rivista anarchica
anno 41 n. 365
ottobre 2011


Una “fabbrica” in autogestione da trent’anni
di Romano Giuffrida e Giovanna Panigadi
foto di Giovanna Panigadi

È la Regenbogen Fabrik di Berlino, nata durante il movimento di occupazione delle case all’inizio degli anni Ottanta.

Nel quartiere Kreuzberg a Berlino, al numero 22 di Lausitzer strasse, nel marzo scorso, c’è stata grande festa. Tra adulti e bambini, bande di ottoni, giocolieri, trampolieri si brindava, infatti, al trentesimo compleanno dell’esperienza di autogestione della Regenbogen Fabrik (Fabbrica arcobaleno). È una delle “case-progetto” nate in seguito al forte movimento di occupazione delle case che interessò la città tra la fine degli anni Settanta e, soprattutto, nei primi anni Ottanta (vedi l’intervista a Rolf Lindemann – ndr). Qui, nell’ampio cortile destinato ai giochi dei bimbi, alle tavolate della mensa e circondati da numerosi murales multicolori, abbiamo incontrato Andy del collettivo di gestione della Regenbogen Fabrik e a lui abbiamo domandato di raccontarci la storia di questa esperienza.


Andy – Lavoro da cinque anni e mezzo nell’amministrazione della Regenbogen Fabrik anche se come formazione sono elettrotecnico industriale e, come altri, ho avuto altre esperienze lavorative prima di occuparmi del centro. La Regenbogen Fabrik è un progetto autogestito nato trent’anni fa dal movimento di occupazione delle case. (La Regenbogen Fabrik è stata una delle 162 case occupate a Berlino all’inizio degli anni ’80 – ndr).
Inizialmente fu occupata una casa residenziale qui accanto, l’occupazione poi si allargò all’area di questa fabbrica che era abbandonata e che è stata riempita di vita con diversi progetti rivolti al vicinato. La Regenbogen Fabrik esiste da trent’anni e le diverse attività che qui si svolgono sono iniziate un po’ alla volta. Si è cominciato con la cura dei bambini ossia con un asilo anche per le esigenze di chi aveva occupato: molte delle occupanti, infatti, erano madri sole (vedi l’intervista a Pamela, maestra dell’asilo della Fabrik – ndr). Un altro progetto che c’è dall’inizio è l’officina di autoaiuto per la riparazione di biciclette. Sullo stesso principio dell’autoaiuto lavora anche la falegnameria (vedi l’intervista a Uta, falegnama della Fabrik – ndr).
Sin dagli inizi di questa esperienza è stato allestito un cinema e ciò significa che da subito abbiamo deciso di avere un ruolo nella vita culturale del quartiere. Tra l’altro organizziamo anche delle feste nel nostro cortile: sono feste che coinvolgono il vicinato. Avevamo cominciato con due feste l’anno e ora ne realizziamo tre. Poi promuoviamo letture, concerti e incontri di tipo politico perché gli spazi della Regenbogen Fabrik sono a disposizione anche dei gruppi politici, come ad esempio il Plenum antinuclearista. Altri progetti attivi sono una caffetteria-pasticceria che c’è da 25 anni, l’ostello che c’è da dodici anni e una mensa popolare. Anche la mensa inizialmente era nata per le esigenze di chi lavorava all’interno della Regenbogen Fabrik ma poi, via via, si è aperta alla collettività, al quartiere. Nel tempo, abbiamo realizzato anche a un “settore formazione”, che organizza corsi, ad esempio di informatica, sia per i collaboratori interni sia per il vicinato. C’è poi un ufficio informazioni sia per i vicini sia per i turisti che qui possono trovare informazioni di vario genere sulla città e ciò che offre. Organizziamo anche delle visite guidate per i turisti: vengono qua spesso dei ragazzi giovani per i quali gestiamo dei programmi in collaborazione con referenti istituzionali, come il museo di Kreuzberg o il museo ebraico. Naturalmente abbiamo anche spazi allestiti per prove musicali dove i ragazzi possono venire a suonare.

