rivista anarchica
anno 41 n. 363
giugno 2011


dibattito anarchismi

Pensieri ibridi e aperti
a cura di Andrea Staid

Ampi stralci da un saggio di Tadzio Mueller su anarchismo post-strutturalista, potere, egemonia, e una recensione di un libro del Comitato Invisibile. Questo trovate nella quinta puntata del dibattito.

 


Anarchismo post-strutturalista come critica attiva del dominio e dell’oppressione

Su questo numero pubblichiamo degli stralci di un interessante intervento tratto da: Tadzio Mueller, Aumentare il potere dell’Anarchismo – Potere, egemonia e strategia anarchica (Empowering Anarchism, Power, hegemony, and anarchist strategy)
In questo scritto si trattano dei nodi centrali per la comprensione e la critica di una pratica anarchica. Tadzio Mueller affronta la tematica del potere che si incrocia con l’importante tema dell’identità e dell’egemonia.
Un’analisi profonda e lucida per andare avanti nelle lotte quotidiane in modo libertario senza cadere in modalità autoritarie mascherate da liberate. Qualche pagina di riflessione teorica per migliorarsi nelle pratiche della sovversione quotidiana.

A.S.

Mi concentrerò sul lavoro del filosofo tedesco Peter Sloterdijk, la cui opera, influente e controversa in Germania, come dimostrano i suoi scontri pubblici con Jürgen Habermas, è stata oggetto di crescente attenzione anche al di fuori del suo paese d’origine (1). Sloterdijk, con una tipica mossa post-strutturalista, prima elabora una critica davvero radicale delle relazioni di potere insite nei tentativi di costruzione di identità politiche; quindi compie esattamente il passo che io spero di evitare: da una critica della politica all’abdicazione dalla politica. A partire dall’affermazione che la conoscenza oggi è stata smascherata in quanto (una pretesa di) potere, e la «verità» in quanto mera strategia, definisce il suo progetto come tentativo di portare a conclusione il compito dell’Illuminismo, ovvero lo svelamento, la messa a nudo del potere attraverso lo smantellamento delle facciate dietro alle quali si nasconde (Sloterdijk 1983: 12, 18).
Tutto ciò è piuttosto significativo nel quadro del posizionamento del post-strutturalismo in generale, e di Sloterdijk in particolare, in relazione all’anarchismo: l’anarchismo potrebbe essere definito in modo similare come un tentativo di compimento del progetto illuminista (assumendo la sua definizione) poiché esso radicalizza la critica del potere messa in circolazione per la prima volta dall’illuminismo liberale e poi dal Marxismo, da estendere a tutti gli aspetti della vita (2).
Sloterdijk suggerisce che la battaglia finale che l’illuminismo deve ancora vincere è la messa a nudo del potere nascosto dietro la nozione di identità, la messa a nudo dell’ego, o del soggetto, in quanto costruito (Sloterdijk 1983: 131-2). Tracciando la costruzione di un’identità di classe borghese (e il tentativo, in un certo senso meno riuscito, di costruire un’identità positiva di una classe lavoratrice), Sloterdijk rivela come questi siano stati progetti politici che hanno alterato e stabilito relazioni di potere mediante la creazione di quelle stesse forze politiche che i leader pretendevano di rappresentare (Ibid: 133-54).
Perciò la politica diventa una lotta tra identità e saperi-potere: qualsiasi mobilitazione su un argomento politico, per quanto anarchico o progressista, implica necessariamente non «essenze» (come nell’espressione: essenzialmente, siamo tutti lavoratori oppressi), bensì la costruzione di «un nuovo sapere-potere e la creazione di un nuovo soggetto di potere-sapere» (3).
Su questo sfondo l’Illuminismo di Sloterdijk lotta per spezzare «le identità congelate», festeggiando in contrapposizione a questo necessario prodotto della politica una «anti-politica esistenziale», che dovrebbe cercare di rigettare tutti i tentativi di identificarci, di spezzare i meccanismi disciplinari che ci rendono conformi a una visione particolare di ciò che dovremmo essere, e di come dovremmo essere. Perché «la politica è quando la gente cerca di spaccarsi reciprocamente la testa» (Ibid: 250; 315-319).
Sloterdijk identifica la sua (non) strategia per raggiungere questo obiettivo come «kinicismo»: un tentativo di spezzare i condizionamenti sociali e i meccanismi disciplinari affermando la nostra capacità di godere della vita malgrado i suoi condizionamenti; ad esempio, cita con grande gioia l’esempio di Diogene, che si oppone alle colte dissertazioni di Platone sull’«Eros» masturbandosi in pubblico sulla piazza del mercato di Atene.
