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                  Omaggio 
                  a Lucio Dalla 
                La morte di Lucio Dalla ha folgorato quanti erano come abituati 
                  alla sua permanenza sui media italiani: era uno di quei personaggi 
                  che ti paiono immortali, perché te li ricordi, si può 
                  dire, da sempre. Non pareva potesse finire. 
                  Dalla non si è risparmiato, si è impegnato a fondo 
                  nel suo mestiere e in un mucchio di altre cose a volte contraddittorie 
                  fra loro. Certamente è stato un grande operatore musicale. 
                  La morte se lo è pigliato in corsa, fra un concerto dato 
                  la sera prima e un altro a venire, con moltissime cose fatte, 
                  ma con dei progetti ancora da realizzare. Magari un po’ 
                  troppo presto, ma quanto al modo… ci metterei la firma! 
                  Lucio Dalla è stato un genio della canzone italiana, 
                  però – lo dico subito sperando di non offendere 
                  nessuno – è stato anche un cialtrone. Le sue prime 
                  canzoni erano interessanti, fra quelle ogni tanto delle perle 
                  di gusto popolare: le notissime “4 marzo ’43” 
                  e “Piazza grande”, presentate al festival di Sanremo. 
                  A partire da lì Dalla si costruisce una vocalità 
                  ispirata al canto Soul applicato alla nostra lingua, 
                  uno stile inimitabile che riesce ad appaiare la colloquialità 
                  all’epica, l’ironia allo strazio. Attentissimo agli 
                  arrangiamenti, nel suo primo periodo non produce i testi delle 
                  sue canzoni. Il personaggio bizzarro, multiforme, clownesco, 
                  comincia da subito a sfondare lo schermo in TV. 
                  È all’inizio degli anni ’70 però che 
                  Dalla – forte dei due successi Sanremesi – convince 
                  i discografici a un’impresa suicida dal punto di vista 
                  commerciale, la collaborazione per tre dischi col poeta Roberto 
                  Roversi. Ne parliamo più avanti. 
                  Finita la collaborazione con Roversi, Dalla pare uscito da un 
                  lungo apprendistato e inizia a scrivere da sé i propri 
                  testi e pubblica, uno di seguito all’altro, 5 lp e un 
                  EP che sono dei capolavori. 1977 “Com’è profondo 
                  il mare”. 1979 “Lucio Dalla”. 1980 “Dalla”. 
                  1981 l’EP “Lucio Dalla”. 1983 “1983”. 
                  1984 “Viaggi organizzati”. 
                  Sono dischi ai vertici della produzione mondiale, dischi di 
                  indiscutibile bellezza, sperimentali e popolari, cantati con 
                  una musicalissima rabbia, con dolcezza abbacinante, arrangiati 
                  e suonati stupendamente. 
                  
                Parabola ineguale 
                Dopo di ché il diluvio – tranne qualche 
                  rara singola canzone passabile – Dalla decade d’improvviso: 
                  i testi si banalizzano, le musiche si dissanguano, si fanno 
                  aperte, incerte. Persino il gusto squisito per i suoni e la 
                  voce paiono appannati. 
                  Il personaggio è solidissimo, quasi tutte le sue operazioni 
                  dal punto di vista commerciale e mediatico sono successi enormi. 
                  Ma cos’è successo alla sua creatività? Chi 
                  lo sa?… invano aspetteremo, per oltre vent’anni, 
                  un Dalla ai livelli del suo periodo migliore. Ora, dopo la conclusione 
                  del percorso, possiamo comunque testimoniare che la parabola 
                  ineguale di Dalla resta una delle esperienze più profonde 
                  e consistenti della musica di questo paese. 
                  Voglio qui riproporre un frammento del mio saggio “La 
                  canzone che fa la storia” compreso nel volume a cura di 
                  Isabella Zoppi “Dalla città, le montagne” 
                  edizioni Nota, 2009. Il saggio indaga in tre momenti distinti 
                  la storia della città di Torino attraverso la canzone 
                  d’autore impegnata. Il secondo momento è appunto 
                  la trilogia Dalla-Roversi. 
