà del Popolo), la famosa organizzazione 
                  rivoluzionaria erede del populismo, che vedeva nella comune 
                  rurale russa (il mir) la possibilità di costruire 
                  un socialismo contadino. casa Kibalchich, la poesia sostituiva 
                  la preghiera e si narravano storie di attentati, processi e 
                  fughe dalla Siberia, in un'atmosfera analoga ai romanzi di Dostoevskij, 
                  Chernichevsky e Turgenev. Nei tanti alloggi di fortuna dove 
                  visse la famiglia, poteva mancare il pane, ma vi era sempre 
                  un samovar fumante, libri in varie lingue e foto di vittime 
                  della repressione. La famiglia sopravviveva a stento: Raoul-Albert, 
                  il fratellino minore, morì di fame e, anni dopo, la madre 
                  Vera finì stroncata dalla tubercolosi, la malattia dei 
                  poveri. 
                  Da quei genitori atipici che lo colmarono d'affetto, senza mandarlo 
                  a scuola, Victor ereditò il raro dono della coscienza 
                  sociale, un'insaziabile curiosità intellettuale e una 
                  grande indipendenza di spirito. Il padre Leonid, che si rifaceva 
                  all'evoluzionismo di Herbert Spencer, trasmise al figlio la 
                  cultura scientifica e materialista del suo tempo, mentre Vera, 
                  donna di grande sensibilità e raffinatezza, lo iniziò 
                  alla poesia e alla letteratura universale. A ciò bisogna 
                  aggiungere un sapere fatto di biblioteche popolari, circoli 
                  di studio, pubblicazioni sindacali, feuilleton, opere 
                  di divulgazione scientifica e tutto l'arsenale della cultura 
                  popolare dell'epoca. 
                  Le prime esperienze militanti, descritte all'inizio delle Memorie, 
                  sono legate all'amicizia con alcuni giovani proletari con i 
                  quali aderì al Partito Operaio Belga (POB), entrando 
                  però ben presto in conflitto con gli interessi meschini 
                  che vi regnavano. La lettura di Ai giovani di Kropotkin 
                  li spinse a cercare contatti con il movimento anarchico e in 
                  particolare con lacolonia libertaria L'Expérience, 
                  a Stockel, nei pressi di Bruxelles. È in questo ambiente 
                  che Victor maturò quella sensibilità libertaria 
                  che lo avrebbe accompagnato per il resto dei suoi giorni. L'anarchismo 
                  lo conquistò perché, a differenza del socialismo, 
                  esigeva l'accordo tra gli atti e le parole. 
                  Parigi lo attraeva. Non la Parigi degli intellettuali e del 
                  glamour, ma la Parigi della Comune, la capitale delle rivoluzioni 
                  europee. Vi arrivò non ancora ventenne, trovando impiego 
                  come disegnatore industriale e si unì a Rirette Maitrejean, 
                  giovane collaboratrice de L'anarchie (con la “a” 
                  minuscola), giornale che proclamava un individualismo radicale, 
                  nemico non solo del vecchio militantismo sacrificale, ma anche 
                  del nascente sindacalismo rivoluzionario. Victor pubblicava 
                  articoli incendiari con lo pseudonimo di Le Rétif 
                  (il refrattario) affermando che per fare la rivoluzione 
                  non è sufficiente essere sfruttati, bisogna rifiutare 
                  coscientemente la servitù volontaria. 
                  Nel frattempo, alcuni suoi amici avevano deciso di passare all'azione. 
                  Le Rétif difendeva la legittimità della 
                  rivolta, ma si opponeva alla violenza cieca e risentita. L'arrivo 
                  a Parigi del meccanico lionese Jules Bonnot segnò l'inizio 
                  di una stagione di follia eroica. Il dramma ebbe inizio il 21 
                  dicembre 1911 con la rapina alla Société Générale 
                  e terminò qualche mese dopo con la morte in combattimento 
                  di Bonnot e di alcuni suoi sodali, la ghigliottina per altri, 
                  la condanna ai lavori forzati per altri ancora... Victor fu 
                  arrestato il 31 gennaio 1912 con l'accusa iniziale di ricettazione 
                  d'armi. Al processo, cercarono di presentarlo come il “cervello” 
                  della banda. Era una falsità e la manovra fallì; 
                  nondimeno fu condannato a cinque anni di prigione che avrebbe 
                  scontato fino all'ultimo giorno. La sua colpa? Non volersi trasformare 
                  in delatore.
