rivista anarchica
anno 42 n. 371
maggio 2012


ecologia

 

riflessioni


Corpi carichi di energia

L’impostazione teorica dell’attuale modello economico è basato sull’idea semplice che aumentando la produzione aumenta l’occupazione; questa condizione incrementa le disponibilità economiche della persone che così possono aumentare i propri consumi e quindi sostenere la produzione.
Questa ipotesi ha funzionato nei paesi “occidentali” nei primi 25 anni del secondo dopoguerra quando centinaia di milioni di persone acquisivano quelle merci che non avevano (lavatrice, frigorifero, auto, etc). Oggi crescite di tale entità si riscontrano in quei paesi che, garantendo i massimi profitti a fronte di forti iniquità sociali ed enormi danni ambientali, esportano tante di quelle merci da inibire le produzioni locali e quindi aumentare la povertà dei paesi occidentali. Un vero boomerang che in tanti avevano anni fa già paventato.
È comunque evidente che il modello stenta a funzionare quando la popolazione già dispone di una dotazione base di merci. L’uso delle innovazioni, la continua modificazione dei prodotti, le norme che impongono il cambio di strumenti funzionanti con altri di ultima generazione, la creazione di merci inutili che divengono indispensabili, la scadenza sui prodotti alimentari, il mono uso, la riduzione dei prezzi delle merci (anche a scapito della qualità), il martellamento della pubblicità tutto questo e molto altro non è sufficiente a reggere un modello economico che dovendo necessariamente crescere trova solo in quantità sempre più grandi ragione di esistenza.
Ciò è evidente guardando gli Stati Uniti, dove si consuma il 40% dell’energia e delle risorse mondiali, dove enormi autoveicoli bruciano litri e litri di benzina, dove tutti i prodotti hanno una vita media minima, dove la quantità di rifiuti pro capite è la più elevata del mondo, dove vi è uno tra i più alti tassi di obesità; ebbene questo paese che controlla finanza ed economia di mezzo mondo che esporta prodotti di tutti i tipi non riesce a crescere quanto auspicato dal mercato.
L’attuale modello economico non può realizzare quel benessere diffuso che teoricamente si propone di garantire.
Del resto è semplice capirne le ragioni. La prima: contemporaneamente all’iper-produzione si è proceduto ad un aumento dell’automazione dei processi produttivi e quindi alla riduzione degli addetti; così facendo all’aumento della produzione da tempo non corrisponde l’aumento significativo e stabile dell’occupazione. La seconda: vi è stata una grande concentrazione delle produzioni, della gestione dei mercati, e quindi dei profitti, in pochi operatori.
Tutto questo con uno spreco di energia e di risorse tanto spaventoso da mettere a rischio l’esistenza delle attuali condizioni del pianeta, spreco che non è un effetto collegato ma è proprio il motore del modello globale dei consumi: il non necessario, il non utile, il non consumato (non utilizzato completamente).
Per migliorare la qualità della vita per raggiungere un benessere diffuso è necessario aumentare l’efficienza nell’uso delle merci: merci di maggiore qualità, di più lunga durata, che si possano effettivamente consumare (intendendo il massimo prolungamento del tempo tra produzione e rifiuto).
Questa auspicata efficienza ridurrebbe imprescindibilmente la produzione industriale però consentirebbe la ripresa delle attività artigianali nella produzione e manutenzione di merci di uso quotidiano (dai vestiti alle finestre).
Vi è una risorsa che nel nostro pianeta è abbondante, anzi in eccesso; una risorsa in continuo esponenziale aumento mentre tutte le altre sono in esaurimento: la quantità di individui della specie umana.
Questa energia è sottoutilizzata: la sua riduzione è obiettivo di tutte le innovazioni dei processi produttivi industriali e la sua capacità è costretta in sequele di atti ripetitivi, sempre meno creativi e consapevoli (e non solo nei processi industriali).
Bisognerebbe utilizzare questa energia, utilizzare il lavoro umano, affiancando alle produzioni industriali quelle di manutenzione e riparazione, riuso, riciclo recupero tutte attività che hanno bisogno di una grande quantità di manodopera. Bisognerebbe dare maggiore valore a quelle produzioni di qualità imprescindibilmente collegate all’artigianato ed all’azione tecnica svolgibile da ciascun individuo.
Bisognerebbe in sintesi porre al centro del modello economico le attività umane, le comunità e la creatività consapevole che sono in grado di esprimere.
Esattamente il contrario della direzione in cui si opera. Oggi infatti si investe energia per evitare di utilizzare l’energia degli individui e si accumula nei corpi umani energie poi sprecate.
Così la popolazione di parte del pianeta ingerisce migliaia di proteine al giorno, superiori a quelle necessarie, crescendo in altezza e peso. Corpi carichi di energia inutilizzata che consumano enormi quantità di energia per muoversi (auto), per utilizzare la casa (elettrodomestici, automatismi, condizionatori), per “semplificare” le azioni quotidiane (ad es. cibi precotti), per svolgere qualunque funzione lavorativa e di diletto.
Gli individui possono fare molto per cambiare questo pericolante e pericoloso modello; si può partire dal cambiamento dei comportamenti predisponendoci ad una maggiore utilizzazione degli oggetti, ad una riduzione degli sprechi, ad un uso più avveduto dell’energia umana. Ed insieme si possono praticare relazioni produttive e di uso degli oggetti basate sull’energia umana ed autonome da questo mercato inumano.

