rivista anarchica
anno 42 n. 372
giugno 2012


Piazza Fontana

Una storia non solo mia

di Paolo Finzi

Nella seconda edizione de “Il segreto di piazza Fontana” Paolo Cucchiarelli dedica mezza pagina a un nostro redattore.
Sarebbe, in sostanza, un doppio bugiardo e un vigliacco (verso Pinelli). Ma Finzi non ci sta e qui spiega perché ha deciso di agire per diffamazione contro Paolo Cucchiarelli (e Roberto Gremmo).

 

Milano 12 dicembre 1969. L’interno della Banca
Nazionale dell’Agricoltura sventrato dalla bomba

Il mio 12 dicembre 1969

Influenzato, sono a letto a casa mia, in via Marcora 7, a Milano. Nel pomeriggio si diffonde la notizia di un’esplosione in centro. Telefono al mio amico Giammarco Brenelli, per sapere se ne sa di più. È un mio compagno di scuola (non di classe) al liceo classico “Carducci”, io animatore del gruppo anarchico Carducci, lui liberale, moderato, di centro: aldilà delle divergenze, siamo amici e il dialogo tra noi dura da tempo.
La sera, non ricordo esattamente a che ora, si presentano due uomini delle forze dell’ordine. Due vicini di casa hanno aperto loro il portone sotto, sono saliti al quarto piano e ai miei genitori dicono che devo seguirli, sarei – a detta di uno dei due – uno dei potenziali responsabili dell’attentato che con 17 morti ha insanguinato la città. Mia madre mi fa coprire bene, sciarpa, maglione e poi si precipita al telefono. 25 anni prima era partigiana combattente a Roma, quella sera si limita a tirar giù dal letto l’avvocato Mario Boneschi, vecchio liberale, una delle figure di punta del Partito Radicale. Dopo poco parte un telegramma per la Questura, “non torcete un capello a mio figlio, è reduce da un grave incidente motociclistico con trauma cranico e commozione cerebrale, vi ritengo fin d’ora responsabili di quanto possa accadergli mentre è nelle vostre mani”. La vecchia socialista non si è mossa male. Naturalmente apprenderò dopo questo dettaglio.
Vengo caricato in auto, il tragitto fino alla Questura è breve. Il posto non mi è del tutto sconosciuto. Ho alle spalle un paio di fermi, in entrambi i casi durante manifestazioni di piazza: la prima volta due anni prima, manifestazione in piazza Duomo, il famoso commissario Vittoria fa suonare la tromba e poi la carica della polizia. Vedo tutti che scappano, io non sono mica scemo, sto tranquillo davanti a una vetrina, così non mi succede niente. Mi caricano su di una camionetta verde e con altre decine di persone vengo portato in Questura. La seconda volta ero in via Manzoni, un poliziotto in borghese mi prende sottobraccio e molla la presa solo dentro la Questura.
Per il primo fermo arriva l’imputazione di “adunata sediziosa”, in tribunale finirà tutto nel niente (per me e per gli altri fermati/denunciati). Il mio avvocato difensore era Mario Boneschi.
Nel gennaio 1969, poi, cioè quasi un anno prima del 12 dicembre, vengono un po’ di agenti a casa mia, effettuano una perquisizione di alcune ore alla ricerca di materiale esplodente, in camera mia sollevano anche il parquet, non trovano niente. Ma dopo quella perquisizione i miei genitori mi spediscono dal citato avv. Mario Boneschi, che mi fa stendere una lettera che viene inviata in Questura e forse altrove. Io, allora diciassettenne, rivendico il mio anarchismo e al contempo il mio essere nonviolento.
Torniamo alla notte tra il 12 e il 13 dicembre 1969. Nel corso della notte vengo interrogato (“Dov’eri lo scorso pomeriggio? Chi pensi sia stato l’autore dell’attentato?”), poi come quasi tutti vengo portato nelle celle della Questura, strapiene di fermati, quasi tutti rilasciati nel pomeriggio di sabato 13 dicembre. Quasi.
Nel salone al quarto piano della Questura ricordo qualche volto noto, Sergio Ardau, Pino Pinelli (con il quale scambio qualche battuta), Cesare Vurchio (che si ricorda di me imbacuccato, con una sciarpa al collo: ero febbricitante e la mamma prima di vedermi uscire con i poliziotti mi aveva coperto bene).
Resto in Questura fino al pomeriggio di sabato 13 dicembre.
Questo, in sintesi, il mio 12-13 dicembre.

