letture 
                Vino e ribelli in terra d'Apua 
                di Franco Bertolucci 
                    
                È uscito di recente l'ultimo libro 
                  dello scrittore toscano Marco Rovelli, dedicato alla sua terra 
                  d'origine, la provincia di Massa e Carrara. Ce ne parla il direttore 
                  scientifico della Biblioteca Franco Serantini. 
                 
                   
                   
                   «Ho 
                  odiato la mia terra come si odia una madre secca e muta, una 
                  landa sterile e infeconda, un vuoto inabitabile e senza contorni. 
                  L'ho odiata perché mi appariva come un magma informe, 
                  impasto senza lievito. L'ho odiata perché non ne trovavo 
                  l'anima. L'ho odiata perché, man mano che mi conoscevo, 
                  temevo che non sarei stato altro da lei». Così 
                  inizia il viaggio autobiografico di Marco Rovelli, scrittore, 
                  musicista e insegnante di terra d'Apua, nato ai piedi di quelle 
                  montagne che, come scrive, ospitano i «visionari». 
                  Con una scrittura piana e vivace, Rovelli ci trascina in un 
                  viaggio personale nelle viscere di una terra fatta di donne, 
                  uomini e ribelli, tra leggende, mito e storia, di cui oramai 
                  rimane solo una flebile traccia. 
                  Rovelli nasce nell'anno successivo al Sessantotto studentesco: 
                  il 1969 fu caratterizzato dalla grande contestazione operaia 
                  – anno terribilis, che si chiuderà con la 
                  strage di stato di Piazza Fontana e il “suicidio” 
                  dell'innocente Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico, volato 
                  giù dal quarto piano della Questura di Milano –. 
                  Rovelli cresce culturalmente e politicamente negli anni '80, 
                  l'epoca dell'ascesa di Craxi e dell'incubazione del berlusconismo. 
                  Sono gli anni della deindustrializzazione, che per la provincia 
                  apuana significa la dismissione delle fabbriche storiche di 
                  tutta l'area del piano che va da Avenza a Massa, un'area nata 
                  sotto il fascismo come risposta negli anni '30 alla grande crisi 
                  del commercio del marmo. 
                  È in questo scenario che Rovelli si imbatte nella leggenda 
                  e nel mito delle genti ribelli di queste terre. L'incontro avviene 
                  progressivamente con la scoperta dei luoghi, degli spazi e delle 
                  montagne che sovrastano l'intero territorio. I luoghi sono le 
                  piazze e le strade di due città rivali ma vicine, Carrara 
                  e Massa, con le loro diverse origini, i loro monumenti e le 
                  loro lapidi. Queste città, pur con le loro diversità 
                  storiche, urbanistiche e delle loro genti, nonostante tutto 
                  sono unite da un indissolubile destino comune. 
                  Massa, politicamente moderata, è una città influenzata 
                  dal suo ruolo amministrativo e istituzionale, ed esprime sul 
                  piano sociale un riformismo gradualistico. 
                   