testimonianze


‘aina, ovvero la capacità di resistenza

Con il termine ‘aina gli indigeni hawaiani indicano la terra. Essa per essere sacra non poteva essere posseduta dagli uomini, ma solo da essi utilizzata. Nella società hawaiana era dunque stato predisposto un sistema per distribuire le terre perché tutti potessero accedere liberamente alle risorse necessarie per il proprio sostentamento.
Questa impostazione è andata avanti (vedi Notarangelo C., Gli indigeni hawaiani, Milano, 2000) fino al 1400 quando a seguito di immigrazioni si affiancò un sistema gerarchico. La compresenza dei sistemi, comunitario e gerarchico con una prevalenza di quest’ultimo, andò avanti fino alla penetrazione del modello colonizzatore occidentale nel XIX secolo. Al contatto con questo modello il sistema gerarchico fu completamente destrutturato e sostituito dall’economia capitalistica; al contrario il sistema comunitario permanne ai margini dell’economia imposta nelle aree rurali. In esse si conserverà una modalità di esistenza che mantenne valori ed identità che divennero fondamento per i movimenti degli anni settanta dello scorso secolo.
Ciò mostra una capacità di resistenza dei modelli non autoritari alle imposizioni e la capacità di organizzazione autonoma delle comunità anche sotto pressioni culturali ed economiche forti.

Guerre

Narrava A. Rochefort nell’ “Histoire naturelle et morale des iles Antilles” del 1658 nelle guerre intertribali che “lo scopo non era divenire padroni di nuova terra o conquistare bottino; l’unico fine era la gloria della vittoria e il piacere consistente nel vendicarsi sui nemici delle offese ricevute”.
Le scorrerie erano parte del funzionamento di molti società di cacciatori-raccoglitori il mezzo principale per acquistare prestigio ed anche il sistema per controllare la crescita demografica.
Gli Yanomamo popolo della Foresta Amazzonica intraprendevano frequentemente spedizioni “belliche” così come i popoli “nativi” del Nord-america
Per i Lakota, abitanti delle grandi praterie nord americane, intraprendevano frequenti scorrerie per gloria e per vendetta individualmente o in piccoli gruppi di giovani, tant’è che Toro seduto a quaranta anni, i tempi di Little Big Horn, aveva smesso da un pezzo di praticarle.
Il tutto molto diverso da quella guerra di popoli strutturata ed organizzata da interessi economici, imposta alle persone, subite dai civili che da millenni si pratica nel mondo agricolo e industriale.
Tra i cacciatori raccoglitori il rischio connesso alle scorrerie era parte dell’esistenza, un’ebbrezza adrenalinica richiesta dal carattere degli individui, dall’aggressività giovanile, a cui le società rispondevano senza strumentalizzarla a interessi economici, senza trasporla in eventi sostenuti da ideologie e religioni, senza ammantarla di giustizia e verità, senza alcuna prosopopea di ragionevolezza.
Per orgoglio e tigna la penna indiana (indicatrice dei “colpi” portati) assomiglia molto alla piuma (al pennacchio) di Cyrano.