Il mio 12 dicembre 1969 (secondo Cucchiarelli)

Cucchiarelli, nella seconda edizione del suo libro (quello della tesi delle 2 bombe contemporaneamente messe nella Banca dell’Agricoltura), ricostruisce in maniera un po’ diversa quelle mie ore.
Molto probabilmente, secondo Cucchiarelli, io sarei quel Paolo Erda che si trovava verso le ore 17.15 del famoso venerdì 12 al Circolo anarchico “Ponte della Ghisolfa”, quando vi si recò Pinelli, proveniente dal bar dove aveva giocato a carte al momento dell’esplosione in piazza Fontana. In realtà era già agli atti del giudice D’Ambrosio (interrogatorio di Ivan Guarnieri, 23.11.1971; interrogatorio di Ester Bartoli 23.11.1971; interrogatorio di Ivan Guarnieri 21.02.1972) che Paolo Erda era il soprannome di Paolo Stefani, quindi non ero io. E anche nell’edizione 2009 del libro “Bombe e segreti” di Luciano Lanza è scritto chiaramente che Erda era Stefani.
Se io fossi, come sostiene Cucchiarelli, Paolo Erda, sarebbe interessante – scrive sempre Cucchiarelli – sapere perchè io abbia sempre taciuto e non mi sia presentato a confermare l’alibi di Pino Pinelli. Peccato, che non essendo io Paolo Erda, tale facoltà non mi fosse data.
Poi Cucchiarelli cita Roberto Gremmo, fondatore e direttore della rivista Storia Ribelle e autore di improbabili libri “storici” spesso caratterizzati da un uso approssimativo delle “fonti” e denigratori verso gli anarchici. Questo Gremmo, nel suo “Il triangolo delle bombe” (stampato come supplememto al n. 30 della rivista Storia Ribelle nel novembre 2011), sostiene che io avrei mentito riguardo al mio fermo la sera del 12 dicembre. E lo fa, da instancabile ricercatore quale lo qualifica Paolo Cucchiatelli, rifacendosi a una fotocopia questurinesca riprodotta nel libro di Vincenzo Nardella “Noi accusiamo!” del 1972: tale fotocopia contiene 25 nomi e cognomi di fermati il 13 dicembre (e non il 12 dicembre) ed è comunque un elenco sicuramente incompleto, visto che i fermati furono complessivamente oltre un centinaio. In questo elenco parziale mancano, tra gli altri, i nomi di Giuseppe Pinelli e di Virgilio Galassi, nomi riportati anche dai giornali, il primo per le note successive ragioni e il secondo perché era il responsabile del Centro Studi della Banca Commerciale, anarchico “in sonno” da lungo tempo, per la cui scarcerazione si mosse subito il numero uno della Commerciale, Raffaele Mattioli, una delle personalità più importanti della finanza italiana di allora.
Secondo quanto riporta Gremmo, invece, Finzi non risulta affatto nell’elenco dei fermati – unico tra i compagni anarchici di Pino –, e bisognerebbe capire perché. Con queste parole Cucchiarelli chiude la mezza pagina a me dedicata. Non è roba da poco: con un piccolo passo in avanti, bisognerebbe chiedersi dov’era Paolo Finzi alle 16.37 di quel venerdì 12 dicembre, visto che a letto a casa sua non c’era (se era il Paolo Erda al “Ponte della Ghisolfa”) e poi ha millantato un fermo di polizia che non risulta.

