rivista anarchica
anno 42 n. 375
novembre 2012


dibattito violenza 2

Violenza, politica e regno dei cieli

di Federico Battistutta e Monica Giorgi


È recentemente uscito un libro di Luisa Muraro con un titolo (“Dio è violent”) e un testo intriganti. E il dibattito si è subito acceso.
Pubblichiamo qui le opinioni in merito di due nostri collaboratori.


Fuori dagli imperativi dell'esistente

di Federico Battistutta


È uscito da alcuni mesi un libriccino (qui il diminutivo si riferisce solo al numero di pagine) di Luisa Muraro, dal singolare titolo Dio è violent (edizioni Nottetempo, 2012, pagg. 75, € 6,00). L'autrice ha visto questa scritta, con l'ultima lettera cancellata, sul muro di una città. La cancellatura impedisce di definire il genere dell'aggettivo (maschile/femminile) e quindi del soggetto della frase.
Da tali suggestioni Muraro, filosofa della differenza sessuale, muove le sue riflessioni, attualissime, sulla crisi del contratto sociale, sul declino della democrazia rappresentativa, sull'affacciarsi dell'antipolitica (neologismo dispregiativo, quest'ultimo, coniato proprio dai rentier della politica) e, nello specifico, sull'esercizio della violenza nella pratica politica. Lo fa pensando in grande e partendo da lontano: addirittura da Dio, appunto (e chi è Dio? Una persona, una metafora, un flatus vocis? Il testo non lo spiega, lasciando la domanda aperta alle sensibilità del lettore), per reperire vedute ampie e alte riguardo l'uso della violenza (a chi scrive viene in mente il titolo di un piccolo capolavoro della scrittrice nordamericana Flannery O'Connor: Il cielo è dei violenti – in italiano edito da Einaudi – il cui titolo, a sua volta, deriva da un passo del vangelo di Matteo).
Nominare (invano?) il nome di Dio riguardo la violenza, a Muraro serve proprio per sfondare alcuni luoghi comuni del pensiero: introdurre Dio dentro ragionamenti che non lo prevedono porta a scavalcare certe divisioni fissate da un razionalismo asfittico. Pensare in grande, partire da lontano, si diceva, senza trascurare ciò che ci sta vicino, il quotidiano, il minuto, tutt'altro.
Il discorso si dipana confrontandosi con alcuni autori (alla rinfusa: dal Benjamin di Per la critica della violenza, al taoista Sun Tzu; dallo psicanalista Winnicott all'elogio dell'indignazione di Hessel, sino a S. Weil, H. Arendt e alla scrittrice brasiliana Clarice Lispector, a Muraro, particolarmente cara) e con fatti della nostra stringente contemporaneità (pure qui alla rinfusa: le “guerre umanitarie” in Afghanistan, Iraq e Libia; la realizzazione della base militare USA all'aeroporto Dal Molin di Vicenza; la spettacolarizzazione del dopo-terremoto a L'Aquila per mano di Berlusconi; i black block e l'immaginario che alimentano).