                 
                   
                    |   | 
                   
                   
                    Disegno 
                        di Vlady, Ciudad Trujillo, 1941  | 
                   
                 
                   Un 
                  bolscevico tutto particolare 
                  Alla scarcerazione, il 31 gennaio 1917, Le Rétif 
                  venne espulso dalla Francia rifugiandosi a Barcellona, dove 
                  lavorò come tipografo. Si separò da Rirette e 
                  si avvicinò alla Confederación Nacional del Trabajo 
                  (CNT), di tendenza anarcosindacalista, partecipando fra l'altro 
                  all'organizzazione della fallita insurrezione di luglio. Incominciò 
                  a usare un nuovo pseudonimo, Victor Serge, e pubblicò 
                  sul giornale anarchico Tierra y Libertad una serie di 
                  articoli, dove cominciava a prendere le distanze da Nietzsche 
                  e, implicitamente, dall'individualismo. La rivoluzione russa 
                  lo chiamava. Rientrato clandestinamente in Francia, fu di nuovo 
                  arrestato e internato per diciotto mesi nel campo di concentramento 
                  di Précigné, dove creò un gruppo bolscevizzante. 
                  Nel gennaio 1919 fu scambiato, insieme ad altri reclusi, con 
                  alcuni ufficiali francesi fatti prigionieri in URSS. Sulla nave 
                  conobbe la sua futura compagna, Liuba Russakova, anche lei in 
                  viaggio per la “terra promessa”. 
                  A Pietrogrado, capitale della fame, del freddo e della resistenza, 
                  fu ricevuto da Zinov'ev e incontrò Maksim Gor'kij, 
                  il quale gli disse che i bolscevichi erano ubriachi di potere: 
                  “il commissario del partito è allo stesso tempo 
                  il poliziotto, il censore e il vescovo”. ne rimase scioccato, 
                  però decise di gettarsi egualmente nella mischia. Benché 
                  continuasse a considerarsi anarchico, aderì al Partito 
                  bolscevico, partecipò alla fondazione dell'Internazionale 
                  Comunista e ne organizzò il primo servizio stampa. È 
                  vero che commise molti errori: approvava la dittatura sul 
                  attuata dai bolscevichi e accusava gli anarchici russi di 
                  essersi fatti travolgere dagli avvenimenti; non rinnegava però, 
                  né mai rinnegò, il suo passato; pensava che la 
                  rivoluzione russa avesse cambiato i termini di paragone tra 
                  “autoritari” e “libertari” e che, di 
                  fronte alla crisi del movimento libertario organizzato, i bolscevichi 
                  fossero diventati i veri interpreti della volontà rivoluzionaria 
                  delle masse. Oggi sappiamo che si sbagliava; allora fu un abbaglio 
                  di molti rivoluzionari, anche anarchici. Allo scoppio della 
                  rivolta di Kronstadt (1921), “con molte esitazioni e un'angoscia 
                  inesprimibile”, decise di allinearsi con il partito, cosa 
                  che, non senza ragione, il movimento anarchico non avrebbe mai 
                  cessato di rimproverargli. 
                  Comunque sia, la sua adesione non fu mai incondizionata e non 
                  durò molto tempo. Le Memorie mostrano un Serge 
                  perfettamente consapevole dei germi autoritari che il regime 
                  sovietico incubava, ma convinto della possibilità di 
                  riformarlo. Viveva il sentimento di un doppio dovere: da un 
                  lato, lottare contro i nemici esterni della rivoluzione, le 
                  potenze occidentali e i generali bianchi, e dall'altro, battersi 
                  contro quelli interni, la burocrazia e il pensiero unico. Alla 
                  fine, scelse di partire con moglie e figlio per la Germania 
                  con l'incarico di giornalista e agente dell'Internazionale, 
                  pensando che l'unica possibilità di salvare la rivoluzione 
                  russa fosse affrettare quella europea. 