                    L'Oro 
                  bianco e il vino di Candia 
                
  Carrara è invece la città del marmo, dai forti 
                  contrasti sociali che contrappongono la borghesia industriale 
                  a un proletariato forgiato dal duro lavoro dell'estrazione dell'“oro 
                  bianco” e istintivamente ribelle. La città è 
                  ancora oggi attraversata spesso dalle ritualità laiche 
                  e libertarie dei cortei del primo maggio che bene testimoniano 
                  lo spirito e la fede delle sue genti agli ideali antiautoritari. 
                  Un approccio istintivo all'anarchismo con alcune venature mistiche, 
                  dove spesso l'adesione agli ideali libertari è vissuta 
                  come una “religione laica”. 
                  In mezzo a queste due realtà c'è poi Forno, un 
                  borgo che rappresenta l'anello di congiunzione tra la tradizione 
                  politica moderata della prima e il ribellismo della seconda. 
                  Gli spazi per eccellenza dove si tramanda la memoria di questi 
                  territori sono le osterie con i loro personaggi verghiani, che 
                  si affrontano, con duelli di parole e pensieri, sbicchierando 
                  il profumato vino di Candia. 
                  Le montagne che fanno da spettacolare palcoscenico a entrambe 
                  le città sono gli incredibili e affascinanti bacini marmiferi 
                  delle Alpi Apuane – definite da Rovelli «montagne 
                  resistenti». 
                  L'impatto con questo mondo permette a Rovelli di conoscere e 
                  raccontare la sua storia rovesciata – quella con l'esse 
                  minuscola – della società locale, la storia dei 
                  “vinti”, dei subalterni, dei “senza volto”, 
                  e delle loro utopie, delle loro contraddizioni, della loro caparbietà, 
                  in specie per i carrarini – dura come il marmo – 
                  che ne caratterizza lo spirito «insuscettibile di ravvedimento». 
                  Racconta Silvano, uno dei personaggi che Rovelli incontra in 
                  osteria, della «differenza ontologica» tra la gente 
                  di Massa e quella di Carrara: «Il massese è molle. 
                  È rimasto sempre un contadino, servile. Il carrarino 
                  no, il carrarino non si piega, è fiero, schiena dritta. 
                  Ha il contro in testa il carrarino». 
                  «E che significa?». 
                  «Per spaccare il marmo devi capire qual è la linea 
                  giusta, il suo verso. Se la segui, tagliarlo è facile. 
                  Se invece provi a tagliarlo diciamo al contrario, se vai contro 
                  il verso, non ci riesci: non c'è verso, proprio. E quello 
                  si chiama contro. 
                  Ecco, i carrarini hanno il contro in testa, sono duri, resistono, 
                  e non c'è verso di scalfirli. Non c'è il verso, 
                  proprio». 
                  Fantasmi di un passato remoto, che a volte riappaiono nell'oscurità 
                  delle fiaschetterie che raccontano di donne e uomini i cui nomi 
                  – Taro, Ciac, Pedro, Franca, Evaristo, Ometto, Conte Giò, 
                  Rina, Ovidio Pegollo e tanti altri – sembrano usciti da 
                  un film di Fellini, ai più non dicono niente ma in quei 
                  luoghi sono una parte attiva della memoria orale collettiva. 
                  Custodi di un tempo e di una storia che l'oblio tende a cancellare 
                  e a volte esse stessi vittime di un mito – quello della 
                  città “anarchica” per eccellenza – 
                  che tende a fagocitare la storia stessa del movimento libertario. 
                  Come dice l'autore del libro «il selciato di Carrara è 
                  ingombro di memoria». 
                  Dalle conversazioni e dalle sbicchierate in osteria escono altri 
                  nomi come quello di Alberto Meschi, Galileo Palla, Gino Lucetti, 
                  Pietro Gori, Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, Ugo del Papa ecc. 
                  e momenti di storia collettiva come i Moti di Carrara del 1894; 
                  la rivolta delle donne di Piazza delle Erbe contro gli occupanti 
                  nazi-fascisti del 1944 e le incredibili vicende del movimento 
                  resistenziale apuano; le manifestazioni di Lotta continua – 
                  il ricordo della presenza di Adriano Sofri a Massa – dei 
                  primi anni Settanta; la dura agitazione contro la Farmoplant 
                  – industria chimica della “morte” – 
                  degli anni Ottanta; le rivendicazioni dei Cobas del marmo – 
                  guidati da Giovanni Pedrazzi detto «Pedro» – 
                  sull'uso civico degli agri marmiferi negli anni Novanta del 
                  secolo scorso (un bene comune delle comunità locali espropriato 
                  dalla borghesia industriale nel XIX secolo). 
                  Infine, altri personaggi animano questo racconto, con storie 
                  diverse come quella di Gogliardo Fiaschi, dei compagni del Circolo 
                  Bruno Filippi, fino alla vicenda di Ovidio Bompressi. È 
                  bene precisare che questo non vuol essere un libro di storia. 
                  Il racconto si alimenta delle storie biografiche di alcuni ribelli, 
                  che per vari motivi hanno attraversato l'immaginazione e il 
                  cuore di Rovelli. Queste vicende sono un approccio personale 
                  e letterario a una storia, quella del movimento anarchico della 
                  zona, che è assai ben più complessa, articolata 
                  e ricca di personaggi. 
                   