                  «Il ciclo dei tre dischi che si esaminano in questo capitolo 
                  è quanto di più ardito e maturo la discografia 
                  leggera italiana abbia prodotto, di certo fino a quel momento, 
                  probabilmente fino a oggi. (…) 
                  All’inizio degli anni ’70 cresce anche in Italia 
                  un movimento musicale che si ispira alle forme più complesse 
                  del Rock alternativo, del Progressive e della Psichedelia; nell’insulso 
                  beat italiano si fa strada l’esigenza di testi di ricerca, 
                  di moduli compositivi molto elaborati, di prese di posizione 
                  nette. All’avanguardia di tale percorso troviamo i gruppi 
                  AREA e Stormy Six. Intanto da Roma e dalla fucina creativa del 
                  Folkstudio – un piccolo live club – la canzone d’autore 
                  si sta forgiando la rivincita con un nuovo linguaggio, meno 
                  francese e più americano, che presto esploderà 
                  anche commercialmente: hanno appena iniziato le loro carriere 
                  Francesco De Gregori e Antonello Venditti, cui danno man forte 
                  da Bologna Francesco Guccini e Claudio Lolli. 
                  Dunque c’è un incredibile affastellarsi di proposte 
                  in poco più di una diecina d’anni. In questa situazione 
                  magmatica e ricca di stimoli ci si trova spesso di fronte ad 
                  artisti che cambiano bruscamente il corso della loro vita pubblica, 
                  emblematico il caso di Giorgio Gaber, che da gradevole fantasista 
                  televisivo si trasforma nel più intelligente e feroce 
                  fustigatore delle idee comuni. 
                  Fra tutti questi artisti ce n’è uno che non è 
                  più un bambino, compie in quel 1973 trent’anni; 
                  da sempre sulla scena, sente comunque di non aver ancora composto 
                  un’opera all’altezza delle sue potenzialità. 
                  Ha una solida formazione jazzistica, una perizia musicale non 
                  comune, suona pianoforte e clarinetto. 
                  A un angolo della vita incrocia un bolognese come lui, di una 
                  ventina d’anni più vecchio, Roberto Roversi, un 
                  poeta con gli allori, animatore della rivista “Officina” 
                  con Pasolini, uno sperimentatore linguistico con una cultura 
                  politica e filosofica solida, un uomo di principi tanto fermi 
                  da rifiutare il mondo accademico e quello della grande editoria. 
                  I due, dapprima con qualche perplessità e fatica, poi 
                  con entusiasmo, cominciano a scrivere canzoni, ovviamente Roversi 
                  il testo e Dalla la musica. I primi due dischi che escono dal 
                  loro sodalizio suonano sperimentali oggi, all’epoca saranno 
                  apparsi marziani, infatti non vendono bene. I produttori della 
                  RCA, che si aspettavano l’eterna ripetizione di “Gesù 
                  bambino” e “Piazza grande”, corrono ai ripari, 
                  violentano il terzo disco estromettendone dei brani e cambiando 
                  l’ordine della scaletta. Dalla con qualche mugugno finisce 
                  per acconsentire, Roversi si indigna e rompe il sodalizio, rifiutandosi 
                  persino di firmare l’album col proprio nome (uscirà 
                  con lo pseudonimo Norisso). 
                L’automobile, simbolo della modernità 
                La collaborazione con Roversi pone Lucio Dalla all’avanguardia 
                  della canzone politicizzata, con un’opera che si può 
                  ritenere il più grande saggio musicale sulla storia d’Italia 
                  intorno al boom economico e alla sua crisi. Alcune canzoni sono 
                  visionarie, altre narrative, altre ancora in forma di scrittura 
                  automatica, con elementi di pura onomatopea corroborata da una 
                  personalissima interpretazione della tecnica dello scat 
                  (una specialità dalliana). 