osservazioni sulla contemporaneità


Amare gli animali

Sembra che durante le festività di fine anno in Italia siano stati regalati 30.000 animali.
Io cerco di rispettare gli animali opero per mantenere i loro habitat, per mantenere la loro autonomia dalla specie umana che ritengo essere l’unica garanzia della loro sopravvivenza.
Cercherei di evitare di regalare animali domestici.
Spesso la specie umana ama un animale di altra specie accarezzandolo, coccolandolo, nutrendolo, passeggiandolo ed in questo lo costringe ad una intimità così forte che risulterebbe insopportabile anche per altri individui della sua stessa specie. Così gli toglie quella autonomia fondamentale per mantenere la propria identità, per non divenire “balocco” degli uomini, per non dipendere da essi in maniera inscindibile.
L’argomento è delicato perché si può voler bene profondamente ad un animale ed il rapporto con esso può essere piacevole, utile, in molti casi indispensabile. Però al di fuori di questi casi sarebbe bene che quando si parla di animali non si parlasse di animali in cattività, non si parlasse di succubi della nostra volontà, di animali capaci di adattarsi ad una modalità (il solo fatto che gli facciamo passare più tempo con noi che con i loro simili è aberrante) e a degli spazi di vita che spesso sono insostenibili anche per gli umani (si pensi alle città: inquinamento, scarsezza del verde, appartamenti senza luce, aria, paesaggio).
Il fatto che poi vengano abbandonati, che siano maltrattati è l’aberrazione che scaturisce anche da un fraintendimento: che gli animali siano a nostra disposizione, a disposizione dei nostri desideri, che essi anelino al rapporto con gli uomini. Questa è una presunzione offensiva nei confronti delle altre specie.
Ridurre gli animali alla funzione, ad essi imposta, di nostri compagni, anche quando si trattasse di animali domestici, è una fallace impostazione dei rapporti con gli altri abitanti del pianeta è una cattiva educazione per i bimbi e ragazzi che vedono negli animali comportamenti e reazioni umane (anche aiutati dai cartoni e dai documentari) e quindi esseri prossimi nei comportamenti e nelle aspirazioni.
Ma questo non è vero; delle migliaia di specie animali di cui il pianeta è pieno (e cerchiamo di mantenerlo pieno) la convivenza è basata sulla autonomia delle stesse e quindi sulla conservazione degli spazi, diritto di ciascuna specie, sulla possibilità che ciascuna di esse abbia accesso diretto alle risorse.
Se volessimo davvero bene agli animali dovremmo conservare i loro habitat, godremmo della loro autonomia e della possibilità di incontrarci ciascuno con la propria definita identità.