Del nucleo originario che diede inizio all’occupazione trent’anni fa, è rimasto qualcuno che ancora lavora o partecipa alle iniziative della Regenbogen Fabrik?
Nelle abitazioni del palazzo accanto alla Regenbogen Fabrik abitano ancora alcune persone che hanno occupato sin dai primi tempi, di queste una decina lavorano qui nella Fabrik e ci sono anche tre “occupanti originali”, di quelli che hanno promosso l’occupazione: sono come mascotte da accarezzare, da coccolare… se volete vederli ve li mostro (ride). In ogni modo, a parte gli scherzi, del gruppo originale che ha occupato ci sono ancora parecchi che pur non abitando qui continuano a condividere con noi gli ideali di allora.

Nel corso degli anni, qual è stato il rapporto con il quartiere, con il vicinato?
A parte qualche naturale eccezione, sin dall’inizio il vicinato era favorevole all’occupazione: erano d’accordo con il principio che le case fossero utilizzate, che i cortili fossero riempiti di vita perché molte case e molti cortili a quel tempo erano solo delle rovine. E, infatti, all’inizio degli anni Ottanta era più il vicinato a fruire delle strutture della Regenbogen Fabrik, soprattutto i giovani perché non avevano altri posti dove incontrarsi. Nel corso degli anni, anche grazie all’apertura dell’ostello, i fruitori sono aumentati e internazionalizzati. Il vicinato della Regenbogen Fabrik utilizza prevalentemente la mensa e il caffè. L’officina per le biciclette, come la falegnameria, raccoglie persone che arrivano anche da più lontano, da altri quartieri; il cinema è conosciuto in tutta la città e l’ostello invece è conosciuto in tutto il mondo. A utilizzare il caffè e la mensa, come dicevo, sono i vicini, anche quelli con situazioni molto svantaggiate: la mensa, infatti, ha dei costi molto bassi, però è utilizzata pure da persone che lavorano negli uffici qui attorno e che fanno la loro pausa di mezzogiorno qui da noi.

E con le istituzioni cittadine che rapporti avete avuto?
Gli occupanti hanno cercato da subito l’appoggio di diversi comitati attivi nel quartiere e quasi immediatamente hanno ottenuto un riconoscimento politico anche da parte delle istituzioni del quartiere. A Kreuzberg, fino dagli anni Ottanta il partito dei Verdi aveva una certa consistenza e loro si sono adoperati anche all’interno delle strutture istituzionali per appoggiare progetti alternativi. C’è sempre stato un rapporto amichevole con l’amministrazione del quartiere; anche con il sindaco attuale ci sono buoni rapporti. Questa generazione di politici è cresciuta,o meglio: è stata accompagnata nella crescita dalla Regenbogen Fabrik. Questo fa sì che la Fabrik non paghi l’affitto per l’area dove sorge, che è proprietà pubblica, oltre a ciò, però, non è che abbia qualche altro particolare vantaggio economico.