La copertina del dossier “Pinelli,
piazza Fontana. La criminalità del potere”.
(Pubblicato su A330 novembre 2007)

Situazione un po’ kafkiana

Alla fine dello scorso mese di marzo, una volta letto, su segnalazione di Adriano Sofri, quanto Cucchiarelli ha aggiunto su di me nella seconda edizione del suo libro, mi sono recato dall’amico avvocato Luca Boneschi: una mia vecchia conoscenza, visto che lo conosco fin dal 1968, intanto perché allora bazzicavo anche la sede, in via Lanzone, del Partito Radicale (e Luca per un periodo era iscritto al PR) e poi perché il giovane avvocato Luca era nel comitato di difesa degli anarchici arrestati per gli attentati del 25 aprile 1969 alla Fiera Campionaria e alla Stazione Centrale di Milano (come successivamente lo sarebbe stato in quello di Valpreda). E poi Luca era nipote proprio dell’avvocato Mario Boneschi, il legale di fiducia dei miei genitori, che già si era occupato di me sia in relazione alla perquisizione del gennaio 1969 sia al precedente fermo (con denuncia) nel corso di una precedente manifestazione. Fu Luca Boneschi, dopo la morte di Pinelli, a suggerirmi di andare dal giudice Ugo Paolillo a rendere testimonianza del mio colloquio con Pinelli in Questura durante la notte tra il 12 e il 13 dicembre. Paolillo – al quale poi vennero avocate le indagini sulla strage di Piazza Fontana e sulla morte di Pinelli – era interessato a qualsiasi testimonianza di persone che lo avessero incontrato durante il suo fermo, per sapere in che stato psicologico si trovava. E io testimoniai che, pur nella palese concitazione dell’ambiente (eravamo tutti fermati in relazione a un attentato con morti e feriti) Pino era sereno e – per quanto mi riguarda - rassicurante nei confronti di un diciottenne quale ero.
Trascorsi 43 anni da quei giorni, ho dovuto raccogliere alcune testimonianze a conferma della “mia” verità sul mio 12-13 dicembre 1969. L’avvocato Gianmarco Brenelli, liberale oggi come allora, testimonia del nostro colloquio telefonico, prima citato, e allora non c’erano cellulari, se chiamavi da casa eri a casa. Mio fratello Enrico testimonia dell’arrivo delle forze dell’ordine in casa nostra e del mio fermo. L’anarchico Cesare Vurchio, allora il più stretto amico e compagno di Pinelli (erano anche coetanei), testimonia di avermi visto in Questura quella notte.
Situazione un po’ kafkiana. Dopo 43 anni devo io dimostrare quella che per me non è solo la certezza dei fatti, ma è anche la data che ha segnato profondamente la mia vita, trasformandomi in un convinto militante anarchico. Di Pinelli, di quelle giornate, ho reso spesso pubblica testimonianza in conferenze, scritti... Ho curato il dossier su Pinelli e la strage di piazza Fontana, che abbiamo realizzato come rivista “A”. Tutto falso? Tutto basato su di un mio millantato protagonismo, con menzogne e reticenze?
Gremmo e Cucchiarelli mi hanno profondamente offeso, cercando di farmi apparire un personaggio ambiguo, bugiardo e ancor peggio vigliacco con una persona, come Pino, nel ricordo della quale ho condotto da allora un certo tipo di esistenza e di impegno politico mai abbandonati.
Chiudo ricordando che nella primavera del 1970, in una riunione del gruppo “Bandiera Nera” a casa di Amedeo Bertolo, chiesi di poter “entrare nel gruppo”. Aspettai fuori dalla stanza in cui si svolgeva la riunione… E quando mi dissero che ero stato accettato, ne fui orgoglioso: ero il primo compagno a entrare nel gruppo dopo la morte di Pino. Ai miei occhi, “prendevo il suo posto”.
E oggi c’è chi crede di poter scrivere che su Pino io avrei sempre taciuto e non mi sarei presentato a confermarne l’alibi. Oltre a essermi inventato tutta la storia della malattia e del fermo in Questura. È un’offesa che mi ferisce e anche per questo ho dato mandato al mio legale di agire per diffamazione contro Roberto Gremmo e contro Paolo Cucchiarelli (e le loro case editrici).