                    Uno 
                  sguardo al passato
                  La lettura delle pagine di questo libro che, a volte, risente 
                  positivamente anche di un taglio antropologico, ci immerge altresì 
                  nella particolare cultura del lavoro di queste terre, sui mille 
                  mestieri che animano l'antica estrazione del marmo. Un mondo 
                  anch'esso in via di estinzione a causa dell'insensato e selvaggio 
                  industrialismo che, oltre a far scomparire il lavoratore di 
                  mestiere, ha ridotto queste bellissime montagne in un groviera 
                  con mille problemi ambientali. 
                  Un libro per la memoria perché, dice Rovelli, in «assenza 
                  di futuro non restava che rivolgersi al passato», alla 
                  ricerca di quel «conduttore elettrico» che ha contribuito 
                  a illuminare la storia sociale e politica di questa terra. Racconti 
                  nel racconto, quasi generazionale, di una generazione «orfana» 
                  dei «padri dell'anarchia e dell'utopia» che non 
                  sa darsi pace dell'inevitabile avanzare delle acque del fiume 
                  mitologico Lete che ogni memoria distrugge. Un processo che 
                  porta Rovelli a domandarsi «dove sono finiti tutti quei 
                  ribelli» e «dove sono finiti quei sogni?». 
                  Risposte non ce ne sono, questa non è più l'epoca 
                  delle grandi certezze delle ideologie e poi questo è 
                  un racconto, non un libro di sociologia o di filosofia politica 
                  ed è giusto che il lettore provi da solo a immaginare 
                  e sognare le proprie risposte a una crisi epocale che attraversa 
                  l'intera società come, inevitabilmente, anche l'anarchismo 
                  contemporaneo e che angoscia anche l'autore di questo libro. 
                  Rovelli chiude il proprio racconto lasciando aperta una finestra 
                  sul futuro, quando descrive la lotta di un gruppo di migranti 
                  nel Duomo di Carrara, di cui egli stesso è partecipe: 
                  «Ecco, qui, nel centro della città, dove ci sono 
                  lavoratori senza diritti che li rivendicano, è qui che 
                  io ritrovo finalmente lo spirito di una terra che non sentivo 
                  più mia. È qui che trovo la resistenza viva, vibrante, 
                  gioiosa, piena di speranza, che guarda all'avvenire. È 
                  qui che i fantasmi smettono di essere tali, e tornano a essere 
                  lo spirito di corpi che agiscono e costruiscono un mondo». 
                    
                  Franco Bertolucci
                  
                 Ecco qualche stralcio dal libro di Marco 
                  Rovelli 
                   
                  “Differenze ontologiche” 
                   
                  All'osteria mi insegnarono il brindisi alla carrarina. Perché 
                  questa è un'osteria della campagna massese, sì, 
                  ma sta appena sotto le colline del Candia, e il Candia richiama 
                  anche i carrarini. Uno di loro mi ha preso per un braccio una 
                  sera che si cantava, “Vieni qui che ti offro un bicchiere”, 
                  e tu mica puoi dirgli che ce l'hai già sul tavolo e ne 
                  hai bevuto anche tanto, è buona educazione accettare. 
                  Beve, e alza il bicchiere, anzi il bicierin, il “goccio 
                  di vino” che si può scolare tutto d'un fiato. Brinda, 
                  e quel brindisi somiglia molto a un rito. Si leva il bicierin 
                  in alto, lo si fa digradare verso terra, poi lo si porta a sinistra 
                  e infine a destra: un segno della croce, insomma, e l'importante 
                  è che l'occhio non perda mai di vista il vino. Si salmodia 
                  nel gesto apotropaico: “ciar i è ciar – muss'lin 
                  a ni né – te 'n t'l vo – te nemanc – 
                  al bev me” (chiaro è chiaro – moscerini non 
                  ce n'è – te non lo vuoi – te neanche – 
                  lo bevo io). Va da sé che si pronuncia l'ultimo verso 
                  levando il bicierin alla bocca per assimilare il Verbo. 
                   
