rivista anarchica
anno 41 n. 363
giugno 2011


trasformazione sociale

Ricominciare dal basso
di Andrea Papi

Agire dentro i gangli del sistema per tentare di riformarlo è sempre stato fallimentare. Sono altre le strade da cercare di percorrere.

 

Mi chiedo perché nonostante nel mondo tutto sembri muoversi abbastanza velocemente, lanciando segnali di cambiamenti in alcuni casi epocali come in Nord-Africa, in Italia al contrario viviamo la sensazione costante di un immobilismo che ci fa sembrare di non essere neppure parte del mondo. Da noi la situazione sembra davvero stagnante, addirittura inamovibile, non certo perché tutto funzioni a meraviglia, dal momento che praticamente nulla funziona veramente, mentre le prospettive che abbiamo di fronte sono a dir poco deprimenti e avvilenti.
La sensazione netta che se ne ricava è che stiamo vivendo un declino che al momento sembra inarrestabile, esteso ad ogni livello e ad ogni ambito, da quello politico a quello economico a quello sociale. Personalmente sono arciconvinto che questo degrado, vera e propria action in progress, sia un effettivo dato di fatto più che una semplice sensazione. Sono pure convinto che non sia casuale, bensì la logica conseguenza di una serie di scelte di fondo volute appositamente negli ultimi decenni da elementi culturali predominanti forniti di grande potere e di una grande capacità d’influenza. Nel suo insieme la nostra società oggi appare chiusa nelle proprie paure e ottusa nella comprensione del mondo, incapace sia di volere sia di pensare come innovarsi e come far emergere uno spirito comune in grado di farci rialzare la testa e farci sentire fieri del nostro esserci e del nostro operare. Da storico punto di riferimento culturale planetario ci siamo trasformati in una retroguardia del senso comune, irrigiditi in un permanente arretramento rispetto alla globalità del divenire.
Eppure non è che manchi la ricchezza, soprattutto monetaria, la quale è sempre più mero appannaggio di una minoranza superprivilegiata, a detrimento di tutti gli altri. La stragrande maggioranza della popolazione, irretita giocoforza in una spirale perversa di pauperizzazione costante e di diffuso impoverimento culturale, un passo dopo l’altro sta progressivamente perdendo ogni conquista ed ogni possibilità di benessere. Ciò per cui sono riuscite a distinguersi le classi dirigenti di casa nostra è il progressivo e costante indebitamento pubblico che, sottraendo con scientifica e calcolata costanza ai cittadini senza potere quel poco di benessere personale che erano riusciti a racimolare con dura fatica, ha permesso ai privilegiati di arricchirsi. Questi pescecani avidi di potere hanno dilapidato e continuano a dilapidare il patrimonio collettivo, senza praticamente risolvere nessun problema e senza migliorare le condizioni di vita. Così fin dalla nascita ognuno di noi si trova sul groppone un debito di diverse decine di migliaia di euro, senza esserne responsabile, senza fra l’altro possedere nulla e senza avere di fronte prospettive esistenziali rassicuranti. Anzi!