È noto che la Repubblica Federale tedesca a chi è residente nel proprio territorio e non ha mezzi di sostentamento riconosce un sussidio, chiamato Hartz quarto, che si aggira circa attorno ai 350 euro e che prevede, tra l’altro, anche la copertura per le spese d’affitto e quelle sanitarie. L’esistenza di questo sussidio, ha avuto un peso nella vostra storia?
Beh, potremmo dire che la continuità della storia della Regenbogen Fabrik è stata, se non determinata, certamente favorita dall’esistenza di questo sussidio nel senso che, sin dall’inizio, c’è stato un gruppo di persone che ha potuto lavorare qua senza stipendio perché lo Stato, in qualche modo, le manteneva quindi potevano avere un lavoro di senso senza essere all’interno delle strutture capitalistiche o meglio, senza essere all’interno di processi di creazione del profitto com’è nel capitalismo. Nel corso del tempo, persone che lavoravano all’interno della Regenbogen Fabrik, grazie a diversi strumenti di gestione del mercato del lavoro germanico, sono state inserite in progetti finanziati dallo Stato (al momento attuale, però, ci sono ancora solo pochissimi posti di lavoro finanziati con soldi pubblici). Le persone che ricevono il sussidio che permette loro di vivere, non cercano necessariamente lavoro perché vogliono fare lavori sensati e non lavori che gli sono imposti dall’alto e ciò, come dicevo, permette loro di lavorare qui in maniera volontaristica perché il denaro per vivere lo ricevono dallo Stato. Il denaro statale finanzia l’economia solidale della Regenbogen Fabrik e si aggiunge al denaro che è prodotto da noi attraverso le varie attività, come ad esempio i biglietti per il cinema. Siccome però vogliamo tenere basso il costo dei biglietti così come quello di tutte le nostre iniziative, i finanziamenti di tipo statale sono importanti anche quando si concretizzano in forma di lavoro retribuito per il tipo di attività svolta all’interno della Fabrik.
La nostra esperienza non si è piegata nel corso del tempo a nessun tipo di ricatto, c’è stato ad esempio un tempo in cui l’amministrazione del quartiere voleva avere un affitto a condizioni che a noi non andavano bene e quindi avevamo dichiarato nuovamente occupata l’area e abbiamo portato avanti l’occupazione fino a quando abbiamo ottenuto di non pagare nulla. Siccome lavoriamo in maniera molto libera, spesso non corrispondiamo ai criteri di finanziamento che possono avere la Comunità europea oppure il Land Berlin ma noi non siamo disposti a scendere a compromessi perché quello che facciamo e come lo facciamo fa parte del nostro modo di essere.

Che significato ha per voi il concetto di “economia solidale”?
Innanzi tutto, per noi il concetto di economia si traduce semplicemente in: poter vivere. Per quello che riguarda il secondo termine, “solidale”, spiegarlo è un po’ più complicato: noi vogliamo vivere qui insieme, su una base egualitaria in assenza di gerarchie e dove anche i più deboli possano trovare il loro posto. Attraverso misure economiche o anche fittiziamente economiche si cerca di dare la possibilità anche a persone più deboli di trovare un loro posto qui, di portare le loro capacità e naturalmente anche le loro difficoltà. Ciò significa che la Regenbogen Fabrik non licenzierà mai qualcuno perché fisicamente non riesce a fare un certo lavoro o perché non riesce a rispettare certi tempi. Ci sono dei settori che non sono economicamente portanti come ad esempio le offerte culturali che la Regenbogen Fabrik propone, ci sono però altri settori come la mensa e l’ostello che compensano in maniera solidale le debolezze economiche degli altri settori. Ogni attività e ogni lavoro all’interno della Regenbogen Fabrik ha lo stesso valore, indipendentemente dal fatto che sia un lavoro “di concetto” in un ufficio dove magari si sviluppano progetti per ottenere finanziamenti oppure se si tratti di pulire il cortile. Cerchiamo di rendere ogni lavoro trasparente in modo che ognuno sappia cosa fanno gli altri. Cerchiamo poi di suddividere le responsabilità: si vuole lavorare senza capi e quindi… tutti siamo capi! Il peso di chiunque è uguale all’interno del plenum ossia dell’assemblea e questo indipendentemente dal fatto che una persona lavori soltanto tre ore al mese oppure trenta ore alla settimana. Non stiamo parlando di voto uguale perché noi non votiamo ma prendiamo le decisioni sulla base del consenso.

Quali sono le dinamiche più frequenti che si determinano all’interno dell’assemblea?
Non vorrei fare un elenco dei problemi però è chiaro che le strutture che la Regenbogen Fabrik si è data sono strutture dove c’è bisogno di parlare molto, di trovarsi all’interno di gruppi anche numerosi. L’assemblea è un momento divertente ma nello stesso tempo anche molto faticoso perché ci sono molte persone con grosse differenze tra di loro che però, secondo il principio del consenso, devono arrivare ad avere una posizione comune. Anche chi arriva qua per la prima volta ha il diritto di discutere e di decidere insieme agli altri. Questo pone delle difficoltà perché spesso i nuovi non conoscono le pratiche e il passato della Regenbogen Fabrik e si confrontano con persone che sono qui da trent’anni e conoscono molto meglio queste cose. Ci sono poi differenze di istruzione, differenze linguistiche, per cui si discute veramente molto. Personalmente non ricordo temi sui quali io stesso non abbia dovuto discutere tre, quattro cinque volte. In ogni caso, questo lavoro di dibattito nella Regenbogen Fabrik esiste e prosegue da trent’anni, e non è poco. Decisivo è il diritto a discutere, a scambiarsi opinioni sulle decisioni da prendere e questo avviene dai gruppi più piccoli fino al plenum complessivo. Tutto quanto avviene qui si deve decidere collettivamente. Nella realtà poi ci sono ovviamente anche i limiti individuali che si frappongono e che debbono essere tenuti in considerazione, comunque resta il fatto che non si prendono decisioni fin tanto che qualcuno è contrario.

