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                  Nel 1940, l’editore Giuseppe Caregaro inizia le pubblicazioni 
                  di Cucciolo, un fumetto disegnato, prima da 
                  Rino Anzi e poi da Giorgio Rebuffi. Come il titolo suggerisce 
                  Cucciolo – e il suo compagno Beppe – nascono come 
                  cani antropomorfi, ma, assumendo presto sembianze umane, cambiano 
                  natura. Il che, peraltro, non impedisce al lettore di rendersi 
                  conto di quanto personaggi e vicende loro siano ricalcati sul 
                  modello dell’ormai famoso Topolino. 
                  Cucciolo 
                  è piccolo abile e sagace, fin saccente, mentre l’amico 
                  Beppe è lungagnone e tonto; combattono a volte contro 
                  il cattivo Bombarda che ricorda Pietro Gambadilegno e sono zii 
                  di tre nipotini dal nome di Tip, Top e Tap. Direi che ce ne 
                  sarebbe stato abbastanza per sfiorare il plagio, ma, dovrei 
                  anche ammettere che, in definitiva, non deragliava dalla logica 
                  del sottoprodotto.  Nel 1952, tuttavia, grazie all’inventiva 
                  di Roberto Renzi, nel fumetto si intrufolò un nuovo personaggio 
                  – un personaggio che oltrepassava il filo dell’assurdo 
                  come Eta Beta nel fumetto disneyano. “Figlio del caucciù 
                  e della colla”, poteva allungarsi a dismisura e da linea 
                  trasformarsi in punto a seconda delle necessità riparatorie 
                  che la morale della narrazione gli imponeva. Ebbe un successo 
                  che travalicò lo stesso Cucciolo, guadagnandosi, 
                  anni dopo, una propria autonomia. Si chiamava Tiramolla. 
                 
                  2. Nei dolorosi episodi della vita 
                  quotidiana del protagonista della Dolce vita 
                  – nel frenetico ed eccitante nulla che avvolge il bel 
                  Marcello in cerca di non si sa bene cosa –, Federico Fellini 
                  inserisce una festa notturna in cui, nelle modeste forme in 
                  cui le si poteva rappresentare alla fine degli anni Cinquanta, 
                  sesso alcol-droga e rock and roll, i tre mercati dell’ormai 
                  prossimo futuro – i tre miti del consumismo capitalistico 
                  – fanno la loro comparsa con particolare virulenza. 
                  A distanza di molti anni, commisurare le cose al contesto in 
                  cui sono espresse non è facile, ma, se ce n’è 
                  una di cui si può essere sicuri questa è l’intenzione 
                  fortemente critica di Fellini: il suo protagonista è 
                  il giornalistucolo che si adatta a vivacchiare delle briciole 
                  del “bel mondo” nell’ambizione di diventare 
                  prima o poi un grande scrittore; le relazioni che gli capitano 
                  sono di quelle in cui non ci si sa dir nulla e in cui dall’amore 
                  si rifugge come da un impiccio letale; la società in 
                  cui si impantana è quella di chi può permettersi 
                  di non lavorare, di passare la notte in bianco e di essere sorpresi 
                  sgomenti con la bocca impastata da un’alba che fa paura. 
                  La dolce vita, dunque, è un miraggio 
                  per allocchi e bugiardi – innanzitutto, bugiardi con se 
                  stessi –, sembrerebbe dirci Fellini: quella vita non è 
                  affatto “dolce”, ma è di una dolcezza nauseante, 
                  eccessiva, tanto da renderla amara. Nonostante quella vita fosse 
                  in parte anche la sua – nonostante se avesse una dimestichezza 
                  esperta, per così dire –, il suo, indubbiamente, 
                  è un monito: da questo supermercato di sesso, alcol-droga 
                  e rock and roll alla nostra socialità non ne sarebbe 
                  derivato nulla di buono. Gioverà a questo punto ricordarci 
                  che, nel film, interpretando se stesso, la rappresentazione 
                  del capo d’accusa al rock and roll è toccata ad 
                  Adriano Celentano. 
                  