                  Dopo la sanguinosa sconfitta del Partito comunista tedesco (1923), 
                  fuggì a Vienna, dove intraprese lo studio del marxismo, 
                  che in realtà non conosceva, e della psicoanalisi, senza 
                  tralasciare il lavoro clandestino. Nella vecchia capitale dell'Impero 
                  austro-ungarico collaborò, tra gli altri, con Gramsci 
                  e con Lukács. Di quest'ultimo, elogia le conoscenze enciclopediche, 
                  definendo però totalitaria la sua interpretazione del 
                  marxismo. 
                  Nel frattempo, Stalin era diventato il numero uno del Cremlino 
                  e al bolscevismo di Lenin che, almeno in teoria, ammetteva il 
                  dissenso, faceva seguito un regime poliziesco basato sul terrore, 
                  l'intrigo e la menzogna. Serge aveva la vocazione del dissidente, 
                  però non volle rompere radicalmente con il bolscevismo. 
                  Quando, nel 1925, rientrò in URSS chiese a Trotsky se 
                  l'opposizione fosse disposta a distruggere l'apparato burocratico, 
                  in caso di vittoria. “Neanche per sogno, – rispose 
                  il fondatore dell'Armata Rossa. – L'apparato bisogna conquistarlo 
                  e servirsene!” 
                  Si unì, cionondimeno, all'Opposizione di Sinistra (il 
                  termine “trotzkismo” è un'invenzione di Stalin), 
                  ancora una volta perché convinto della necessità 
                  di dare battaglia dall'interno. Collaborò con la commissione 
                  affari esteri, nella quale lavorava anche Andreu Nin, e diffuse 
                  le tesi trotzkiste sulla stampa francese. Partecipò, 
                  il 7 novembre 1927, all'ultima manifestazione pubblica dell'Opposizione 
                  e, il 16, ai funerali del dirigente bolscevico Adolphe Ioffe, 
                  suicidatosi in segno di protesta contro l'esclusione di Trotzky 
                  dal partito.
                 
                   
                    |   | 
                   
                   
                    Disegno 
                        di Vlady, Victor a Orenburg, 1934  | 
                   
                 
                   Cronista 
                   del disastro sovietico 
                  Il destino di Serge era ormai segnato. Costantemente sorvegliato 
                  dalla polizia segreta, il nostro ridusse al minimo l'attività 
                  politica. Viveva di traduzioni malpagate, cercando di proteggere 
                  il figlio e la moglie che, a poco a poco, stava perdendo la 
                  ragione. Un giorno, mentre si riprendeva da una grave malattia, 
                  ebbe una visione. A un tratto, le sue attività precedenti 
                  gli parvero futili e sentì l'urgenza di scrivere romanzi, 
                  non tanto per parlare di sé, quanto per dar voce agli 
                  uomini straordinari che aveva conosciuto. “Concepisco 
                  la letteratura come un mezzo di espressione e di comunione tra 
                  gli esseri umani: un mezzo particolarmente potente agli occhi 
                  di coloro i quali vogliono trasformare la società. Dire 
                  ciò che si è, ciò che si vuole, ciò 
                  che si vive, ciò per cui si soffre e si lotta, ciò 
                  che si conquista. Bisogna dunque far parte di chi lotta, soffre, 
                  cade, conquista”. Altrove aggiunge: “è importante 
                  lasciare una testimonianza su questi tempi; il testimone passa, 
                  però può succedere che la testimonianza rimanga”. 
                  Conobbe allora una doppia risurrezione: fisica e spirituale. 
                  Tutto lo spingeva alla letteratura: la formazione familiare, 
                  l'enorme talento, una vita romanzesca. Il momento non poteva 
                  essere peggiore: i grandi scrittori tacevano, si toglievano 
                  la vita (Esenin, Majakovskij) o erano imprigionati. Serge sapeva 
                  che in URSS non gli avrebbero pubblicato neppure una riga, ma 
                  poteva scrivere in francese e mandare i suoi scritti agli amici 
                  di Parigi che avrebbero trovato la maniera di diffonderli. 