La Regenbogen Fabrik è un progetto autogestito dove le decisioni sono prese sulla base del consenso; la vostra realtà è costituita anche da numerose iniziative lavorative che permettono l’esistenza stessa dell’esperienza: pensiamo, ad esempio, alla falegnameria o all’ostello, alla mensa e a tutte le altre attività che si svolgono qui. Come riuscite a far convivere l’assenza di gerarchie, anche di quelle determinate solo dai “saperi” specifici (giusto per fare un esempio banale: il “sapere” della falegnama piuttosto che il “sapere” del cuoco rispetto a chi, di legname o di ricette non ha mai saputo nulla), con lo svolgimento regolare di tutte le attività?
Bisogna avere sempre presente il fatto che il sapere non deve trasformarsi in potere: questo comporta la responsabilità di condividere i saperi e, nello stesso tempo, determina anche la consapevolezza dell’importanza dell’assumersi responsabilità. Un ruolo importante l’ha pure la fiducia nella persona o nelle persone, però anch’essa deve essere “controllata” affinché non si traduca poi in un tacito riconoscimento di potere. Il plenum ha una struttura aperta e questo è un elemento di vantaggio perché così molte persone possono porre domande e controllare cosa viene fatto e in che direzione si sta andando. Naturalmente non tutto si svolge sempre in maniera armoniosa, spesso ci sono dei conflitti e a volte delle separazioni, come d’altra parte nei rapporti individuali, nelle convivenze. A volte lo sviluppo individuale non riesce ad inserirsi in uno sviluppo collettivo per cui si arriva alla separazione dei percorsi, ma anche in questi casi si cerca di viverlo in maniera solidale. Ci sono comunque molti conflitti, ogni gruppo ha i propri e quindi siamo costantemente chiamati a imparare come gestire questi conflitti in un progetto autogestito che non vuole essere gerarchico. Non a caso, infatti, siamo arrivati anche a richiedere la collaborazione di esterni in qualità di mediatori dei conflitti stessi.

Dal punto di vista economico come viene gestita la Regenbogen Fabrik?
Ogni gruppo si autogestisce economicamente ovverosia ogni gruppo gestisce le proprie finanze sia che siano in attivo o in passivo: l’obiettivo ovviamente è quello di coprire i costi complessivi del progetto. In questo senso le responsabilità sono del gruppo ma, nello stesso tempo, anche dei singoli. Ogni gruppo come dicevo è indipendente ma, nello stesso tempo, è informato di quello che succede anche negli altri gruppi e in periodi come questo di crisi generalizzata, dove ci sono particolari difficoltà di tipo economico, viene richiesta una maggiore responsabilizzazione e collaborazione reciproca. Questo fa anche sì che gruppi che non lavorano in maniera redditizia non vengano sciolti e nemmeno chiusi i relativi settori di attività ma vengano aiutati dagli altri gruppi. Quindi, così come ogni individuo all’interno della Regenbogen Fabrik viene considerato importante, allo stesso modo anche i gruppi sono tutti importanti in eguale modo e per questo degni di essere aiutati.

