rivista anarchica
anno 42 n. 370
aprile 2012


scuola

 

Ottuso è il mondo

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C’è un problema fattuale che di recente mi si è posto con sempre maggiore urgenza. Il problema fattuale è il seguente: com’è possibile, in un contesto di insegnamento/apprendimento, impartire delle cognizioni che non si hanno? È una richiesta quasi contro natura, come pretendere che Caino insegni l’amore fraterno.

Esempio N° 1:
non molti anni fa, quando ai maestri elementari è stato imposto di insegnare inglese, molti di questi maestri con la lingua angla non avevano mai avuto nulla a che fare, se non nelle interpretazioni apocrife di Totò, Alberto Sordi e Bob Dylan o i Jefferson Airplane. I più avanzati conoscevano anche alcune canzoni di Janis Joplin, chiaramente non riciclabili come filastrocche per bambini. Siccome è noto che l’inglese è una lingua facilissima e chiunque può impararla (e laurearsi in lingue, come ho fatto io), ai maestri in questione sono state impartite le ore di addestramento linguistico che si ritenevano necessarie: dalle 6 alle 8, con punte addirittura di 10, per i soggetti particolarmente volenterosi. Dopo di che, via in classe, a insegnare le gioie della Britannia!
Esempio N° 2:
mi sono laureata a 21 anni col massimo dei voti e quasi senza sapere cosa fosse il mondo. O meglio: il mondo l’avevo girato abbastanza, ma non avevo idea di come si pagasse una bolletta e di che ingredienti ci volessero per cucinare una torta. Quando feci domanda di supplenza – ed erano tempi molto diversi – mi convocarono all’istante, dalle Marche all’operosa Padania, per affidarmi – tra le altre – una classe quinta di un istituto per periti aziendali, dove le studentesse avevano appena un paio d’anni meno di me. Parlavo un inglese oxfordiano, conoscevo la letteratura britannica e americana, e avrei potuto fare una sfavillante figura in un liceo scientifico discretamente quotato. Invece lì dovevo insegnare come gestire, in inglese, una transazione commerciale, documenti amministrativi, lettere contrattuali e quant’altro. Insegnavo cioè a fare in una lingua straniera alcune operazioni che non avevo idea di cosa fossero in italiano. Ricordo di aver camminato sul filo del disastro per numerosi mesi. E credo di essermi resa responsabile, in anni successi e per mano delle mie allieve di allora, poi diplomate, di alcuni disastrosi scambi di missive commerciali che mancavano completamente l’oggetto del contratto, ma lo facevano in un inglese molto forbito e ineccepibile. Ho consumato in scuole di questo tipo qualcosa come 8 anni della mia vita professionale di insegnante di scuola superiore, senza avere la minima idea di cosa stessi insegnando, nella sostanza. Toccai il fondo quando in una quinta di Istituto Professionale per l’industria e l’artigianato, mi ritrovai a parlare in inglese di attrezzi metallurgici. È stato allora che ho scoperto l’esistenza della brugola.
Esempio N° 3:
ho cominciato a lavorare all’università, come contrattista e con la funzione di siliconare le falle del sistema accademico, dopo un dottorato in Letteratura Inglese, su un autore inglese dell’800. Il primo contratto che ho avuto in università supportava un corso sul Romanticismo inglese. Di seguito, prima di diventare ricercatrice, ho insegnato ogni genere di cosa, studiando (perché sono persona coscienziosa), e chiedendomi perché quello che sapevo io lo facessero insegnare ad altri (che probabilmente erano molto esperti in quello che stavo insegnando io). Poi ho vinto un concorso come ricercatrice. Oltre a non fare nessuna ricerca (perché avevo troppa didattica) insegnavo Lingua Inglese, che a esser rigorosi non è troppo lontano dall’insegnamento di Letteratura Inglese. Facevo un numero esagerato di ore a un numero esagerato di studenti. E mi toccava gestire creature denominate “esercitatori madrelingua”, che sono una forma di vita complessa, sulla quale mi soffermerò in altra sede. Oggi, dopo numerosi anni di insegnamento in università, mi trovo a costatare dolorosamente che un mio collega anglista tiene corsi di letteratura angloamericana e un altro mio collega americanista, nella stessa sede, tiene corsi di Letteratura Inglese. Perché? Non so dirlo.
Per quel che mi concerne, con la gavetta che ho fatto, oggi posso tenere senza problemi un corso di chimica o, che so, disegno tecnico per l’illustrazione dei tessuti, purché sia in inglese. Non è significativa la sostanza di quello che fai, ma solo la patina formale di cui lo rivesti E come ci hanno insegnato la vita politica e quella pseudo culturale in anni recenti, l’importante è figurare: che poi sia per il bene o per il male, questo non conta.

Un mio collega attuale, in posizione di responsabilità e slavista, è interdetto dalla crescente pressione perché l’università eroghi corsi in lingua inglese. Dopo le ultime, complesse comunicazioni dell’ateneo a riguardo, lui mi ha confessato di non aver assolutamente capito una cippa di quello che venga richiesto a noi docenti. Gli ho rivelato che anch’io navigo nella nebbia. Allora lui si è rasserenato. “Bene”, ha detto. “Almeno siamo in due: non tanti per un’associazione a delinquere, ma un discreto numero per pensare ad aprire un club (parola in inglese e quindi ben vista per l’internazionalizzazione)”. Per parte mia, gli ho raccomandato di non andare a dire troppo in giro che vogliamo formare un club: potrebbero chiederci di preparare un leaflet, una brochure, un entry package in ragione del quale spiegare la nostra mission e forse assumere dei procacciatori di soci. Preferibilmente di lingua straniera e per noi incomprensibile. Lui ci ha pensato e poi ha concluso: “Sai, non mi va di fare ostruzionismo perché non vorrei sembrare ottuso”.
Io: “Non sembri affatto ottuso. Ottuso è il mondo. Però se vuoi posso dirtelo in inglese, che ci sembrerà a tutti più chiaro”.

Nicoletta Vallorani