                  La sua produzione fu prodigiosa. L'originalità di questa 
                  narrativa consisteva nel rompere i parametri dell'autobiografia 
                  tradizionale, centrata sull'epopea dell'individuo, raccontando 
                  l'io collettivo che emerge dalle tormente rivoluzionarie, senza 
                  temere di esibirne le contraddizioni: “Ricordare, fissare, 
                  comprendere, interpretare, ricreare la vita. Non possediamo 
                  che una vita, ma questa contiene molti destini possibili. Non 
                  è unica nel senso che si confonde con innumerevoli radici, 
                  affinità e contaminazioni (la maggior parte delle quali 
                  non si possono esprimere razionalmente) con altri uomini, la 
                  terra, gli esseri, il Tutto. Scrivere diventa allora la ricerca 
                  di una polipersonalità, una maniera di vivere molti destini, 
                  di penetrare l'altro, di comunicare con lui”. 
                  L'idea di “polipersonalità” è la chiave 
                  di volta dell'opera che presentiamo. Un'opera – bisogna 
                  ripeterlo – non autobiografica, bensì testimoniale. 
                  Serge parla come partecipante di eventi storici e non come narratore 
                  introspettivo. Di fatto, raramente allude a se stesso. È 
                  vero che il suo spirito libertario entra sovente in contraddizione 
                  con la fedeltà al bolscevismo. Jean-Luc Sahagian, un 
                  autore di simpatie anarchiche, ha pubblicato un libro tacciandolo 
                  di doppiezza, L'homme double. L'accusa è profondamente 
                  ingiusta, perché Serge pagò pesantemente le proprie 
                  scelte. 
                  Trasformate in letteratura, le innegabili contraddizioni politiche 
                  dell'Autore ci fanno capire come un sincero rivoluzionario possa 
                  trasformarsi in un crudele assassino, come, per esempio, l'agente 
                  della Ceka descritto ne La città conquistata. 
                  Inoltre, diversamente da altri scrittori, non sono occultate, 
                  ma bensì trasformate nell'asse portante di una letteratura 
                  in cui i personaggi non riflettono preoccupazioni ideologiche 
                  e neppure certezze politiche, ma le passioni, i dubbi, gli slanci 
                  e gli sconforti di esseri umani trovatisi ad agire in una situazione 
                  che, a poco a poco, sfugge loro di mano. 
                  Serge riesce a mettere in scena la tragedia rivoluzionaria in 
                  tutta la sua potenza, ma anche nella sua crudezza e senza camuffamenti. 
                  E tuttavia non è un autore disincantato. È quindi 
                  distante da un Koestler e un Malraux, prossimo piuttosto a un 
                  Orwell e a un Silone. È un autore cólto e allo 
                  stesso tempo accessibile. Nelle sue pagine, oltre all'influenza 
                  dei grandi romanzieri russi, di Dostoevskij in primo luogo, 
                  di Vallès, il cantore della Comune, si percepiscono gli 
                  echi di Joyce, Dos Passos e Proust, come anche della “letteratura 
                  proletaria”, la corrente lanciata negli anni Venti da 
                  Henry Poulaille. 
                  Frattanto, la situazione in URSS precipitava. L'8 marzo 1933, 
                  Victor Serge fu nuovamente arrestato e, dopo tre mesi alla Lubjanka, 
                  deportato a Orenburg, una città prossima agli Urali, 
                  antisala politico-geografica del GULag. Accompagnato dal figlio 
                  Vlady e da Liuba (la quale presto tornerà a Leningrado 
                  per dare alla luce la seconda figlia, Jeannine, che adesso vive 
                  a Città del Messico), egli si unì a una confraternita 
                  di proscritti, tra i quali vigevano rapporti di solidarietà 
                  e comunione spirituale. Nell'ambito dell'arcipelago totalitario, 
                  Orenburg era un'isola tranquilla: condizioni di precarietà 
                  e penuria (Vlady si ammalò di scorbuto), ma poche persecuzioni. 