Paolo Finzi

43 anni dopo

Questa notizia l’ha data l’Ansa»: nel mondo della carta stampata, un tempo, voleva dire: notizia certa e verificata. Ma se un giornalista di quella agenzia, Paolo Cucchiarelli, riesce a mettere insieme più di 600 pagine traboccanti di invenzioni, macroscopici errori, fantasie bisogna forse ripensare quel giudizio.
Dopo le varie recensioni della prima edizione di Il segreto di Piazza Fontana (fra le altre ricordo quella molto puntuale di Enrico Maltini su Libertaria (n. 3 del 2009) adesso è in rete (ma sarà presto pubblicato) 43 anni. Piazza Fontana, un libro, di Adriano Sofri.
Ecco un capitolo importante del lavoro di Sofri:

Promemoria sugli errori di fatto più vistosi
Per dare un po’ di ordine alle pagine, premetto un elenco sommario di alcuni degli errori contenuti nel libro, sui quali i documenti disponibili fanno inequivocabilmente luce.

  1. Dei due taxi abbiamo detto. Cucchiarelli dice che ci furono due taxi, identifica il secondo, oltre a quello guidato da Rolandi (con Valpreda, secondo lui), e gli mette dentro un passeggero attentatore.
    Io gli dico chi viaggiava nel secondo taxi, e perché.
  2. “Paolo Erda o Ergas”. Nome citato da Pinelli come quello di un compagno incontrato il pomeriggio del 12 dicembre. Cucchiarelli prima lo associa con un Ivan – altra persona, Ivan Guarnieri – e li scambia per fratelli. Poi li dichiara inesistenti. Non si cura degli anarchici che dicono che Erda era un soprannome, e che conoscono bene la persona. Quando si accorge dell’errore, attribuisce il cognome a una persona che non c’entra niente. Io qui gli dico, sulla scorta degli atti processuali, che il nome vero di Paolo “Erda” – Paolo Stefani - vi era ripetutamente contenuto. Anche a questo madornale errore, Cucchiarelli lega conseguenze incredibili: per esempio, che Pinelli in Questura l’avesse formulato per anagrammarlo, così che, combinando (e arrangiando) ‘IVAn e PaoLo ERDA’, venisse fuori VALPREDA!
  3. “L’altro ferroviere”. Cucchiarelli ipotizza che ci fosse a Milano “un altro ferroviere finto-anarchico”, e anche a lui assegna un ruolo essenziale nel turbamento finale di Pinelli. Lo identifica in un noto terrorista ordinovista. Solo che il noto ordinovista non era ferroviere, né tutto il resto. Come nell’amaro tango “La Chorra”: “Y he sabido que el “guerrero” / que murió lleno de honor, / ni murió ni fue guerrero como m’engrupiste vos”. Questo errore è stato dimostrato non da me, ma da attenti recensori, sulla scorta di un documento di polizia ritrovato da Aldo Giannuli. L’“altro ferroviere” faceva il postino a Genova.
  4. Il “misterioso compagno”. Avevo scritto, ne La notte che Pinelli, che Pinelli nel tardo pomeriggio del 12 dicembre, prima di arrivare al circolo Scaldasole dove fu fermato, si era brevemente intrattenuto con un compagno. Cucchiarelli mi attribuisce la rivelazione e si chiede chi mai fosse quel “misterioso compagno”, prova a identificarlo (“Paolo Erda”), vi intuisce conseguenze importanti. Nella carte, che io semplicemente citavo, viene fatto il nome di quella persona, che abitava lì: e naturalmente qui ne faccio il nome.
  5. Il numero “7”. Nella borsa contenente la cassetta inesplosa e fatta brillare il 12 dicembre alla Banca Commerciale milanese, era stampigliato il numero 7. Cucchiarelli sostiene che fosse presente anche sulla cassetta, e che, invece che di un segno di fabbricazione, si trattasse di un modo degli attentatori di numerare le loro bombe: questa era la settima. E ne ricava una conferma alla sua convinzione che le bombe di quel giorno non fossero cinque – due a Milano e tre a Roma – ma sette, e che le altre due di Milano non fossero esplose perché in extremis Pinelli le aveva neutralizzate. Mostro come il calcolo delle bombe fatto da Cucchiarelli stesso in un altro capitolo le riduce – inavvertitamente – a sei (6).
  6. Dalle mani del “mussoliniano-anarchico” Nino Sottosanti, figura centrale di questa storia, passa una cassetta portagioielli “simile” a quella della bomba alla Comit. Donde varie deduzioni. Mostro qui, con le carte di polizia, che quella cassetta era stata rivenduta da Sottosanti ben prima del dicembre.
  7. Cucchiarelli fa un continuo e inaccettabile ricorso a “fonti già di estrema destra” che vogliono restare anonime. Mostro come, nei casi in cui un argomento perentorio di Cucchiarelli “confermato” dalle sue fonti anonime viene dimostrato per tabulas fallace, ne risulta a maggior ragione fallace la “conferma” anonima.»