                  “Sai qual'è la frase migliore per definire il carrarino? 
                  Il contro in testa”. 
                  Silvano veniva di tanto in tanto all'osteria, e mi diceva della 
                  differenza ontologica tra massese e carrarese. 
                  “Il massese è molle. È rimasto sempre un 
                  contadino, servile. Il carrarino no, il carrarino non si piega, 
                  è fiero, schiena dritta. Ha il contro in testa il carrarino.” 
                  “E che significa?” 
                  “Per spaccare il marmo devi capire qual è la linea 
                  giusta, il suo verso. Se la segui, tagliarlo è facile. 
                  Se invece provi a tagliarlo diciamo al contrario, se vai contro 
                  il verso, non ci riesci: non c'è verso, proprio. E quello 
                  si chiama contro. 
                  Ecco, i carrarini hanno il contro in testa, sono duri, resistono, 
                  e non c'è verso di scalfirli. Non c'è il verso, 
                  proprio.” 
                   
                  Il marmo è come la vita, morbido al verso e duro al contro. 
                   
                  “Solo che avere il contro in testa non è facile. 
                  È un bel fardello da portare. Che se ti trovi in periodi 
                  di piena va bene, sei un ribelle, ti unisci con gli altri e 
                  allora guai a chi vi tocca. Se Carrara è terra di anarchici 
                  ci sarà un motivo no? Ma in tempi di secca, quando nessuno 
                  ha speranze di trasformare questo mondo, allora avere il contro 
                  di testa non è bello, vai contro il tuo vicino, il tuo 
                  compagno, il tuo amico. Tutti a parlar male dell'altro, a farsi 
                  guerra l'un con l'altro. Non è bello.” 
                  Silvano alzò il bicchiere e se lo scolò d'un sorso. 
                  Niente brindisi. “È un mondaccio questo. E mi sto 
                  stufando di questa terra.” 
                  ***
                  Piazza Gino Lucetti  
                   
                  Silvano l'ho incontrato di nuovo dopo alcuni anni, tra le bandiere 
                  nere e rosse alla fine del corteo del primo maggio anarchico 
                  a Carrara. Un corteo di canti, una ritualità antica, 
                  corone di fiori rossi alle lapidi. Tante. Troppe, visto che 
                  dietro ognuna di quelle lapidi c'è una vittima da ricordare. 
                  Le vittime dei moti del 1894 alla caserma Dogali, Giordano Bruno 
                  in piazza del Duomo, Alberto Meschi storico sindacalista d'inizio 
                  novecento, e per finire i morti alle cave e Francisco Ferrer 
                  educatore anarchico, le due lapidi che stanno nella piazza dove 
                  arriva il corteo. La piazza ufficialmente si chiama piazza Alberica 
                  – dal duca Alberico I dei Cybo Malaspina, il sovrano che 
                  la volle nel Seicento –, ma per gli anarchici continua 
                  a essere piazza Gino Lucetti, l'anarchico che attentò 
                  a Mussolini e per un soffio lo mancò, in un tragico impeto 
                  di sfortuna: la bomba rimbalzò sul tetto della macchina 
                  del Testa di Morto, esplodendo solo toccando terra e ferendo 
                  sei persone plaudenti. Lucetti venne condannato all'ergastolo. 
                  Nel 1943, all'arrivo degli alleati, Lucetti fu liberato dal 
                  carcere di Santo Stefano, una delle isole ponziane, ma riuscì 
                  a vivere libero solo per pochi giorni: arrivato a Ischia, il 
                  17 settembre morì sotto un bombardamento aereo tedesco. 
                  A Lucetti venne dedicato il battaglione partigiano libertario 
                  sui monti apuani, a lui venne dedicata la piazza, che nel 1960 
                  tornò all'antica denominazione per gli stradari ufficiali. 
                  Non per gli anarchici però, che nei loro manifesti di 
                  convocazione della giornata continuano a scrivere “piazza 
                  Gino Lucetti”. 
                  [...]
                  “Anche le pietre sono anarchiche” 
                   