Che significato assume la parola “responsabilità” all’interno di un collettivo autogestito?
La presa di responsabilità, in termini ideali, coinvolge tutti. Nella situazione reale è diverso: soltanto una parte delle persone sono in grado di assumersi responsabilità per un intero progetto. Delle tante persone che sono impegnate nella Regenbogen Fabrik, dai volontari alle persone che lavorano a tempo pieno, solamente trenta di loro prendono parte regolarmente al plenum generale. Nei gruppi e nei vari collettivi la situazione è un po’ diversa, per tutti ci sarebbe l’obbligo di essere presenti all’assemblea, cosa questa che non da tutti viene presa alla lettera…Ci sono anche quelli che, approfittando del fatto che qui si lavora senza capi, senza un controllo rigido e in maniera abbastanza flessibile, tendono a non prendersi particolari responsabilità.

La Regenbogen Fabrik ha una propria “immagine” politica all’esterno?
Noi non ci presentiamo all’esterno come una forza politica, pur essendo la Regenbogen Fabrik, come ho già detto, un punto d’incontro per molti gruppi politici che qui trovano una sorta di “completamento” anche grazie alle offerte culturali che proponiamo. Ciò fa sì che la Regenbogen Fabrik venga comunque considerata all’esterno come un progetto di tipo politico anche perché fa parte di una rete di realtà politiche. Noi però ci preoccupiamo poco di ciò che è “politico”: noi semplicemente facciamo, siamo attivi. La valutazione se quello che facciamo è politico spetta agli altri.

Che peso hanno, all’interno della vostra esperienza, le differenze di genere?
Se penso alle questioni di genere come a un concetto di tipo politico mi viene da dire che qui non se ne è mai parlato o meglio, come di tante altre cose, non se ne parla a livello politico, ma a livello concreto. C’è un’idea antisessista che è condivisa da tutti e non mi è mai capitato di sentire che tra le persone che lavorano qua ci siano stati casi di sessismo. A volte questo può avvenire con gli ospiti dell’ostello ma non tra le persone interne alla Regenbogen Fabrik. La cosa che si può osservare è che grazie alle strutture antipatriarcali che sono state create alla Regenbogen Fabrik, molte più donne hanno assunto responsabilità e hanno funzioni di responsabilità, certo più che in altri progetti presenti a Berlino. Nel settore artigianale, ad esempio, le donne sono poco rappresentate cosa che qui invece non avviene. La mia sensazione è che, anche “a sinistra”, in molti progetti, gli uomini abbiano più potere; i maschi sono quelli che appaiono all’esterno, sono gli “uomini pubblici” oppure sono “quelli che si assumono le responsabilità di controllare le finanze”. Ciò che avviene nella Regenbogen Fabrik, ma anche in tanti altri progetti attivi qui a Kreuzberg, è che le donne sono invece molto più rappresentate. Un esempio? Due terzi del plenum della Regenbogen Fabrik è composto da donne.

Secondo te, è possibile definire la Regenbogen Fabrik un’utopia concreta?
Io ho qualche problema a rapportarmi con il concetto di utopia: noi facciamo semplicemente delle cose. Questa è la vita reale, e la vita reale si sviluppa giorno dopo giorno, e così anche noi ci accorgiamo che, organizzandoci giorno dopo giorno, le cose possono funzionare meglio. Sì, la nostra esperienza potrei anche definirla utopia, sta di fatto però che la Regenbogen Fabrik è un progetto che esiste da trent’anni nonostante le condizioni esterne siano enormemente cambiate. Per questo motivo mi viene da dire che la Regenbogen Fabrik è forse un passo più avanti di chi parla e immagina solo le utopie…, aggiungo però che dopo trent’anni essere solo “un passo oltre” non è un granché… Un mio amico dice: noi abbiamo costruito un arcobaleno e continuiamo a costruirlo, ed è così. L’interesse nei confronti della Regenbogen Fabrik è cresciuto, adesso dalla Francia, da Vienna, dai Paesi Bassi abbiamo richieste di confrontarsi insieme sulla vita alternativa, sul lavorare in maniera alternativa, sull’economia solidale e non ho l’impressione che si parli tanto di utopia quanto di cercare delle strade, dei percorsi alternativi.

Le traduzioni delle interviste a Uta, Pamela e Andy, sono state curate da Giulio Bonini: a lui il nostro ringraziamento.