                  “Un auto taRgata TO”, il brano che dà inizio 
                  a quest’epopea, racchiude in pochi versi un mondo presente 
                  in tanti film (“Rocco e i suoi fratelli” di Visconti), 
                  in tante canzoni, in tanti romanzi, ma che qui trova un linguaggio 
                  che si fonde con le forme e le distorsioni che vuole rappresentare, 
                  anche per virtù delle distorsioni e delle citazioni del 
                  testo musicale. Un linguaggio che è narrazione e commento, 
                  epica e critica, analisi, ironia e compassione. Al centro del 
                  discorso c’è l’automobile: il simbolo della 
                  modernità, di una modernità già condannata 
                  dalla sua stessa simbologia – la velocità – 
                  ad essere superata. 
                  Un’auto vecchia torna/da Scilla a Torino,/dentro ci sono 
                  dieci occhi/ed uno stesso destino./Il bambino ha una palla/ed 
                  aspetta in cortile/con in mezzo poco sole,/poco sole di aprile./Il 
                  ragazzo, inferriate e catene,/ha vent’anni:/son vent’anni 
                  di pene!/La ragazza, venduta per ore,/nella campagna butta sangue 
                  e sudore./La madre è una forma disfatta,/sopra gli occhi 
                  ha i capelli di latta./Il padre è uno schedato, spiato,/se 
                  si avventa sull’asfalto è inchiodato./Il paesaggio 
                  è un’Italia sventrata/dalle ruspe che l’hanno 
                  divorata./Arrivano nel ghetto, ammuffito, spaccato,/contano 
                  i sassi dentro il filo spinato./Questo luogo del cielo è 
                  chiamato Torino,/lunghi e grandi viali, splendidi monti di neve/sul 
                  cristallo verde del Valentino,/illuminate tutte le sponde del 
                  Po./Mattoni su mattoni,/sono condannati i terroni/ a costruire 
                  per gli altri/appartamenti da cinquanta milioni. 
                  Sull’automobile si apre il dramma. All’auto si contrappone 
                  immediatamente il topos della mitologia classica di Scilla e 
                  Cariddi; qui l’ironia compassionevole di Roversi la paròdia 
                  in Scilla e Torino: come dire che i due mostri che 
                  rendevano arduo il passaggio dello stretto di Messina per le 
                  navi dell’antichità, sono, nella società 
                  descritta da Dalla e Roversi, sia il Sud originario sia la meta 
                  torinese, l’industrializzazione, la FIAT. Dentro la vettura 
                  c’è una famiglia che torna a Torino; un mondo ben 
                  conosciuto da una buona metà degli italiani: l’emigrante 
                  che in occasione di una vacanza, di un matrimonio, di un battesimo, 
                  di un funerale va a passare qualche giorno al paese d’origine 
                  e ritorna. Stracariche di masserizie, le utilitarie affrontano 
                  i mille e più chilometri della lunghissima Italia, che 
                  le genti del nord pensano schiacciata e più corta di 
                  quella che è, di modo che non si ha precisamente la cognizione 
                  di quanto sia infinito il tempo e lo spazio che serve per percorrere 
                  l’intera Calabria o le Puglie, dopo aver già disceso 
                  tutta la penisola, di quante ore si passi chiusi nell’abitacolo 
                  sempre più saturo. Le stimmate della miseria si misurano 
                  anche da questa fatica del vivere miserabile. 