Sofri, oltre a questo promemoria, passa poi a un altro «nodo fondamentale» della fantasiosa ricostruzione di Cucchiarelli: le fonti anonime. Scrive Sofri:

Le fonti anonime
Abbiamo detto che c’è nel libro di Cucchiarelli un increscioso ricorso a fonti anonime. Tanto anonime quanto spettacolose. Ogni volta che la sua ricostruzione si fa più spericolata e rocambolesca, ecco che interviene una fonte, anonima ma affidabile affidabilissima, autorevole autorevolissima, a fornirne una puntuale conferma, sicché, a prenderla in parola, c’è da chiedersi se sia nato prima l’uovo dell’elucubrazione di Cucchiarelli o la gallina della fonte anonima.
Le “due bombe inesplose” a Milano? «Se non bastassero il ‘7’ su borsa e cassetta [non basta, no!], le voci a caldo degli anarchici, le tracce sui quotidiani dell’epoca e le testimonianze dei fascisti, ce lo conferma anche una fonte qualificata di destra, che ci ha chiesto esplicitamente di non essere citata: i due ordigni erano “sicuramente” pronti a esplodere».
La miccia vera o supposta alla BNA? «In più di un colloquio privato, una fonte qualificata di destra ci ha confermato l’utilizzo della miccia a Piazza Fontana. E ci ha dato anche un’indicazione sui tempi…».
Gli itinerari delle borse usate per gli attentati? «Dai nostri colloqui con un esponente dell’estrema destra che partecipò all’operazione, che vuole rimanere anonimo…». Perché Valpreda prese un taxi per fare l’equivalente di centosettanta passi a piedi, e lo fece fermare oltre la banca, facendo dunque centosessanta passi a piedi nella direzione opposta? « “Perché qualcuno gli aveva semplicemente detto che doveva prendere il taxi. Gli si diedero 50.000 lire e il ballerino non si pose di certo il perché… Tutto qui” rivela una fonte qualificata di destra che, naturalmente, non vuole essere citata».
La riunione del 9 dicembre a Roma per dare il via all’operazione? «Il fatto ci è stato confermato da una persona che a quella riunione partecipò». E così via, ancora e ancora. Non è difficile scrivere libri di storia innovatori facendo un così ampio ricorso a fonti qualificate che “naturalmente” vogliono restare anonime. E che, se fossero autentiche, e si lasciassero conoscere, risolverebbero “il segreto di Piazza Fontana” ben diversamente che la favola brutta del Raddoppio.»

Ora, se non fosse che quel libro figura fra le fonti del film Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana basterebbe uno sberleffo per ridimensionare il tutto, ma, come sappiamo bene, la suggestione delle immagini troppo spesso supera di slancio quella della parola scritta. E nel libro di Cucchiarelli come nel film di Giordana assistiamo alla «fantasia delle fantasie»: due attentatori, due taxi, due bombe.
Tutto tenuto insieme dal ritrovamento di un pezzo di miccia assieme a un timer. La miccia che doveva far esplodere prima anche la bomba con il timer. Ma, come ho già scritto il mese scorso su questa rivista, se la miccia non è bruciata tutta come ha fatto a far esplodere la seconda bomba e con questa anche la prima?