Nevica 2012

Incredibile.
Evento eccezionale. Tutta l’Italia centrale ferma. Bloccati.
È vero; per un modello di mobilità che regge male la pioggia la neve è effettivamente una iattura insostenibile.
Eppure…
Parliamo di eccezionalità.
A Roma vi è stata una nevicata simile per dimensione nel 1985, quindi ventisette anni nel corso dei quali però ha nevicato almeno altre tre volte in quantità minore ma con effetti simili. Si può definire eccezionale un evento che si manifesta ogni venticinque anni (più altre in maniera meno significativa) e quindi solo dal momento della presenza di una città sul Palatino molto più di duecento volte.
Se questo avviene per un territorio di bassa collina vicino al mare si può immaginare cosa possa avvenire altrove.
Del resto basta ascoltare i racconti delle persone anziane dei paesi appenninici per avere resoconti di nevicate di metri e metri di altezza e mesi e mesi di permanenza.
Quindi bisogna farsene una ragione: sono centinaia di migliaia di anni che nevica ed è possibile che nonostante i cambiamenti climatici ci toccherà ancora e comunque se non sarà la neve saranno piogge irruenti e caldo (ambedue incentivate dai nostri cattivi comportamenti).
Non sarà forse che l’aggettivo “eccezionale” lo applichiamo a tutti gli eventi che non governiamo e quindi prima di tutto agli eventi naturali?
Allora, non potendo essere la nevicata in se un problema in quanto elemento caratteristico del clima sul pianeta e di molti nostri territori, il problema è come noi ci relazioniamo all’evento.
Due considerazioni.
La prima. Vorremmo fare le stesse cose nelle medesime maniere sempre, in qualunque condizioni ed in ogni luogo e questo non solo non è possibile ma è una presunzione che non fa onore all’intelligenza del genere umano.
Parliamo con gli anziani di nuovo. Quando nevicava lavori sospesi, spostamenti sospesi, tutti in casa al caldo ad aspettare. Nulla di male. Il male è quando vogliamo muoverci velocemente. Bisognerebbe invece garantire al meglio i servizi primari (acqua, luce, accesso all’alimentazione, etc), il supporto (medici, assistenza, etc), una mobilità base e poi fermarsi e aspettare.
La seconda. Il modello di vita diffusamente praticato implica che tutto il tempo disponibile è occupato da azioni frequenti, intense, frenetiche.
Ciò vuol dire che, muovendosi ai limiti delle disponibilità spazio temporali, basta una piccola contrarietà che non si ha tempo di rimediare se non stressando ulteriormente le successive attività. Per permettere questa intensità si complica il sistema di produzione, distribuzione, consumo ed anche quello delle relazioni improduttive; il sistema più complesso è più delicato perché maggiore è il numero delle variabili che debbono funzionare contemporaneamente necessarie a garantire il funzionamento.
Basta una pioggia intensa, l’aumento di un carburante, un incidente su di una strada, per inceppare il meccanismo. Figuriamoci una nevicata.
Ma se ci ostiniamo a pretendere che tutto si adatti alle nostre immotivate pretese tra poco sarà una leggera brezza serale che ci manderà in collasso.

immagini dalla contemporaneità


Un designer ecologico

Il ragazzo che porta con la testa due taniche di plastica legate piene di acqua è un vero designer: ha composto un oggetto funzionale, leggero, economico, ergonomico (l’adattamento delle taniche alla forma del capo) e anche ambientalmente corretto (recupera un rifiuto e lo riusa in altra forma).
Siamo in presenza di una situazione di estrema povertà ma anche di un’innovazione molto evoluta che rispetta tutti i termini sociali, ambientali e produttivi che dovrebbero caratterizzare le innovazioni. I risolutori dei problemi non si trovano esclusivamente tra i produttori di merci, tra gli innovatori tecnologici, tra i ricercatori dell’industria.
Molto di quanto si opera per stare meglio è direttamente connesso alla creatività e le capacità tecniche degli individui e delle comunità. Molto di quello che possiamo fare per fare stare meglio l’intera umanità è nel sostenere l’autonomia, l’identità, la creatività tecnica degli individui e delle comunità non soffocandoli con modelli culturali e operativi prefabbricati.

Mestieri

Molti erano i mestieri: diversi per luoghi, per cultura, per modalità e strumentazioni. Gli oggetti prodotti erano parte integrante della vita di tutta la comunità: per chi li costruiva, per chi li utilizzava, per chi vedeva gli artigiani al lavoro.

Ogni mestiere aveva la propria gestualità, un vocabolario, un linguaggio, un luogo conformati sulle modalità produttive, sulle strumentazioni, sui materiali.
L’insieme di questi caratteri arricchiva la comunità con una cultura concreta specifica. Oggi la produzione è delegata a luoghi ignoti fuori della collettività (capannoni chiusi) in cui non vi è maestria, dove i processi produttivi industrializzati sono sempre uguali a se stessi, dove vi è una manualità alienata alle macchine e dove anche gli oggetti fabbricati sono sempre tanto simili a se stessi.
Ai “non luoghi” sono connessi i “non oggetti”, i “non mestieri”, le “non comunità” perché tutti sono il prodotto del medesimo modello.

Adriano Paolella