Fare i conti col passato

Ma il pregio del libello sta nel mettere sul piatto proprio la questione della violenza, iniziando col misurare, senza infingimenti, la distanza da mitologie passate, come quelle degli anni settanta, sulla violenza rivoluzionaria (a ben vedere più vicine alle tematiche aristoteliche sulla kátharsis che alla critica politica marxiana). Sono conti, quelli riguardanti il passato prossimo, che pochissimi oggi sono disposti a fare. Rasentando a volte il ridicolo. Un esempio: un noto esponente del movimento studentesco del '68 milanese (per un certo tempo lider maximo), nel rievocare quegli anni ricorda di essere stato ammiratore e seguace di don Milani, ripudiando al contempo ogni forma di violenza; tralasciando di dire – come usavano fare le demi-vierge del Settecento rispetto ai loro trascorsi – di essere stato l'artefice della virata stalinista imposta al movimento milanese (unico caso in Italia, grazie a Dio!) con tutto quello che poi ne è conseguito: do you remember katanghesi & Co? (Stalin non era Gandhi, mentre parlava di pace e lavoro pianificava l'eliminazione dei dissidenti).
Nota bene: non sono solo rimembranze di reduci attempati, quelle a cui ci si riferisce qui, né vi è la preoccupazione di salvaguardare una qualche oggettività storica. Il passato mi interessa nella misura in cui si riverbera sul presente. È il presente che mi preme. Penso, con passione e preoccupazione, ad avvenimenti a noi vicini che rinnovano la domanda: penso a quanto è successo a Genova durante il G8, alle proteste NoTav o alla manifestazione romana del 15 ottobre dell'anno passato. L'uso della violenza mi dà da pensare, anche se mi rendo conto che fatico a dipanare il bandolo del discorso. Stenta però a convincermi chi oggi dichiara (anche sulle pagine di “A”) di rigettare sine glossa (senza ascoltare, senza alcuna declinazione, senza entrare nel merito, in una parola: con uno sfondo intollerante…) qualsiasi domanda sulla coniugazione tra violenza e politica. Tutto questo mi sembra solo un grande rito esorcistico o una scorciatoia che non porta da alcuna parte. Sia chiaro: nessuno enfatizza su collere purificatrici o peggio ancora vagheggia derive lottarmatiste; cionondimeno il problema resta.

Luisa Muraro

Violenza e non violenza

E in questo senso le riflessioni di Luisa Muraro non cessano di interrogare. Pur nutrendo il massimo rispetto per le opzioni nonviolente (nel libro il riferimento va soprattutto a M.L. King), ella sostiene che oggi la predicazione pacifista, pur non mancando di valore etico, resta sprovvista di «un punto di leva per sollevare le giuste pretese e abbassare l'arroganza dei potenti». Una simile affermazione può lasciare perplessi. Qualcuno potrebbe replicare citando i principi che hanno orientato figure come Gandhi (e prima di lui Tolstoj). Ma non è questo il problema. Quanti di quelli che ora propugnano scelte nonviolente, al punto da farne la leva di un processo di trasformazione sociale, si riconoscono fattivamente nella nozione forte di ahimsa (in sanscrito “non nuocere”, da cui “non resistere al male”), nell'intima convinzione che, esistendo un fondo soggiacente che abbraccia tutti gli esseri, la violenza che io esercito sull'avversario è una violenza che faccio su di me e viceversa? (Ma cosa doveva provare Gandhi quando l'esercito inglese uccise ad Amritsar centinaia di pacifici manifestanti, lasciando a terra migliaia di feriti? Per quanto sia ovvio, è bene ricordare che la mia rinuncia alla violenza non comporta medesima accettazione da parte dell'avversario). Cito ancora Muraro: «In certi contesti, a certe condizioni, è opportuno non usare tutta la forza di cui si dispone. Bisogna però tenerla a disposizione, se non si vuole che altri se la prendano: alla propria forza non si rinuncia senza soccombere ad altre forze».
A Genova, quando la polizia ha fatto irruzione alla Diaz i giovani che si trovavano all'interno hanno sollevato in alto le braccia tenendo le mani bene aperte: ma tutto ciò non ha impedito che lì si compisse una macelleria sudamericana. E quanti di coloro che oggi rigettano la violenza come un a priori intangibile (quindi non nei termini di una scelta tattica) hanno intrapreso quell'arduo processo di sublimazione di questa energia che ci abita e di cui non percepiamo confini e origine, o hanno scelto invece di convivere ambiguamente con essa? Come mostra bene un noto film di Peckinpah: dietro il cane di paglia (questo è il titolo della pellicola) – che noi tutti siamo – vive un essere aggressivo, regna il caos della paura e dell'orrore; e perciò non guardiamo in quella direzione, preferendo delegare ad altri tale esercizio (i soldati, la polizia, il servizio d'ordine, la security).