Luciano Lanza

Ma io il film di Giordana non lo andrò a vedere

Ci ho pensato un po’ su e credo proprio che quel film sulla strage non andrò a vederlo. Non per partito preso e senza nessun intento polemico, per carità: ritengo anch’io che la memoria di quei tragici eventi, come si dice, debba essere conservata e diffusa con tutti i mezzi possibili e non credo affatto che l’interpretazione che, a quanto ho letto e sentito, ne dà l’opera di Marco Tullio Giordana sia talmente insostenibile che sia meglio farne a meno. Certo, sul giudizio che il regista propone su uno – forse il principale – dei suoi protagonisti non sono affatto d’accordo e nulla e nessuno mi farà mai cambiare idea sulle responsabilità e le colpe di quel personaggio e poi, probabilmente, mi farebbe una certa impressione vedere agire sullo schermo, interpretate da pur bravissimi attori, persone che ho conosciuto in carne e ossa e a cui sono stato a suo tempo legato, ma il problema non è questo. Di interpretazioni se ne sono avute tante ed è giusto che regista, attori e sceneggiatori siano liberi di proporre, ciascuno mettendo a frutto le proprie competenze, la propria. Quello che proprio non riesco a credere, sinceramente, è che una ricostruzione narrativa, sia pure la migliore e la più accurata possibile, possa restituire l’effetto che i fatti di quel dicembre ebbero su noi che li vivemmo, possa riportare me e miei compagni ai nostri sentimenti e alle nostre impressioni di allora.
Perché, vedete, quando scoppiarono le bombe, prima ancora che si palesasse la montatura contro gli anarchici, in quei brutti momenti di confusione e paura, capimmo subito che la nostra storia era irrevocabilmente cambiata. Qualcuno aveva gettato sul piatto un nuovo elemento – i morti, appunto – che cambiava il senso delle nostre speranze e vanificava di colpo gli sforzi di rinnovamento in cui eravamo impegnati. Le nostre lotte, le lotte dei giovani, degli studenti, degli operai, non si sarebbero fermate lì, naturalmente, quei protagonisti avrebbero scritto ancora molte pagine importanti, il movimento, nonostante tutto, era ancora in piedi, ma la necessità di fronteggiare la ferocia che il nemico aveva messo in campo ne avrebbe inevitabilmente modificato la natura, facendone qualcosa d’altro. Gli anni ‘60, con le loro follie e le loro illusioni, erano proprio finiti e il futuro sarebbe stato ben diverso da come ce l’eravamo immaginato. Da allora in poi avremmo dovuto fare i conti con le armi, con le bombe, con la paura, con la prospettiva di altri morti e altri delitti. E di altre stragi, naturalmente, ancora più sanguinose e crudeli (piazza della Loggia, l’Italicus, la stazione di Bologna...), ma scaturite tutte dalla stessa terribile logica. Eravamo giunti a un discrimine e il mondo non era più quello di prima.
Non reagimmo male, credo. Nessuno finora ha scritto la storia di come poche migliaia di militanti, con la sola forza delle loro idee, riuscirono – nella sostanza – a far fallire il disegno eversivo che stava dietro le bombe. Perché furono loro – fummo noi, – prima ancora delle indagini dei magistrati e delle inchieste dei giornalisti, a stracciare il copione che si voleva imporre al paese, rifiutando di cedere alla violenza (non solo a quella delle bombe, ma anche a quella della repressione, a partire dalle prime manifestazioni di quegli ultimi giorni di dicembre) e affermando a gran voce la consapevolezza incrollabile che la strage era di stato. Su questa affermazione, in effetti, si fonda tutta la storia successiva, non solo la nostra, e abbiamo tutte le ragioni per esserne ancor oggi orgogliosi.
Di tutto questo non credo che parli il film di Giordana. E forse è meglio così, perché è stato un processo contraddittorio, difficile e faticoso, che personalmente (e non credo di essere il solo) non mi sento né di rivivere né di rimettere in discussione. Per questo, solo per questo, non andrò a vederlo. Ma è un problema mio personale – al massimo di generazione – e naturalmente chi la pensa diversamente ci vada pure. Non gli potrà che fare del bene.

Carlo Oliva