                  3. In Signore e signori, 
                  un libro del 1969, la scrittrice e giornalista Camilla Cederna 
                  racconta della circostanza in cui fece un’intervista ad 
                  Adriano Celentano. Era il 29 settembre del 1963 e quello che 
                  all’epoca meritava l’appellativo di “re del 
                  tangaccio” la ricevette a Milano, a casa della mamma. 
                  Fu l’occasione, per la Cederna di correggere un dato storico. 
                  Celentano non cominciò la propria carriera all’Aretusa, 
                  come credeva lei, ma alla sala da ballo Filocantanti di viale 
                  Zara, cantando L’orologio matto (Rock 
                  round a clock) il che, per uno che faceva l’operaio 
                  specializzato presso un orologiaio di viale Campania, poteva 
                  anche essere interpretato come un segno di straordinaria coerenza. 
                  Fu anche l’occasione, l’intervista, per ascoltare 
                  in anteprima Sabato triste, una canzone rigorosamente 
                  maschilista in cui si parla di un lui che torna a casa, lei 
                  non c’è e non c’è nemmeno il pranzo 
                  pronto e lui s’imbestia perché ha fame. 
                  E fu anche l’occasione, questa intervista per dare un’occhiata 
                  in giro e farsi un’idea della persona. La Cederna nota, 
                  allora, che, vicino al caminetto, era stata posta una piastrella 
                  propiziatoria su cui stava scritto “Santa Maria Goretti 
                  proteggi questa famiglia” e registra un paio di osservazioni 
                  che riguardano la fidanzata di Celentano, Milena Cantù 
                  – lì presente – che, anni dopo, a dire il 
                  vero – contraddicendo la logica hegeliana della loro relazione 
                  –, di cantante ne sposerà un altro – Fausto 
                  Leali. Milena, dunque, come Adriano, porta al collo una mezza 
                  medaglia che è quasi un manifesto teorico: “Divisi 
                  ma – sempre uniti”, c’era scritto. 
                  La seconda osservazione della Cederna concerne il fatto che, 
                  durante l’intervista, la Milena, interpretando alla perfezione 
                  lo stereotipo di femmina che il suo maschio esigeva, si è 
                  ben guardata dall’intervenire ed ha preferito sprofondarsi 
                  nella lettura.  
                  Cosa leggeva, alla Cederna, ovviamente, non è sfuggito: 
                  leggeva Cucciolo, un’antologia di Cucciolo, 
                  per l’esattezza. 
                 
                  14. Il tempo passa e i cocci sono 
                  nostri. Dell’aria che tirava in casa Celentano, pur lastricati 
                  delle migliori intenzioni, sono fatti i criteri con cui giudica 
                  la società e i meccanismi del potere che la governa. 
                  Delle relazioni fra capitale e lavoro, fra lotta sociale e religione 
                  – della stessa relazione fra Chiesa e Paradiso –, 
                  fra maschile e femminile, lui vede quel che può e quel 
                  che gli conviene – soprattutto non vede né se stesso 
                  né quanto della sua propria storia è bersaglio 
                  attuale dei suoi strali. Nell’enciclopedia mentale del 
                  molleggiato – si noti la radice dell’aggettivo –, 
                  nei sottoprodotti che costituiscono la sua cultura, qualcosa 
                  – parecchio – di Tiramolla e della tecnica immaginaria 
                  con cui riparava i torti è rimasto. Come di Cucciolo, 
                  diviso e unito per sempre – alla faccia di ogni contraddizione 
                  – a quel Beppe che, peraltro – anche e non solo 
                  per l’aspetto fisico –, a Celentano sarebbe stato 
                  più congeniale. 
                  
                  Felice Accame 
                Nota: Signore e signori 
                  di Camilla Cederna è pubblicato da Longanesi, Milano 
                  1969. Della visita a casa Celentano si parla da pag. 153 a pag. 
                  158. 
                                 
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