rivista anarchica
anno 42 n. 371
maggio 2012


canzone d’autore

a cura di Alessio Lega

 

Omaggio a Lucio Dalla

La morte di Lucio Dalla ha folgorato quanti erano come abituati alla sua permanenza sui media italiani: era uno di quei personaggi che ti paiono immortali, perché te li ricordi, si può dire, da sempre. Non pareva potesse finire.
Dalla non si è risparmiato, si è impegnato a fondo nel suo mestiere e in un mucchio di altre cose a volte contraddittorie fra loro. Certamente è stato un grande operatore musicale. La morte se lo è pigliato in corsa, fra un concerto dato la sera prima e un altro a venire, con moltissime cose fatte, ma con dei progetti ancora da realizzare. Magari un po’ troppo presto, ma quanto al modo… ci metterei la firma!
Lucio Dalla è stato un genio della canzone italiana, però – lo dico subito sperando di non offendere nessuno – è stato anche un cialtrone. Le sue prime canzoni erano interessanti, fra quelle ogni tanto delle perle di gusto popolare: le notissime “4 marzo ’43” e “Piazza grande”, presentate al festival di Sanremo. A partire da lì Dalla si costruisce una vocalità ispirata al canto Soul applicato alla nostra lingua, uno stile inimitabile che riesce ad appaiare la colloquialità all’epica, l’ironia allo strazio. Attentissimo agli arrangiamenti, nel suo primo periodo non produce i testi delle sue canzoni. Il personaggio bizzarro, multiforme, clownesco, comincia da subito a sfondare lo schermo in TV.
È all’inizio degli anni ’70 però che Dalla – forte dei due successi Sanremesi – convince i discografici a un’impresa suicida dal punto di vista commerciale, la collaborazione per tre dischi col poeta Roberto Roversi. Ne parliamo più avanti.
Finita la collaborazione con Roversi, Dalla pare uscito da un lungo apprendistato e inizia a scrivere da sé i propri testi e pubblica, uno di seguito all’altro, 5 lp e un EP che sono dei capolavori. 1977 “Com’è profondo il mare”. 1979 “Lucio Dalla”. 1980 “Dalla”. 1981 l’EP “Lucio Dalla”. 1983 “1983”. 1984 “Viaggi organizzati”.
Sono dischi ai vertici della produzione mondiale, dischi di indiscutibile bellezza, sperimentali e popolari, cantati con una musicalissima rabbia, con dolcezza abbacinante, arrangiati e suonati stupendamente.

Parabola ineguale

Dopo di ché il diluvio – tranne qualche rara singola canzone passabile – Dalla decade d’improvviso: i testi si banalizzano, le musiche si dissanguano, si fanno aperte, incerte. Persino il gusto squisito per i suoni e la voce paiono appannati.
Il personaggio è solidissimo, quasi tutte le sue operazioni dal punto di vista commerciale e mediatico sono successi enormi. Ma cos’è successo alla sua creatività? Chi lo sa?… invano aspetteremo, per oltre vent’anni, un Dalla ai livelli del suo periodo migliore. Ora, dopo la conclusione del percorso, possiamo comunque testimoniare che la parabola ineguale di Dalla resta una delle esperienze più profonde e consistenti della musica di questo paese.
Voglio qui riproporre un frammento del mio saggio “La canzone che fa la storia” compreso nel volume a cura di Isabella Zoppi “Dalla città, le montagne” edizioni Nota, 2009. Il saggio indaga in tre momenti distinti la storia della città di Torino attraverso la canzone d’autore impegnata. Il secondo momento è appunto la trilogia Dalla-Roversi.
«Il ciclo dei tre dischi che si esaminano in questo capitolo è quanto di più ardito e maturo la discografia leggera italiana abbia prodotto, di certo fino a quel momento, probabilmente fino a oggi. (…)
All’inizio degli anni ’70 cresce anche in Italia un movimento musicale che si ispira alle forme più complesse del Rock alternativo, del Progressive e della Psichedelia; nell’insulso beat italiano si fa strada l’esigenza di testi di ricerca, di moduli compositivi molto elaborati, di prese di posizione nette. All’avanguardia di tale percorso troviamo i gruppi AREA e Stormy Six. Intanto da Roma e dalla fucina creativa del Folkstudio – un piccolo live club – la canzone d’autore si sta forgiando la rivincita con un nuovo linguaggio, meno francese e più americano, che presto esploderà anche commercialmente: hanno appena iniziato le loro carriere Francesco De Gregori e Antonello Venditti, cui danno man forte da Bologna Francesco Guccini e Claudio Lolli.
Dunque c’è un incredibile affastellarsi di proposte in poco più di una diecina d’anni. In questa situazione magmatica e ricca di stimoli ci si trova spesso di fronte ad artisti che cambiano bruscamente il corso della loro vita pubblica, emblematico il caso di Giorgio Gaber, che da gradevole fantasista televisivo si trasforma nel più intelligente e feroce fustigatore delle idee comuni.
Fra tutti questi artisti ce n’è uno che non è più un bambino, compie in quel 1973 trent’anni; da sempre sulla scena, sente comunque di non aver ancora composto un’opera all’altezza delle sue potenzialità. Ha una solida formazione jazzistica, una perizia musicale non comune, suona pianoforte e clarinetto.
A un angolo della vita incrocia un bolognese come lui, di una ventina d’anni più vecchio, Roberto Roversi, un poeta con gli allori, animatore della rivista “Officina” con Pasolini, uno sperimentatore linguistico con una cultura politica e filosofica solida, un uomo di principi tanto fermi da rifiutare il mondo accademico e quello della grande editoria.
I due, dapprima con qualche perplessità e fatica, poi con entusiasmo, cominciano a scrivere canzoni, ovviamente Roversi il testo e Dalla la musica. I primi due dischi che escono dal loro sodalizio suonano sperimentali oggi, all’epoca saranno apparsi marziani, infatti non vendono bene. I produttori della RCA, che si aspettavano l’eterna ripetizione di “Gesù bambino” e “Piazza grande”, corrono ai ripari, violentano il terzo disco estromettendone dei brani e cambiando l’ordine della scaletta. Dalla con qualche mugugno finisce per acconsentire, Roversi si indigna e rompe il sodalizio, rifiutandosi persino di firmare l’album col proprio nome (uscirà con lo pseudonimo Norisso).