La lotta per l’emancipazione

Se c’era bisogno di una prova per dimostrare il completo fallimento del modo in auge d’intendere la gestione della cosa pubblica, ebbene eccolo: è proprio nei fatti e nei risultati dell’operare di lor signori, i quali, nonostante i loro sistematici fiaschi, continuano incuranti ad autopropinarsi super/lauti emolumenti, stabilendo da soli che debbono essere premiati per lo sfascio di cui sono responsabili. Hanno dimostrato e stanno dimostrando che l’origine del furto sociale non è tanto la proprietà privata quanto l’esproprio e l’imposizione gerarchica della gestione dei beni collettivi. Loro si arricchiscono e noi c’impoveriamo, senza soluzione di discontinuità.
Questa situazione di progressivo degrado sociale in atto ha potuto insediarsi perché è stata preparata accuratamente come possibilità voluta dai potenti di turno. All’origine ci stanno sostanzialmente due motivi fondamentali, uno di dinamica economica ed uno strettamente politico, nel senso proprio di modalità e metodi di conduzione della gestione della polis. Motivi e cause che da troppo tempo ormai corrompono e erodono progressivamente la qualità delle relazioni sociali e dell’esistenza di ognuno di noi.
Per quanto riguarda la dinamica economica siamo pervenuti ad una fase di sviluppo mondiale del capitalismo caratterizzata da uno spostamento della centralità del sistema dominante, dal momento produttivo a quello finanziario. Oggi chi decide le scelte d’investimento e di politica economica non sono certo i proprietari, ma chi gestisce la finanza. La proprietà privata, antica bestia nera dei socialismi delle origini, da tempo non rappresenta più il fondamento economico dalla cui soggezione bisogna emanciparsi.
Non è più possibile identificare la lotta per l’emancipazione liberatrice nella priorità dello scontro tra le strutture del capitalismo proprietario e l’insieme degli sfruttati. Non ha più senso illudersi di combattere un nemico/struttura che s’impone con la prepotenza della padronanza di una classe egemone. Oggi il nemico vero è plurale e non necessariamente strutturato in classe. Abbiamo un insieme di tendenze, raffinata destrezza speculativa e capacità d’influenza, accompagnate da un’enorme abilità nel fluttuare al di là e sopra le burocrazie statali.
Questa situazione dell’attuale autoritarismo economico ha portato all’esasperazione i già devastanti aspetti negativi della disuguaglianza economica e sociale, rendendo sempre più estreme le differenze fondamentali tra chi può e chi non può, tra chi ha e chi non possiede. I ricchi sono sempre più ricchi e continuano ad accumulare capitali e ricchezze che in diversi casi raggiungono quantità iperboliche, mentre i non abbienti sono sempre più poveri e aumenta di quantità la fascia sociale della miseria e dell’indigenza.
Inoltre la subordinazione lavorativa ha sempre più l’aspetto di una precarietà endemica, rendendo ancora più deboli e fragili gli ultimi e coloro che già sono deboli. Abbiamo così che l’imperio della sudditanza economica è massimamente ingenerato da oligarchie diversificate, in gran parte anonime, impossibili da inquadrare all’interno di irreali categorie classiste se non attraverso astratti equilibrismi verbali, che non possono che scontrarsi con le dinamiche di movimento e di gestione che ci stanno opprimendo. La realtà è fluida e non strutturata e bisogna imparare ad affrontarla tenendo conto della sua complessità, non rigida né stabile, che soprattutto ha una grande capacità di adattamento e trasformazione.
In Italia tutto ciò è amplificato e scatena effetti particolarmente gravi che si riversano sull’insieme della popolazione. L’asfissiante clientelismo politico delle lobbies al potere ha reso endemico un alto livello di corruzione e d’inefficienza manageriale delle classi dirigenti, tali che il debito pubblico è altissimo e l’economia non riesce a stare al passo con le spinte della globalizzazione.

