dossier Piazza 
                  Fontana & dintorni 
                  
                9. Il coinvolgimento degli apparati statali 
                 
                Freda e Ventura sono stati riconosciuti colpevoli per la strage 
                  di Piazza Fontana quando ormai non potevano più essere 
                  processati perché già assolti in via definitiva. 
                  Nel 1979 erano stati condannati all'ergastolo, ma le sentenze 
                  successive ribaltarono il verdetto. Nel 1987 la Corte di Cassazione 
                  confermò definitivamente la loro assoluzione per insufficienza 
                  di prove. Furono invece condannati con sentenza definitiva per 
                  ventidue attentati dinamitardi compiuti prima del 12 dicembre 
                  1969. 
                  Quei giovani fascisti erano consapevoli di scrivere una della 
                  pagine più tragiche della storia italiana del dopoguerra? 
                  Il sangue, i feriti e i morti servivano a creare terrore, paura, 
                  far nascere la psicosi della bomba, incolpare l'estrema sinistra, 
                  per imporre uno spostamento a destra degli equilibri politici. 
                  La creazione di un clima politico e sociale infuocato doveva 
                  spingere la media e piccola borghesia e le classi dirigenti, 
                  spaventate dalle enormi mobilitazioni operaie e studentesche, 
                  a invocare una soluzione forte. 
                  
                 A Roma, per il 14 dicembre 1969, era stata indetta dal Msi 
                  una mobilitazione contro la «barbarie comunista» 
                  e per un nuovo governo dal pugno di ferro, fermo e autoritario. 
                  Doveva essere una sorta di «parata della vittoria» 
                  a cui erano stati invitati tutti i gruppi di estrema destra, 
                  ordinovisti compresi. Ma, per motivi di ordine pubblico, le 
                  autorità vietarono la manifestazione. 
                  Poco dopo la strage, nel tardo pomeriggio, il presidente della 
                  Repubblica Giuseppe Saragat convocò i ministri e il comandante 
                  dei carabinieri per discutere l'opportunità di proclamare 
                  lo stato di emergenza. Presidente del consiglio era Mariano 
                  Rumor, che guidava un governo monocolore democristiano; vicepresidente 
                  era Paolo Emilio Taviani; ministro degli Interni era Francesco 
                  Restivo; della Difesa Luigi Gui; ministro degli Esteri Aldo 
                  Moro, che quel giorno si trovava a Parigi per la riunione del 
                  consiglio d'Europa. 
                  Proprio in questa riunione dei ministri dei vari Paesi europei, 
                  si doveva discutere la permanenza della Grecia all'interno di 
                  tale Consiglio. 
                  Il dittatore greco Georgios Papadopulos in quella mattinata 
                  diffuse un comunicato dal tono profetico: «Stiano attenti 
                  quelli che ci vogliono espellere, perché la democrazia 
                  è in pericolo anche nei loro Paesi. Si mettano all'altezza 
                  delle circostanze e affrontino quello che deve essere affrontato: 
                  una dura forza sovversiva, l'anarchia». Sembrava un avvertimento 
                  ai governi che volevano la Grecia fuori dal Consiglio Europeo, 
                  tra cui l'Italia. 
                  Comunque Rumor non attuò lo stato di emergenza. Forse 
                  fu indotto a desistere dalla reazione straordinariamente composta 
                  agli attentati di dicembre: il clima di sostegno che si era 
                  creato, l'imponente mobilitazioni degli studenti, dei sindacati 
                  e dei singoli cittadini che avevano affollato Piazza del Duomo 
                  per portare solidarietà ai familiari delle vittime, in 
                  un clima di rispettoso silenzio. Digilio ha affermato che il 
                  capitano Carret, funzionario della Cia, gli aveva confidato 
                  che il piano era fallito proprio per i tentennamenti di Rumor. 
                  Forse alla base della retromarcia ci fu un accordo: impunità 
                  per i colpevoli in cambio della mancata proclamazione dello 
                  stato d'emergenza. 
                  Oppure, tesi più plausibile, i ministri e il capo del 
                  governo che erano a conoscenza di alcuni nomi dei responsabili, 
                  hanno preferito il silenzio per non svelare il coinvolgimento 
                  degli apparati statali nell'atto terroristico. 
                  Non vi sono indizi che coinvolgano i governanti all'interno 
                  del piano eversivo, ma sicuramente alcuni di loro hanno contribuito 
                  a rallentare la strada verso la verità. 
                  
                 
                 
                 
                dossier Piazza Fontana & dintorni 
                  
                10. Conclusione 
                  
                 
                   
                  Nell'attentato alla Banca Nazionale dell'Agricoltura persero 
                  la vita: 
                   
                  Giovanni Arnoldi, 42 anni, da Magherno; 
                  Giulio China, 57 anni, da Novara; 
                  Eugenio Corsini, 71 anni, da Milano; 
                  Pietro Dendena, 45 anni, da Lodi; 
                  Carlo Gaiani, 57 anni, da Milano; 
                  Carlo Garavaglia, 67 anni, da Corsico; 
                  Paolo Gerli, 77 anni, da San Donato Milanese; 
                  Luigi Meloni, 57 anni, da Corsico; 
                  Gerolamo Papetti, 79 anni, da Rho, morì la mattina del 
                  sabato al Fatebenefratelli; 
                  Mario Pasi, 50 anni, da Milano; 
                  Carlo Luigi Perego, 74 anni, da Usmate Velate; 
                  Oreste Sangalli, 49 anni, da Milano; 
                  Carlo Silva, 71 anni, da Milano; 
                  Attilio Valè, 52 anni, da Moirano di Noviglio, deceduto 
                  la sera della strage al Fatebenefratelli; 
                   
                  A causa delle gravi ferite riportate, il 25 dicembre morì 
                  Angelo Scaglia, 61 anni, da Abbiategrasso e il 2 gennaio 1970 
                  morì Calogero Galatioto, 71 anni, da Milano. 
                   
                  Oltre dodici anni dopo, sempre a causa delle lesioni riportate 
                  quel 12 dicembre, morì Vittorio Mocchi, che nel 1969 
                  aveva trentatré anni. 
                   
                  Durante la commemorazione milanese dei quarant'anni della strage 
                  Aglaia Zanetti, familiare di una delle vittime, ha letto i nomi 
                  dei morti del 12 dicembre, aggiungendo in coda alla lista quello 
                  di Giuseppe Pinelli. 
                  
                   
                  Anche se i parenti delle vittime non possono più avere 
                  giustizia in un'aula di tribunale, mi sembra doveroso che le 
                  persone non lascino cadere nel vuoto del silenzio una barbarie 
                  che abbiamo subìto tutti. Perché quelle bombe 
                  non hanno fatto distinzioni, hanno estratto dal mazzo la vita 
                  di cittadini comuni; nella banca milanese, nella sala d'aspetto 
                  di seconda classe della stazione di Bologna o in piazza a Brescia 
                  poteva esserci chiunque: potevamo esserci noi. Ecco perché 
                  non si deve dimenticare.  
                   
                  Camilla Galbiati 
                  
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