L’automobile, simbolo della modernità

La collaborazione con Roversi pone Lucio Dalla all’avanguardia della canzone politicizzata, con un’opera che si può ritenere il più grande saggio musicale sulla storia d’Italia intorno al boom economico e alla sua crisi. Alcune canzoni sono visionarie, altre narrative, altre ancora in forma di scrittura automatica, con elementi di pura onomatopea corroborata da una personalissima interpretazione della tecnica dello scat (una specialità dalliana).
“Un auto taRgata TO”, il brano che dà inizio a quest’epopea, racchiude in pochi versi un mondo presente in tanti film (“Rocco e i suoi fratelli” di Visconti), in tante canzoni, in tanti romanzi, ma che qui trova un linguaggio che si fonde con le forme e le distorsioni che vuole rappresentare, anche per virtù delle distorsioni e delle citazioni del testo musicale. Un linguaggio che è narrazione e commento, epica e critica, analisi, ironia e compassione. Al centro del discorso c’è l’automobile: il simbolo della modernità, di una modernità già condannata dalla sua stessa simbologia – la velocità – ad essere superata.
Un’auto vecchia torna/da Scilla a Torino,/dentro ci sono dieci occhi/ed uno stesso destino./Il bambino ha una palla/ed aspetta in cortile/con in mezzo poco sole,/poco sole di aprile./Il ragazzo, inferriate e catene,/ha vent’anni:/son vent’anni di pene!/La ragazza, venduta per ore,/nella campagna butta sangue e sudore./La madre è una forma disfatta,/sopra gli occhi ha i capelli di latta./Il padre è uno schedato, spiato,/se si avventa sull’asfalto è inchiodato./Il paesaggio è un’Italia sventrata/dalle ruspe che l’hanno divorata./Arrivano nel ghetto, ammuffito, spaccato,/contano i sassi dentro il filo spinato./Questo luogo del cielo è chiamato Torino,/lunghi e grandi viali, splendidi monti di neve/sul cristallo verde del Valentino,/illuminate tutte le sponde del Po./Mattoni su mattoni,/sono condannati i terroni/ a costruire per gli altri/appartamenti da cinquanta milioni.
Sull’automobile si apre il dramma. All’auto si contrappone immediatamente il topos della mitologia classica di Scilla e Cariddi; qui l’ironia compassionevole di Roversi la paròdia in Scilla e Torino: come dire che i due mostri che rendevano arduo il passaggio dello stretto di Messina per le navi dell’antichità, sono, nella società descritta da Dalla e Roversi, sia il Sud originario sia la meta torinese, l’industrializzazione, la FIAT. Dentro la vettura c’è una famiglia che torna a Torino; un mondo ben conosciuto da una buona metà degli italiani: l’emigrante che in occasione di una vacanza, di un matrimonio, di un battesimo, di un funerale va a passare qualche giorno al paese d’origine e ritorna. Stracariche di masserizie, le utilitarie affrontano i mille e più chilometri della lunghissima Italia, che le genti del nord pensano schiacciata e più corta di quella che è, di modo che non si ha precisamente la cognizione di quanto sia infinito il tempo e lo spazio che serve per percorrere l’intera Calabria o le Puglie, dopo aver già disceso tutta la penisola, di quante ore si passi chiusi nell’abitacolo sempre più saturo. Le stimmate della miseria si misurano anche da questa fatica del vivere miserabile.
I cinque personaggi stanno, isolati nel disastro collettivo, la cui percezione individuale li appiattisce su un futuro già scritto. Rotelle di un ingranaggio che li potrà far girare o triturerà i più sfortunati, ma in cui è difficilissimo percepire lo spiraglio di un riscatto, di una vita da prendere in mano secondo i propri piani. Perché la società industrializzata che queste canzoni vogliono descrivere è un luogo che tende a trasformare tutto in un prodotto, la fabbrica non fabbrica solo le automobili italiane, ma fabbrica gli italiani per le sue automobili, è un mostruoso incubo orwelliano, un’industria che forgia una classe e un pensiero, l’industria che ha capito e che si adopera a determinare la sua più grande risorsa che non è il prodotto che fabbrica, ma i suoi stessi operai/clienti.