I meccanismi di controllo

Per quanto riguarda il fondamentale politico risiede in una specie di peccato originale: il fallimento della democrazia. L’entrata nella modernità dell’occidente ha dato vita e forma alla democrazia rappresentativa, considerata in modo autoreferenziale come il punto più alto della realizzazione delle istanze di libertà liberali. Probabilmente i padri fondatori della liberaldemocrazia hanno sottovalutato gli effetti possibili delle spinte autoritarie e delle pulsioni verso il dominio presenti nella cultura dominante e nelle propensioni diffuse. Un passo dopo l’altro, nella definizione delle regole e nell’applicazione delle procedure, sono stati definitivamente prima mistificati poi traviati lo spirito della rappresentanza e il senso profondo della democrazia.
L’istituto della rappresentanza da momento rappresentativo si è trasformato in mero atto di delega di potere. Tutto dipende da cosa s’intende, dal momento che in politica la rappresentanza ha assunto nel tempo una molteplicità di significati. Siccome di fatto c’è rappresentanza quando qualcuno sceglie e agisce per conto di altri, bisognerebbe andare oltre questa selva polisemica per rintracciare lo spirito originario per cui è stata concepita e per comprenderne il senso profondo. Quando nel medioevo si cominciò a porre il problema, non a caso il rappresentante delegato era concepito come mero esecutore delle istruzioni impartite dai rappresentati. La rappresentanza nacque come meccanismo politico dettato dalla necessità di avere esecutori fidati di volontà generali.
Riconoscendo questo spirito originario la liberaldemocrazia concepì la rappresentanza come tecnica democratica che negli intenti avrebbe dovuto realizzare questa finalità, collegandola alle motivazioni fondamentali della sua filosofia politica, di controllare e limitare il potere. Concepì perciò l’istituzione di particolari meccanismi politici per la realizzazione di un rapporto di controllo tra governati e governanti. Ma questa visione non poteva andare bene alle tensioni egemoni e alle spinte verso il dominio presenti culturalmente in modo prevalente nell’immaginario politico diffuso. Le fortissime spinte di interessi economici di accumulazione capitalistica e la spinta conseguente a capitalizzare per accumulare cospicue rendite finanziarie hanno completato il quadro di annichilimento dei motivi per cui era nata la rappresentanza.
I meccanismi di controllo per rispettare la volontà generale e le istanze individuali non sono compatibili coi bisogni di concentrazione di potere e di ricchezze in pochi mani. Le pressioni oligarchiche hanno avuto pienamente ragione delle spinte favorevoli alla partecipazione decisionale della democrazia diretta. Così l’istituto di rappresentanza, da momento politico di esecuzione di istruzioni e decisioni prese collettivamente, a poco a poco è diventato momento di legittimazione del comando dall’alto. Oggi non si vota per dare un mandato, come tale vincolante, che i delegati devono eseguire, ma per dare legittimità a chi ha il potere di decidere a sua discrezione senza dover rendere conto delle sue scelte ai deleganti. Da democrazia espressione del popolo, com’era stata pensata e concepita, si è passati a territorio politico dei leader che agiscono a propria discrezione legittimati dal consenso elettorale. Tutto ciò c’entra ben poco con lo spirito originario per cui ha preso avvio la forma democratica. Le strutture cosiddette democratiche di oggi in realtà non c’entrano nulla con il senso fondante della democrazia.

Il baratro dell’immobilismo

Dopo la rivoluzione francese, che aveva dato grande forza alla tensione sociale verso uguaglianza libertà e fratellanza, principi fondamentali su cui si dovrebbe fondare una società emancipata dalla sudditanza e dal servilismo, nelle realizzazioni per la gestione politica ci si è allontanati sempre di più dai presupposti fondativi per far riemergere, in forme aggiornate e mascherate, ciò che la rivoluzione aveva tentato di sopprimere: la concentrazione assoluta del potere in poche mani. Ciò che non è più ritornato è il diritto aristocratico del censo, definitivamente soppresso. Ma la concentrazione del governo e del comando in poche mani privilegiate è ripresa pienamente, in forme nuove e da molti punti di vista più efficienti di prima per i privilegiati. Accompagnata da una concentrazione della ricchezza in poche mani, questa logica e questa tensione hanno portato quasi naturalmente alla situazione che stiamo vivendo.
In Italia l’aggravante di una concentrazione massima di clientelismo politico, di lobbismo, di corruzione e d’inefficienza manageriale, consolidatesi in circa mezzo secolo di egemonia politica democristiana, sorretta dalla craxiana politica degli affari e dal catto/comunismo cultural/politico, hanno aperto la strada a una forma di esasperato cesarismo populistico, totalmente incentrato sull’esaltazione adulatrice e sull’elogio apologetico del leader, incensato dai suoi adulatori fino ad accettare di trasformare sempre la verità dei fatti a suo favore. Una situazione che ha portato al baratro dell’immobilismo che stiamo subendo.
Per tentare di uscire da questo impasse, che ha tutta l’aria di essere strutturale, bisogna cominciare a pensare di ricostruire dal basso il tessuto sociale di relazioni, di solidarietà, di produzione di beni per tutti, di un’economia non più funzionale all’arricchimento dei privilegiati. Agire dentro i gangli del sistema per tentare di riformarlo è sempre stato fallimentare, perché i meccanismi di assorbimento e di conservazione del potere vigente sono fortissimi.
Bisognerebbe invece porsi nell’ordine d’idee di ricostruire veramente dal basso, proprio per evitare di finire miseramente sempre più “in basso”.

Andrea Papi