                  I cinque personaggi stanno, isolati nel disastro collettivo, 
                  la cui percezione individuale li appiattisce su un futuro già 
                  scritto. Rotelle di un ingranaggio che li potrà far girare 
                  o triturerà i più sfortunati, ma in cui è 
                  difficilissimo percepire lo spiraglio di un riscatto, di una 
                  vita da prendere in mano secondo i propri piani. Perché 
                  la società industrializzata che queste canzoni vogliono 
                  descrivere è un luogo che tende a trasformare tutto in 
                  un prodotto, la fabbrica non fabbrica solo le automobili italiane, 
                  ma fabbrica gli italiani per le sue automobili, è un 
                  mostruoso incubo orwelliano, un’industria che forgia una 
                  classe e un pensiero, l’industria che ha capito e che 
                  si adopera a determinare la sua più grande risorsa che 
                  non è il prodotto che fabbrica, ma i suoi stessi operai/clienti. 
                
                   
                      | 
                   
                   
                    Roberto 
                        Roversi  | 
                   
                 
                “È il potere che offende” 
                In questa alienazione in cui l’uomo non fa più 
                  parte della natura, in cui l’uomo è un nuovo agglomerato 
                  di vita e tecnologia, lo spettatore inconsapevole della propria 
                  vita, non si percepisce più il senso del sacrificio, 
                  della fine, del passaggio. “L’operaio Gerolamo” 
                  è una boccia sradicata che carambola per le capitali 
                  dell’emigrazione (Torino, Germania, “Melano”, 
                  Nanterre, periferia di Parigi), inseguendo la vita, puntualmente 
                  raggiunto dalla morte, vede regolarmente alzarsi e calare il 
                  sole, unico contatto con una realtà i cui confini sembrano 
                  del tutto perduti. Tutti sognano continuamente di spostarsi, 
                  andarsene, i morti abbandonati sul ciglio dell’autostrada 
                  come i vivi in fuga dalla città per un fine settimana, 
                  come i coatti del riformatorio Ferrante Aporti, come 
                  l’operaio Gerolamo travolto da ogni successiva ondata 
                  migratoria verso un chimerico paese ideale. “Non era più 
                  lui” è la canzone che narra di un uomo completamente 
                  distrutto dall’esperienza dell’emigrazione forzata, 
                  che non ritrova più i suoi sentimenti positivi, non riesce 
                  a stabilire più rapporti coi suoi simili e finisce per 
                  sfogare la propria alienazione in stazione a guardare i treni 
                  senza più nemmeno l’idea del ritorno. A quest’alienazione 
                  fa contrappeso quella di Emilia Villesi, donna qualunque 
                  (forse incinta) che per stanchezza di vivere, si suicida gettandosi 
                  nel Po: non è il suicidio romantico di un poeta che corre 
                  contro la sua tempesta, piuttosto una resa all’orrore 
                  del vivere magro e inutile del quotidiano, sapendo che i propri 
                  giorni non possono cambiare, è l’eutanasia della 
                  vita intesa come un male inguaribile. 
                Apoteosi geniale di questa trilogia, tutta inarcata sulla corsa 
                  del presente e dei suoi miti fondativi, la canzone “Le 
                  parole incrociate”, dove usando lo schema dell’enigmismo, 
                  si apre lo spaccato della storia dell’Italia dalla sua 
                  unità, a partire proprio da quel generale Bava Beccaris 
                  che fece aprire il fuoco sulla folla disarmata a Milano nel 
                  1898. 
                  Chi era Bava il beccaio? Bombardava Milano/correva il novantotto, 
                  oggi è un giorno lontano./I cavalli alla Scala, gli alpini 
                  in piazza Dom./Attenzione: cavalleria piemontese, gli alpini 
                  di Val di Non. 
                  E di seguito, parafrasate in giochi di parole, le vicende legate 
                  alla repressione del brigantaggio, dei primi scioperi, alle 
                  sommosse in seguito all’istituzione della tassa sul macinato, 
                  ecc… 
                  Sei le colonne in fila, il gioco è terminato/Nel bel 
                  prato d’Italia c’è odore di bruciato./Un 
                  filo rosso lega tutte queste vicende/Attenzione: dentro ci siamo 
                  tutti, è il potere che offende.» 
                  
                  Alessio Lega 
                  alessio.lega@fastwebnet.it 
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