Roberto Roversi

“È il potere che offende”

In questa alienazione in cui l’uomo non fa più parte della natura, in cui l’uomo è un nuovo agglomerato di vita e tecnologia, lo spettatore inconsapevole della propria vita, non si percepisce più il senso del sacrificio, della fine, del passaggio. “L’operaio Gerolamo” è una boccia sradicata che carambola per le capitali dell’emigrazione (Torino, Germania, “Melano”, Nanterre, periferia di Parigi), inseguendo la vita, puntualmente raggiunto dalla morte, vede regolarmente alzarsi e calare il sole, unico contatto con una realtà i cui confini sembrano del tutto perduti. Tutti sognano continuamente di spostarsi, andarsene, i morti abbandonati sul ciglio dell’autostrada come i vivi in fuga dalla città per un fine settimana, come i coatti del riformatorio Ferrante Aporti, come l’operaio Gerolamo travolto da ogni successiva ondata migratoria verso un chimerico paese ideale. “Non era più lui” è la canzone che narra di un uomo completamente distrutto dall’esperienza dell’emigrazione forzata, che non ritrova più i suoi sentimenti positivi, non riesce a stabilire più rapporti coi suoi simili e finisce per sfogare la propria alienazione in stazione a guardare i treni senza più nemmeno l’idea del ritorno. A quest’alienazione fa contrappeso quella di Emilia Villesi, donna qualunque (forse incinta) che per stanchezza di vivere, si suicida gettandosi nel Po: non è il suicidio romantico di un poeta che corre contro la sua tempesta, piuttosto una resa all’orrore del vivere magro e inutile del quotidiano, sapendo che i propri giorni non possono cambiare, è l’eutanasia della vita intesa come un male inguaribile.

Apoteosi geniale di questa trilogia, tutta inarcata sulla corsa del presente e dei suoi miti fondativi, la canzone “Le parole incrociate”, dove usando lo schema dell’enigmismo, si apre lo spaccato della storia dell’Italia dalla sua unità, a partire proprio da quel generale Bava Beccaris che fece aprire il fuoco sulla folla disarmata a Milano nel 1898.
Chi era Bava il beccaio? Bombardava Milano/correva il novantotto, oggi è un giorno lontano./I cavalli alla Scala, gli alpini in piazza Dom./Attenzione: cavalleria piemontese, gli alpini di Val di Non.
E di seguito, parafrasate in giochi di parole, le vicende legate alla repressione del brigantaggio, dei primi scioperi, alle sommosse in seguito all’istituzione della tassa sul macinato, ecc…
Sei le colonne in fila, il gioco è terminato/Nel bel prato d’Italia c’è odore di bruciato./Un filo rosso lega tutte queste vicende/Attenzione: dentro ci siamo tutti, è il potere che offende.»

Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it