                  A percorrere la strada della Foce – una strada in collina 
                  con i boschi che di tanto in bruciano, tra piccole cave e case 
                  sparse – mi sono sforzato di vedere il fantasma che ha 
                  segnato l'immaginario di questa terra: quello delle plebi in 
                  sommossa durante i moti del 1894, alla cui lapide sulla caserma 
                  Dogali si mette la corona di fiori il primo maggio. 
                  Mi è sempre piaciuta questa storia. Sui manuali dei licei 
                  c'è scritto moti di Lunigiana, perché ancora nell'ottocento 
                  Lunigiana comprendeva Massa e Carrara (mentre oggi si intende 
                  unicamente l'entroterra, da Aulla a Pontremoli, che con le due 
                  città di costa non ha molto a che spartire). Furono, 
                  in realtà, moti di Carrara e, in sottordine, di Massa. 
                  Era sulla strada della Foce che una delle bande degli insorti 
                  aveva eretto la prima rudimentale barricata, fermando due carri 
                  trainati da buoi, carichi di blocchi di marmo, e mettendoli 
                  di traverso. Era il 13 gennaio, e l'insurrezione carrarina avrebbe 
                  contagiato l'Italia, i dimostranti ne erano certi. Del resto 
                  in Sicilia il fuoco era già stato appiccato, dai Fasci 
                  Siciliani, e in parecchie altre città a dimostrare erano 
                  grandi folle. La banda che veniva da Ortonovo aveva con sé 
                  una bandiera nera, orlata di rosso, con scritto in caratteri 
                  d'oro: Fascio Operaio. Era la rivoluzione. 
                  “Domani i soldi italiani non hanno più valore perché 
                  deve entrare un nuovo governo”, si diceva in giro. Riportano 
                  le relazioni di polizia che un tale Alessandro Merlini disse 
                  a un tale Andrea Spagnuoli, il quale stava andando a trovare 
                  la fidanzata: “questa sera non si fa l'amore perché 
                  dobbiamo andare a Carrara a fare la dimostrazione”. Quella 
                  dimostrazione a cui l'amore andava sacrificato doveva essere 
                  la scintilla della rivoluzione. Dopo la scintilla della Foce, 
                  si mossero le genti dei paesi di montagna – e non solo 
                  di quella carrarina, anche di quella massese. Ma tutto si risolse 
                  in un massacro. Non riuscì l'effetto sorpresa, le bande 
                  non presero il controllo della città, e quando arrivò 
                  l'esercito la manifestazione delle genti di montagna venne repressa 
                  nel sangue: fucilate sui quattrocento che avanzavano, dieci 
                  morti sul terreno. 
                  A Massa venne instaurato il Tribunale di Guerra, che in tre 
                  mesi comminò 454 condanne per oltre 2500 anni di carcere. 
                  Più del 60 per cento dei condannati erano cavatori. Su 
                  542, 68 erano massesi, in maggioranza dei paesi della montagna. 
                  Galileo Palla, anarchico lunigianese trapiantato a Massa, che 
                  sulla montagna massese aveva predicato il verbo anarchico, ed 
                  era definito nei documenti di polizia “il primo della 
                  lista degli anarchici più pericolosi della Provincia 
                  di Massa Carrara”, ebbe a dire che “in Carrara anche 
                  le pietre sono anarchiche”: ebbene, questo anarchismo 
                  non poteva non spargersi come polvere di marmo su tutto il territorio 
                  circostante. 
                  Lo stesso Palla aveva scritto due anni prima agli anarchici 
                  di Massa, in un momento di crisi politica (pareva ch'essi volessero 
                  appoggiare l'elezione di un deputato): “Sappiate imitare 
                  Carrara, consorella di Massa.” Due città sorelle, 
                  dunque. È questo punto, prima e al di là delle 
                  differenze. Tanto è vero che a innalzare le barricate 
                  sulla Foce era stata quasi certamente una banda di cinquecento 
                  persone scese dalla montagna massese. 
                  “Il contro in testa, Valè, ce l'hanno anche i massesi. 
                  Quelli del piano no, solo qualcuno. Ma quelli della montagna 
                  di sicuro. Più vicini stanno alla montagna, più 
                  hanno il contro in testa. È la montagna a fare resistenza.” 
                  Così aveva detto Carlo all'osteria urlando a Silvano. 
                  Poi aveva tirato l'ultima bestemmia e se n'era andato a casa. 
                  “Sì”, aveva borbottato Silvano come se Carlo 
                  ci fosse ancora, “ma i fascisti son sempre stati tutti 
                  massesi”. E si era ripreso l'ultima bestemmia, che spettava 
                  a lui. 
                  [...]
                  Bandiere 
                   