Quanto basta

Come si intuisce Muraro, nelle pagine di Dio è violent, mette in scena un corpo a corpo fra politica e psicanalisi: la violenza è un'energia immanente all'essere umano, dice, antecedente la costituzione del soggetto. Dichiarare allora che la violenza sia in sé negativa rischia di preparare «il terreno per sostenere che essa si giustifica unicamente se il suo uso viene regolato dalla legge»; ma chi regola la legge, chi decide dello stato d'eccezione, chi scioglierà i corpi speciali, il servizio d'ordine, l'armata rossa, l'esercito popolare? Si tratta insomma di affrontare il problema senza deleghe. Di più (e qui si può intuire qualcosa del rimando teologico contenuto nel titolo del libro): «Si tratta di pensare una violenza che non è strumento di nessuno, che il diritto non può fare sua giustificandola, e che nessuno può fare sua, manifestazione di una giustizia che ci oltrepassa dalla quale, però, noi umani possiamo lasciarci usare, consapevoli del rischio inevitabile di cadere in errori ed eccessi».
Senza cadere in errori ed eccessi: l'obiettivo non è l'acting out, il compimento dell'azione violenta, la quale in ultima istanza è mera disperazione, ma l'azione possibile ed efficace in grado di ricorrere allo scopo a una certa dose di violenza. “Ma quanta?”, viene pragmaticamente da chiedere. Regolandoci come usano fare le cuoche ai fornelli, risponde Muraro: “Quanto basta”; o meglio «quanto basta per combattere senza odiare, quanto serve per disfare senza distruggere».
Qualcuno – gli sputasentenze sempreinpiedi – dirà che, dopo tanti discorsi, è poco, troppo poco: lo smarrimento dominante invoca sicurezze, punti di riferimento a tutto tondo, ecc. ecc. Lasciamoli perdere, c'è invece, pur con le difficoltà del momento, tutta una tessitura da costruire insieme, un fare (che i greci chiamavano poièin quando si alleggeriva dalle premure strettamente tecniche) che si costituisce partendo dal basso, plurale, vivo, formicolante, che racconta l'esigenza di un più di vita che non si rassegna agli imperativi dell'esistente, alle chiacchiere sulla “fine della storia” o a diktat e formule preconfezionate.

Federico Battistutta




La forza di scavare in sé

di Monica Giorgi


Prezioso libriccino uscito nella collana Gransasso, Dio è violent offre una lettura, oltre che intrigante, dirompente, pacata e distesa quanto densa di sollecitazioni.
Con sensata spregiudicatezza Luisa Muraro mette in ballo una questione radicale per i tempi che corrono: quella dell'uso della forza e della violenza, avendo presente che lo sconfinamento dell'una nell'altra spesso è inevitabile. Benché forza e violenza siano tra loro ben distinte, “separarle per definizione non fa che occultare un aspetto della realtà umana”. Occorre ricordare che distanze e prossimità non si determinano verbalmente ma attivamente: “la definizione giusta la troveremo alla luce di questo agire”.
La questione dell'uso della forza non viene posta in termini di violenza sì o violenza no, come se la violenza fosse un mezzo a nostra disposizione e non piuttosto viceversa. La violenza è così contemplata quale “realtà dentro cui viviamo” e per la quale i contorni tracciati dalle definizioni dei costrutti filosofici non servono ad arginare la commistione con la forza.
“La misura da cercare – scrive Muraro – è nella coincidenza fra la giustezza e la giustizia dell'agire, coincidenza che va cercata non dico a tentoni, ma quasi”. L'analogia tra giustezza dei mezzi e giustizia dei fini si trova e si perde nell'azione umana, ma il tentarla si oppone al cinismo del fine che giustificherebbe i mezzi.