                  Nel 1935, Serge ricevette la visita di Francesco Ghezzi, che 
                  percorse duemila chilometri per informarlo sul Congresso 
                  degli scrittori in difesa della cultura parigino. In quella 
                  sede, con grande scandalo della delegazione sovietica, alcuni 
                  valorosi, tra cui Gaetano Salvemini, sollevarono la questione 
                  della sua libertà. 
                  Grazie anche all'interessamento del più noto “compagno 
                  di strada” dello stalinismo, lo scrittore Romain Rolland, 
                  i Kibalchich poterono lasciare l'Unione Sovietica. Nel loro 
                  lungo viaggio, a Mosca, incrociarono Ghezzi, ancora libero, 
                  benché per poco. Infine, il 17 aprile 1936, dopo aver 
                  attraversato la Polonia e la Germania nazista, arrivarono a 
                  Bruxelles, accolti da Lazarevitch, anch'egli scampato alle prigioni 
                  sovietiche. 
                  Victor riuscì, con molta difficoltà, ad aprirsi 
                  uno spazio su La Wallonie, un quotidiano socialista di 
                  Liegi, sul quale, tra il giugno 1936 e il maggio 1940, pubblicò 
                  oltre 200 articoli, scrivendo di URSS, Spagna, antisemitismo, 
                  Germania, Austria, solidarietà internazionale, arte, 
                  e tanti altri argomenti che dimostrano la vastità dei 
                  suoi interessi. Riallacciò i rapporti epistolari con 
                  Trotsky, allora esiliato in Norvegia; tuttavia, per quanto gli 
                  serbasse profondi sentimenti di ammirazione e affetto, era lontanissimo 
                  dal suo dogmatismo. Inevitabile, la rottura si produsse in occasione 
                  del dibattito sul massacro di Kronstadt, che il nostro autore 
                  definiva un tragico errore e che il fondatore dell'Armata Rossa 
                  rivendicava senza esitazioni. 
                  Il 18 luglio 1936 scoppiò la rivoluzione spagnola, presto 
                  seguita dal primo processo di Mosca che terminò con l'esecuzione 
                  dei “sedici”, tra i quali Zinov'ev e Kamenev. In 
                  dicembre, Serge divenne corrispondente dell'organo del POUM, 
                  La Batalla, denunciando dalle sue colonne il pericolo 
                  mortale rappresentato dall'intervento sovietico in Spagna. Apertamente 
                  boicottato dalla stampa comunista, messo al bando da quella 
                  trotskista, considerato con sospetto da quella anarchica, si 
                  trovava adesso più solo che mai. 
                  Non smise di lottare. Collaborò intensamente con il Comité 
                  pour l'Enquête sur le procès de Moscou 
                  clandestinamente a Parigi e, per via epistolare, con la Dewey 
                  si riuniva in Messico per difendere Trotsky dall'accusa, tanto 
                  infamante quanto assurda, di essere un agente del nazismo. ò, 
                  in meno di un anno, 16 fusillés à Moscou, De 
                  Lenine à Stalinee Destin d'une révolution. 
                  Il primo è un esame dettagliato dei documenti ufficiali 
                  del processo, che ne smonta il meccanismo. Il secondo presenta 
                  uno schizzo storico dei vent'anni trascorsi dall'Ottobre rosso 
                  chiarendo che, delle conquiste rivoluzionarie, non rimaneva 
                  ormai più nulla. Il terzo è uno studio della vita 
                  sociale, economica e culturale sovietica, e una delle prime 
                  descrizioni dell'universo concentrazionario. 
                  Le condizioni materiali continuavano a essere difficili. Le 
                  traduzioni e il giornalismo erano remunerati male e la situazione 
                  legale precaria. Privati della cittadinanza sovietica, i Kibalchich 
                  erano andati a ingrossare le file dei paria che vagavano per 
                  il mondo in cerca di un visto. Nell'aprile 1937 ottennero finalmente 
                  il permesso di risiedere in Francia, però nel frattempo 
                  la situazione psichica di Liuba si era aggravata. Ormai distrutta, 
                  la donna passava da una crisi all'altra e fu ricoverata in una 
                  clinica, dove sarebbe sopravvissuta fino al 1983, senza riemergere 
                  dagli abissi della follia. Ricordiamo il tragico destino della 
                  famiglia Russakov: la moglie di Alexandre, Olga, e due figli, 
                  Joseph ed Esther, scomparsi nel GULag, mentre altri due, Anita 
                  e Paul-Marcel, vi trascorsero una ventina d'anni. 
