rivista anarchica
anno 41 n. 367
dicembre 2011 - gennaio 2012


storia

Indignados. Ma soprattutto indignadas
di Monica Giorgi

Le risonanze della tradizione anarchica sono riscontrabili nel movimento 15-M, sono però agite in modalità nuove, nuovi essendo i soggetti che le liberano creando spazi contestuali di preziosi conflitti. E i soggetti nuovi sono in gran parte donne.

 

Così manifestamente azzeccato, privo com’è di convinzioni ideologiche da pensiero unico, in realtà lo sfondo rappresenta il primo piano della scena in atto. Già lì presente nelle cose del mondo, la sceneggiatura appare fortuita ma non per puro caso esposta.
Encora penses que les besties non estimen? Una altra forma de pensar ès possible, recita l’immagine del primate scimmia dallo sguardo pensieroso: schermo alle spalle dell’Acampada tra indignate e indignati in Plaça de Catalyna.

“Parlo a titolo personale”

La gigantesca litografia pubblicitaria della Hunday perimetra l’angolo di cielo dischiuso su Barcellona; l’agorà di pensieri e di parole nel movimento dei movimenti lastrica sul selciato della piazza l’infinito in un contesto. L’una e l’altra irraggiano, quasi gioco di specchi deformato su linee a spirale, le cose del movimento che, per origine, segna la data 15-M, e ri-nasce indatato dall’onda degli eventi in cui è costudito.
Non molto distante dalla simbolica piazza, nel quartiere Sant Antoni, El Local accoglie da tempo una libreria anarchica, viva di pensieri globali animati in storie locali da barrio.
Cristina e Ignaçio testimoniano ciò che i media non dicono: esserci, tra le cose del mondo, è un intrigo di altra specie dall’osservarle in tele-visione: un di più e un di meno di cognizione è averne sentore, come ritenevo averne andandoci.
«Parlo a titolo personale», esordisce lui. Non solamente Ignaçio si presenta così. È l’incedere ripetuto da tutti quelli ai quali chiedo notizia sul movimento.
Sembra un’ovvietà registrarlo, ma in effetti segna una dicitura d’ingresso che non è poi tanto banale proprio perché premessa di narrazione storica a partire da sé sapendosi una parte.
Averla detta con semplicità la rivela solenne come solenne è l’ordine simbolico che lo inscrive.
Un soprassalto mi assale e, come flash, tornano a mente i pomposi discorsi che, pesanti carichi di presuntuosa esaustività da ipse dixit, predominavano la scena generazionale degli anni ’70: quelli dove la mia giovinezza era intricata. Tono di alterità e senso di ulteriorità sintonizzano ora e qui riscontri palpabili come scintille di verità risorta.
Il movimento non ha portavoce, il movimento è parlato da sé, vive in presenza. Sfuggito da appiccicose etichette, esso è in moto perpetuo e non di meno imprime. Anzi crea. Si dispiega in relazione all’esistente; (si) apre (in) un orizzonte di libertà non di meno compatto, più di quanto a mio modo di vedere lo fosse, se mai lo è stato, l’orizzonte di quel movimento guidato e organizzato sulle direttive del politicamente corretto a cui si abbarbica(va) l’idea della politica d’ordine in base a delega.
Tra le capacidades in atto, nel movimento c’è la virtù di aggregarsi su differenti orientamenti, contraddistinti e perfino contraddittori, senza eliminarli a favore di risoluzioni omologanti. La coscienza dei limiti che accompagnano le convocazioni monopolizzate, per un certo grado, da una o da un’altra sigla innesta il circolo virtuoso di farne a meno, di fronte e in confronto alla viva presenza dell’altra/o per qualcosa d’altro allo stato nascente. I guadagni simbolici sono di natura relazionale e il guadagno sta anche in ciò che si perde. Se opera di civiltà è da fare, occorre avere relazioni civili oltre l’indignazione. Si tratta di lasciarsi toccare dall’inaspettato, non di ri-trovarsi d’accordo con l’altro per non smentire se stessi.
Le risonanze della tradizione anarchica sono riscontrabili nel movimento; sono però agite in modalità nuove, ‘nuovi’ essendo i soggetti che le liberano creando spazi contestuali di preziosi conflitti. E i soggetti nuovi sono in gran parte donne.
Il movimento 15-M è iniziato in quel di Madrid con un’asserzione forte – “La rivoluzione sarà femminista o non sarà”, c’era scritto su una striscia brandita in alto, troppo in alto da far risentire qualcuno che ha voluto stracciarla materialmente, senza riuscirci simbolicamente.

