rivista anarchica
anno 41 n. 364
estate 2011


scuola

 

Io studio da Batman

Ho etto da qualche parte che la figlia di Veltroni è andata a studiare a New York.
Anche la figlia di D’Alema.
Chissà se è vero.
La figlia del mio dirimpettaio, che si chiama Greta Lulù El Fawal, andrà a studiare al professionale che sta a Quartoggiaro: anche quello somiglia a New York, però dalle parti del Bronx. Per via dei tagli, anche il professionale di Quartoggiaro, come tutte le altre scuole del regno, avrà classi prime di 27-32 studenti (a seconda di quanti riescono a stiparne in una classe: è come un Sudoku con materiale umano). E tutti parleranno lingue diverse, ma conosceranno gli stessi insulti: assai pittoresco, non è vero? Già … almeno finché lì dentro non deve entrarci tua figlia.
Gli insegnanti precari che arriveranno in questa scuola, come in alcune altre, saranno giovani volenterosi e molto illusi, pronti a perdere la loro verginità deontologica e a convertirsi alla truffa non appena scopriranno che fare i bravi non paga. “Non paga” è un’espressione che va intesa alla lettera: il rischio di non essere pagati per numerosi mesi è reale e concreto, ed è parte di un’esperienza condivisa della categoria dell’esistente cui i precari di ogni ordine e grado appartengono.
Quando ero precaria io, più o meno 25 anni fa, ci pagavano, anche se le prime esperienze in aula non erano molto diverse da quelle di oggi. Mi ricordo di essere entrata per la prima volta nella classe di un Istituto professionale per l’industria e l’artigianato di Milano hinterland subentrando a una prof di lettere che usciva di corsa in lacrime. Dentro l’aula, c’erano diciotto energumeni spaventevoli, in effetti, che poi risultarono del tutto inoffensivi, anche se in una classe quinta non nutrivano alcun interesse per la grammatica inglese. Uno di loro, nelle mie cinque settimane di supplenza, non aprì mai bocca e continuò a riempire il banco di areoplanini di carta, che poi lanciava nel corso della lezione. Solo una volta uscì da questa condizione autistica per scattare in piedi, impugnare uno dei suoi areoplanini e stritolarlo in un pugno sollevato. Poi mi guardò felice e disse: “Prof, King Kong!”. Fu allora che compresi le enormi potenzialità didattiche del cinema.
Molti anni dopo, andai alla discussione di tesi del figlio del mio compagno di vita e indignazioni. Era una tesi di design. La commissione era presieduta da un tipo con gli occhiali gialli e i pantaloni color vomitino di bambino: molto fashion. Il tipo passò l’intera discussione di tesi a conversare al telefonino. All’epoca ne fui scandalizzata. Scrissi anche al preside della facoltà, ma non ottenni risposta. Ancora oggi mi chiedo come mai: se uno mi scrive, di norma io rispondo. La risposta è come il sorriso: non si nega a nessuno, se la domanda è formulata con cortesia.
Per questo ho cercato di insegnare alle mie figlie a formulare le domande in modo cortese e chiaro. Non ho saputo proteggerle dalla consapevolezza che questa strategia non è in se stessa efficace. Dopo la sua prima riunione come rappresentante degli studenti in Consiglio d’istituto, una delle mie bambine adorate è tornata a casa col naso chiuso. Dopo esserselo soffiato con entusiasmo, ha detto: “Credo che il naso chiuso sia stato una manifestazione psicosomatica, mamma. Non volevo respirare la stessa aria di quegli idioti”. Sebbene del tutto priva di fondamento medico, trovo che questa spiegazione possa essere attendibile.
Nei suoi primi anni di scuola, la mia figlia piccola, che non legge nulla se non è illustrato o scritto su carta da musica, inventava di sana pianta la trama dei libri che le davano da leggere. Riusciva con una certa efficacia a turlupinare gli insegnanti, forse ipnotizzandoli con la potenza del suo eloquio. Quando me ne resi conto, cercai di convincerla che quel comportamento andava modificato, perché era un imbroglio. Lei mi rispose: “Ma perché? La maestra è contenta.” Della serie: perché addolorare qualcuno se puoi farlo felice? Anche qui, mi sono mancate le risposte.
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Come che sia, continuo a preferire le scuole statali e italiane. Non ho intenzione di mandare la mia legittima prole a studiare a New York, a meno che da grande e autonoma non lo decida da sola. Con tutti gli accidenti che riserva il giardino delle meraviglie che è la scuola dell’obbligo italiana, entrambe le mie figlie hanno campionato insegnanti straordinari, in svariate istituzioni e momenti, e da quelli hanno imparato cose che io non avrei saputo insegnare.
Di recente, si è fatto un gran parlare di un altro figlio d’arte che, dopo aver studiato all’estero, sarebbe tornato in Italia con una lieve sfasatura spaziotemporale: un disturbo trascurabile, soprattutto se non si è figli, che so, di filippini stipati in sette in venti metri quadri. Il pargolo, secondo alcune testate giornalistiche di intenzioni malevole, avrebbe deciso di farsi costruire una casa come quella di Batman, con la piscina, la sauna e la botola per il laboratorio segreto. Credo che avesse anche un costumino nero da pipistrello nascosto nell’armadio, e una macchina con alettoni rotanti e il motore di un jet. Ho letto queste interessanti notizie e di nuovo mi sono stupita della potenza del cinema: peccato che non ci fosse anche Joker. O forse sì?
Tuttavia queste, è ovvio, sono leggende metropolitane. E se c’è qualcosa di vero, qualche sprazzo di attendibilità, la colpa di sicuro non è del ragazzo, ma degli insegnanti che ha avuto: in Italia o all’estero, sono tutti ignoranti, cialtroni, negri, gay e, soprattutto, comunisti. Anche quando lo studente studia da Batman
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Nicoletta Vallorani