                  A Parigi, Serge si trovava esposto agli intrighi della GPU sfiorando 
                  la morte in molte occasioni. Nonostante gli affanni e le incombenze 
                  familiari, riuscì a portare avanti il suo ciclo romanzesco 
                  pubblicando S'il est minuit dans le siècle, appassionato 
                  omaggio ai deportati di Orenburg che sarebbero tutti scomparsi 
                  nel GULag, nonché una biografia di Stalin dove descriveva 
                  lo smisurato potere del dittatore sovietico. Nel 1938 pubblicò 
                  una raccolta di poesie. 
                  Ritornò alla riflessione sulle sue radici anarchiche. 
                  In “Méditation sur l'anarchie”, intraprese 
                  una commovente ricostruzione delle vicende legate alla “banda 
                  Bonnot” (poi ripresa nelle Memorie), mentre in 
                  “La pensée anarchiste” tracciò uno 
                  schizzo storico del pensiero libertario. È vero che non 
                  risparmiava le critiche – “gli scritti anarchici 
                  procurano una singolare impressione di intelligenza ingenua, 
                  energia morale, fede e, diciamolo pure, accecamento” –, 
                  però difendeva la forza etica dell'anarchismo ammettendo 
                  implicitamente i propri errori del passato, col definire Machno 
                  “una delle figure più notevoli della rivoluzione 
                  russa”.
                 
                   
                    |   | 
                   
                   
                    Victor, 
                        Liuba, Vlady, 1927  | 
                   
                 
                   L'ultimo 
                  rifugio di un rivoluzionario 
                  Il 15 giugno 1940, Parigi sprofondava nell'inferno dell'occupazione 
                  nazista. Serge riparò a Marsiglia, dove ritrovò 
                  Volin, André Breton, Benjamin Péret, Wilfredo 
                  Lam, Jean Malaquais, Remedios Varo e tanti altri che fuggivano 
                  dalla “peste bruna”. Quindici mesi dopo, al termine 
                  di un viaggio tormentato da Casablanca, attraverso la Martinica, 
                  Santo Domingo, Cuba e lo Yucatán, giunse a Città 
                  del Messico, accompagnato dall'inseparabile Vlady. Ormai grigio 
                  di capelli e un po' appesantito, dimostrava allora qualcosa 
                  di più dei suoi 51 anni. Una forza tranquilla, una grande 
                  integrità e una certa stanchezza emanavano dal profondo 
                  dei suoi occhi color ambra. L'apparente opulenza, i locali notturni 
                  e le luci sfavillanti sconcertavano chi arrivava da un'Europa 
                  di guerra e carestia. Serge, però, capì rapidamente 
                  che il Messico era “un Paese a due piani, senza classe 
                  media: sopra la società del dollaro, sotto la miseria 
                  dell'indio”. 
                  Le Memorie finiscono qui, ma la storia prosegue. In Messico, 
                  Victor Serge visse gli anni più produttivi della sua 
                  vita. In primo luogo, portò a termine le Memorie, 
                  incominciate in Francia e, come si è detto, pubblicate 
                  postume da Vlady. Inoltre portò a termine tre romanzi: 
                  L'affaire Toulaév, scritto “sulle strade 
                  del mondo”, dove narra gli intrighi dei processi di Mosca 
                  e della guerra di Spagna; Les Derniers temps, sulla débâcle 
                  della Francia nel 1940 e Les années sans perdon, 
                  ambientato a Parigi e in Messico, dove, secondo la definizione 
                  di Vlady, l'etica si trasforma in estetica. 
                  L'anno scorso, ad Amecameca, alle pendici del vulcano Popocatepetl, 
                  ho trovato parecchi manoscritti inediti nell'archivio dell'archeologa 
                  Laurette Séjourné, pseudonimo dell'italiana Laura 
                  Valentini, la sua ultima compagna deceduta molto anziana nel 
                  2003. Tra questi materiali spicca un voluminoso diario, che 
                  si può considerare la continuazione delle Memorie 
                  e che sta per essere pubblicato dalla casa editrice Agone di 
                  Marsiglia, con il titolo di Carnets riprendendo quello 
                  di un'edizione anteriore, incompleta. 