Un “racconto inventato”

La domanda da cui Muraro prende le mosse evidenzia una radicalità necessaria, proprio ora, quando il messaggio salvifico del contratto sociale è diventato indegno di credito. Se mai l'ha avuto e se mai è stato all'origine della convivenza umana. “La scienza storica - si legge - insegna che il contratto sociale è un racconto inventato all'inizio dell'età moderna [...] per giustificare lo stato dei rapporti di forza tra donne e uomini, ricchi e poveri, stranieri e cittadini”.
Dio è violent non manca di spregiudicatezza. Sia nell'affrontare il campo del divino, sia perché, di fronte alla dilagante predicazione antiviolenta, il testo di Muraro schiva la genericità insita in questa predicazione e riguadagna il senso vivo delle mediazioni, sempre da 'inventare' sulla base di un sapere radicato nell'esperienza. Esperienza che, per farsi sapere condivisibile, richiede di necessità il lavorio silente dell'ascolto.
Dodici scansioni, introdotte da un'ampia premessa che racconta, tra l'altro, le circostanze in cui una scritta murale, ripresa in titolo, parve all'autrice “scritta da me in sogno”, liberano i molti pensieri in discorso ragionante di chi mette nero su bianco senza perdere la relazione con il procedere di chi legge.
I succosi passaggi tra le guerre in corso e la storia che ha voltato pagina, ricongiungono il movente dello scrivere di Muraro a un “invito a non lasciare che il significato e il valore delle nostre vite, come acqua preziosa messa in un secchio bucato dalla ruggine, siano risucchiate nell'agonia di forme politiche senza anima”. L'intento a non disprezzare la buona volontà di nessuno, perché “la buona volontà sicuramente non basta, ma ci vuole” dà slancio per il salto sul racconto già cominciato di chi scrive e “ha visto con i suoi occhi aprirsi l'orizzonte e alzarsi il cielo – per sé, per le altre e gli altri – grazie alla nascita di una libertà che non passa per la mediazione del potere alle sue condizioni”.
L'impossibilità di evitare una precisa domanda – “perché ragiono e parlo come se fosse il ricorso alla violenza (quello effettivo che ne fa il potere e quello al quale noi privati cittadini dovremmo rinunciare per principio) l'incrinatura maggiore e il crinale decisivo nei rapporti politici, oggi?” – si distende sul piano del processo storico che ha portato alla morte della responsabilità politica, fatta risalire allo scoppio della prima guerra mondiale, quando “la potenza produttiva e lo sviluppo tecnologico avevano raggiunto un tale livello per cui, da strumenti al servizio degli esseri umani, stavano diventando padroni delle loro vite”.



Tocca alle donne

Il molto ancora da indagare sulla virilità, “alimentata e sfruttata dal potere politico, oggi come ieri” richiama l'insistenza di Muraro sul punto di vista femminile: “in pratica voglio dire che tocca alle donne riformulare la questione della violenza e sollevarla pubblicamente, essendo le donne in posizione per sapere tutta la parte di frode che c'è nel racconto moderno del contratto sociale e nel principio del monopolio statale della violenza” e avendo l'autorità che deriva loro dall'essere fuori-dentro quel patto e dalla frequentazione intima della violenza sessuale.
L'atto di pensiero che anima Dio è violent è una mossa non faziosa. Nasce “dal bisogno, che è generale, di correggere l'eredità politica, filosofica, religiosa segnata dal maschile e dalla soggezione femminile al maschile”, con l'intento dichiarato di promuovere l'indipendenza simbolica con tutta la forza necessaria, secondo la formula che dice: “quanto basta per combattere senza odiare, quanto serve per disfare senza distruggere”.
Formula né troppo magica, e neppure conclusiva. Nutriente e delicata, in verità. Sollecita obiezioni, porta a incontrare certezze inaspettate, semina domande che hanno la forza di scavare in sé e fuori di sé qualcosa di autentico.

Monica Giorgi