                  C'è tutto questo sovraccarico di sensi e di emozioni 
                  in gioco, in questa terra, sensi ed emozioni che traboccano 
                  e ci fanno figurare una realtà diversa da quella che 
                  in realtà è. Accadde a José Seves, lo storico 
                  leader degli Inti-Illimani, quando sbarcò a Carrara per 
                  un concerto. Appena fuori dall'autostrada, appesi ai pali dei 
                  cartelloni pubblicitari, c'erano due enormi bandiere rossonere, 
                  il vento le faceva sventolare, era come se un'icona si palesasse 
                  per come la si è sempre figurata: “Carrara, sì!”, 
                  esclamò felice e tonitruante José, “la patria 
                  dell'anarchia!”. Un istante dopo, la sua voce fu sommersa 
                  dai clacson di un corteo di auto, tutte imbandierate di rossonero: 
                  e fu facile accorgersi che non era per il trionfo della rivoluzione 
                  anarchica, ma per la vittoria dello scudetto del Milan.
                    
                  Marco Rovelli
                 
 
                   
                      
                        Il contro in testa 
                          gente di marmo e d'anarchia 
                           
                          Marco Rovelli  
                           
                          L'Apuania – Massa e Carrara – è sempre 
                          stata terra di ribelli, anarchici, partigiani, sovversivi. 
                          Terra di confine, terra di margine: e nei suoi margini 
                          si articola questa storia, tra osterie, montagne, cave 
                          di marmo, boschi e pastori, alla ricerca delle testimonianze 
                          di quel passato ribelle, per vedere quanto è 
                          ancora presente, e per vedere se c'è un avvenire. 
                          Quegli “uomini che non ci sono più” 
                          hanno ancora qualcosa da insegnarci? Possono ancora 
                          parlarci? Sono solo fantasmi dissolti in una mitologia 
                          passata o le loro tracce possono essere ancora seguite? 
                          Un intreccio di storie visionarie, con percorsi eccentrici: 
                          dal Taro, ultimo partigiano anarchico che custodisce 
                          il circolo dei libertari a Ovidio Pegollo, fondatore 
                          con Sofri di Potere Operaio, embrione di Lotta Continua. 
                          E poi cavatori, pastori, veggenti, operai. E tanto vino, 
                          visto che la narrazione si articola attorno ai tavoli 
                          delle tante osterie. 
                          In una terra che dagli anni ottanta pare aver smarrito 
                          la propria identità, presa nella morsa di una 
                          crisi economica, ambientale, culturale, che ha di fatto 
                          anticipato un processo più generale che ha riguardato 
                          l'intero paese, l'autore si fa voce narrante alla ricerca 
                          di storie, voci che s'infilano una dietro l'altra per 
                          restituire la verità di una storia che possa 
                          essere ancora viva e vibrante. 
                          Marco Rovelli 
                        Il contro in testa: gente 
                          di marmo e d'anarchia
                         Roma-Bari, Laterza, 2012, pp. 144, € 
                          14,00.
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