                  Questo diario e la corrispondenza (oltre novecento lettere) 
                  mostrano che in Messico Serge moltiplicò straordinariamente 
                  i suoi già vasti interessi intellettuali. Insieme ad 
                  altri esiliati antitotalitari dètte vita al gruppo Socialismo 
                  y Libertad che pubblicava una rivista di notevole qualità 
                  anche se sconosciuta, Mundo. Mantenne contatti intensi 
                  con i personaggi più disparati: il poeta Octavio Paz, 
                  lo scrittore Gustav Regler, il filosofo Emmanuel Mounier, la 
                  socialista Angelica Balabanoff, lo psicoanalista Bruno Bettelheim, 
                  il marxista Paul Mattick, l'anarchico Agustin Souchy, l'ex ministro 
                  di Difesa della Repubblica Spagnola, Indalecio Prieto, la libertaria 
                  Mollie Steimer... Ho trovato anche una lettera a Rirette Maitrejean, 
                  l'amore di gioventù. 
                  Leggeva di tutto. Si interessò di arte (molte le annotazioni 
                  su Diego Rivera e i surrealisti), filosofia (importanti gli 
                  appunti su Adorno, allora in gran parte sconosciuto), letteratura, 
                  cinema e storia delle religioni. Scrisse decine di articoli 
                  sull'Unione Sovietica e sulla guerra. Pubblicò Hitler 
                  contra Stalin, un libro sull'invasione nazista dell'URSS 
                  che esiste solo in spagnolo, e ne scrisse due rimasti inediti, 
                  uno sul militarismo giapponese e l'altro sulle civiltà 
                  indigene mesoamericane. 
                  Le cronache dei suoi viaggi in Messico (Oaxaca, Michoacán, 
                  Cuernavaca, Acapulco) trasmettono le impressioni di un consumato 
                  antropologo, senza perdere la freschezza del bravo giornalista 
                  e la profondità dell'analista politico. Grazie all'amicizia 
                  con Fritz Fraenckel, uno psichiatra tedesco, organizzatore in 
                  Spagna del servizio sanitario delle Brigate Internazionali poi 
                  passato all'opposizione, riprese lo studio della psicologia, 
                  ancora una volta con l'idea di spiegare e spiegarsi il fallimento 
                  della rivoluzione. 
                  La fine giunse inaspettata. Morì su un taxi, da solo, 
                  dopo un appuntamento mancato con Vlady al quale voleva far leggere 
                  il suo ultimo poema, Mani. Ecco la testimonianza di Julián 
                  Gorkin: “Lo trovammo a mezzanotte passata, steso in una 
                  stanza spoglia dalle pareti grigie. Aveva le scarpe bucate con 
                  la suola completamente logora e la camicia da operaio. Un nastro 
                  di tela gli chiudeva la bocca, quella bocca che nessun tiranno 
                  era riuscito a far tacere. Sembrava un vagabondo raccolto per 
                  pietà. E non era forse stato l'eterno vagabondo della 
                  vita e di un ideale? Il suo volto esprimeva un'amara ironia, 
                  un sentimento di protesta, l'ultima protesta di Victor Serge, 
                  l'uomo che per tutta la vita aveva protestato contro le ingiustizie 
                  umane”. 
                  Attacco cardiaco, dice il certificato medico. Avvelenamento? 
                  Probabilmente no, visto che soffriva di cuore; però Vlady 
                  rimase tutta la vita con il dubbio: per eliminare gli oppositori, 
                  la GPU usava infatti potenti veleni che non lasciano tracce. 
                  Victor Serge, il vagabondo geniale, lo scrittore russo di lingua 
                  francese nato in Belgio, riposa nel cimitero spagnolo di Città 
                  del Messico. La sua eredità spirituale s'innalza oltre 
                  le nubi che oscurano il nostro tempo.
                   
                  Claudio Albertani
  |