Tonalità partecipative perché divergenti

Espressione di sé che va dicendosi di fronte all’altro nella sua verità, sottrazione dalla logica di potere, potere di indipendenza simbolica dal potere auto referenziale, politica del qui-ora e presenza di libertà femminile danno conto sia di una differenza generazionale sia, ben più marcatamente, del libero senso della differenza sessuale. Lo si avverte nella creazione di mondo alla fine del patriarcato capitalista, nei gesti che, senza fare di quella fine la vittima sacrificale per un nuovo ordine, resuscitano la bellezza di donare fiori in senso di riconoscenza quando la polizia - uomini in carne ed ossa - sa redimere senza manganelli situazioni di scontro fisico: cifra di libertà praticata ‘in presenza di’, non contro l’altro da sé come nemico, senso nuovo di non violenza, antico come l’amore che esprime la parola Ahimsa al cuore del Mahatma.
L’assemblea di base dell’15-M è organo di sovranità decisionale in maniera singolare. Le decisioni sono prese dalle necessità immediate che gli eventi determinano; non si ragiona e non si agisce sulla base di un modello ideale predeterminato o per un fine da raggiungere a cui tutte e tutti convengono. La contingenza del reale surclassa la realtà prefigurata nel momento stesso che la delude. Il fine non giustifica i mezzi, il fine è già nel mezzo delle cose che fai: come chiamare lo spostamento effettuato su una distanza minima ma pur sempre abissale? Rivoluzione? Mi sento di chiamarlo “salto di gioia” in cose dell’altro mondo…
Ciò che interessa è frugare nel contenzioso di fondo. Descrivere il senso più o meno preciso delle proposte espresse nell’agorà visibile è un esercizio che sembra prestarsi a limitare le potenzialità di quell’altra agorà invisibile – accada o non accada come i propri intendimenti vorrebbero. Lasciarsi andare a ciò che ci sfugge è una postura non immobilizzante: è grazia all’opera.
Nei fatti, la cultura del pensiero unico e forte è superata dalla superiore, ben più aggregante, consapevolezza della miseria ingente delle regole del gioco generate nel potere istituzionale. Ad esso non ci si contrappone ingaggiando un braccio di ferro per buttarlo giù. Lo si lascia cadere prescindendone, in forza dell’indipendenza simbolica nutrita anche dal sentirsi obbligati ad essere “antisistema” e “non-violenti”. Che non sono più etichette di comodo: le voci del 15-M si dispiegano in tonalità davvero partecipative proprio perché divergenti. No nos representan. Non somos antisistema, el sistema es antinosotros, si legge a chiare lettere.
Una terza etichetta (ci) pone davanti ad una discussione più scivolosa, quella che nasce dalla reiterata autoidentificazione per molti interessati (evidenzio il maschile plurale) del movimento 15-M come apolitici e, al di là di essa, della sua auto-ubicazione come gente né di sinistra, né di destra. Al di là di tali categorie, quel che è realmente importante non è ciò che diciamo di noi stessi, bensì quello che materialmente siamo e difendiamo.

Se questo non è rivoluzione

«Quindicimila barrios in tutta la Spagna coinvolti in mobilitazioni spontanee di chi ci vive, impedendo gli sfratti imposti dall’impoverimento della popolazione. Secondo la legge sull’ipoteca, la razion em pago – incalza Ignaçio – non basta restituire la casa, ma devi pagare anche la penale sul mutuo. La gente sa che bloccare fisicamente lo sfratto è il metodo».
Rebeldes com bata – ribelli in camice – donne e uomini che, mi si spiega, lavorano nelle unità ospedaliere come medici, infermiere, inservienti salvaguardano il primo dei beni comuni: la qualità della vita e della cura con la coscienza di saperle, cura e vita, alla base di quell’antico restituito giuramento d’Ippocrate.
Pubbliche assemblee disseminate negli spiazzi antistanti i municipi, autogestite e convocate in base alle urgenze di chi il quartiere lo anima, vengono partecipate da creature bambine a cui non si nega la compiutezza della loro età. Negli slarghi di partecipazione, le parole hanno gesti di assenso - vibrare le mani alzate; di disapprovazione – incrociare i polsi in segno di ammanettamento; notifiche silenziose con mani che rotolano su se stesse, a segnalare un intervento troppo ripetitivo e assai poco propositivo, danno alla luce il senso potente di alta educazione civica.
Quotidiane casaroladas – uscite in strada - risonanti su strumenti di economia domestica non addomesticata danno voce a qualcosa allo stato nascente dimenticato per quel valore che fa del danaro la merce della merce su di esso misurata.
Che ne sarà di tutto questo – movimento –? I movimenti dislocati tracciano luoghi bucati, come bucata è la parola della lingua materna. Non (si) parla di commerci speculativi, il valore d’uso e il valore di scambio circolano, non hanno proprietà. È un di meno che è un di più, una mancanza da cui nasce il meglio. L’ho avvertito nel discorso di un uomo espresso durante un’assemblea di piazza. Un uomo che altro non ha detto, in parole povere, che le cose cambiano se cambiano dentro di noi. Quel “noi” così appropriato disvela quella ormai inerte neutralità verso cui più uomini che donne hanno teso e (ancora per quanto?) tendono farne la culla del discorso assoluto, senza corpo e senza cuore. Senza anima politica, la politica si confonde con il potere, questo sembrano dirci i sommovimenti nei momenti di crisi, la crisi essendo momento opportuno per dire ancor meglio che non le cose ‘devono’(?) cambiare ma il proprio rapporto con esse.
«Duemila pasti cucinati durante i giorni dell’acampada!», esclama Cristina del El Local. Distribuiti e attinti come se fossero lì da sempre, pronti e attingibili anche per chi ne resta ai margini ma li partecipa donando generi alimentari. Botteghe che non chiudono la saracinesca si aprono al di più che lì fuori le riguarda. La piazza è la grande cucina aperta, viva come il focolare di una casa per chi la abita... «Se questa non è rivoluzione, allora anch’io non sono una donna!», scoppia a ridere Cristina.

Monica Giorgi