Il kinicismo non comporterebbe la creazione di nuove identità, perché tutte le identità sono disciplinari, normalizzanti, imbarazzanti: sarebbe piuttosto la ricerca di un’esperienza di vita «effettiva» («eigentlich», opposto a improprio, costruito, «uneigentlich»), che possiamo raggiungere non attraverso la politica (Sloterdijk afferma chiaramente che la sua è una battaglia «non per cambiare la storia, ma per cambiare la vita» (Ibid: 242), piuttosto «attraverso l’amore e l’estasi sessuale, l’ironia e le risa, con la creatività e la responsabilità, la meditazione e l’estasi» (Ibid.: 390).
Come ci lascia quindi la (non)politica di Sloterdijk, che considero rappresentativo di tutte quelle tendenze dell’anarchismo e del post-strutturalismo che prendono le mosse dalla critica della politica per abbandonare la politica? A mio parere, con un certo numero di incongruenze evidenti. La prima, e forse anche la più dannosa per la posizione di Sloterdijk, è il fatto che persino le non-politiche si incarnano necessariamente in relazioni di potere, e perciò sono di fatto politica. Per allontanarsi dalla «società stabilita» o per sfidare fisicamente i meccanismi sociali disciplinari si deve godere di un buon numero di privilegi: molti attivisti anarchici che godono attualmente del sussidio di disoccupazione tendono dimenticare che questo sussidio è il risultato della sottrazione statale di una parte del plusvalore prodotto dai lavoratori, nei loro rispettivi paesi o in un altro; mettere in piedi una comune richiede quanto meno risorse intellettuali e finanziarie (competenze e denaro), che sono prodotti del potere; e, infine, mentre il Diogene di Sloterdijk poteva masturbarsi e cagare sulla pubblica piazza di Atene con un buon successo di pubblico, si può supporre che una persona definita «pazza» o «senza fissa dimora» non sortirebbe alcun effetto con atti simili, oltre a essere arrestata o peggio ancora ignorata.
Certo, la masturbazione pubblica del prof. Sloterdijk avrebbe senz’altro un interessante effetto «kinico», ma che presuppone proprio la posizione che ha raggiunto (preside di un dipartimento in una università tedesca), un risultato di potere. Perciò il kinicismo, o qualsiasi altra «non-pratica» apparentemente «non-politica» (Ibid: 939-53) che mira a evitare la politica al fine di evitare il potere, cade nel vecchio errore di ignorare le relazioni di potere sulle quali essa stessa si basa e che aiutano a produrla come pratica. In altre parole: il tentativo di aggirare le relazioni di potere conduce a riaffermarle, e a negarsi ogni capacità di far qualcosa in merito.
La seconda critica è legata alla prima, ma è differente: avendo affermato che il potere è inevitabile, sosterrò ora che l’«identità» – una distinzione fra dentro e fuori più o meno consapevole – è semplicemente una condizione generica per la comunicazione e l’esistenza sociale, e non è solamente inevitabile per definizione, ma abilitante e necessaria.
Tuttavia Sloterdijk ha già anticipato questa mossa: afferma che il desiderio di tuffarsi costantemente in nuove identificazioni quando la vecchia è andata in frantumi fa parte di una più fondamentale «programmazione» di noi stessi, per cui siamo portati a pensare alla nostra soggettività come necessariamente collegata a un’identità. Inoltre, l’affermazione che esiste una simile tendenza viene identificata da Sloterdijk come un esercizio di «conoscenza superiore», il che suggerisce subdolamente che la maggior parte delle persone preferirebbe una maggior sicurezza piuttosto che maggior libertà, una posizione che a sua volta conduce a reclamarsi come rappresentanti di questa «povera gente», a esercitare potere su di loro, alla dominazione (Ibid: 155-6, 348).
Ancora una volta, queste domande apparentemente esoteriche non sono poi lontane quanto potrebbero sembrare dalle pratiche anarchiche concrete: il pamphlet Give up Activism chiedeva recentemente ai libertari di sinistra che le loro politiche non si impegnassero nella costruzione di nuove identità, ma nella distruzione di quelle vecchie (specialmente dell’identità di «attivista») e nella creazione di una condizione di apertura radicale per l’espressione di quella che si potrebbe forse definire una «identità non-identitaria» (Anonymous2: 2000a).
Si possono contrapporre tre argomenti a questa visione. In primo luogo, sostenendo che ogni dichiarazione di identità è oppressiva e concludendo perciò che l’«essenza» della libertà umana non è legata ad alcuna identità, Sloterdijk ha mancato il bersaglio. Ha costruito una nuova «identità» o essenza umana, quella di una persona che cerca costantemente di sfuggire al suo essere costretto/a in una identità. Per conseguenza necessaria, qualsiasi ricerca di «uguaglianza», comunità, identità collettiva è l’espressione di quella «programmazione profonda» individuata più sopra, e perciò «essenzialmente» non libera e umana. Da cui deriva direttamente che chiunque non cerchi costantemente di spezzare le identità, di ridefinire costantemente se stesso/a dovrebbe cambiare il proprio comportamento e conformarsi agli standard stabiliti da Sloterdijk, o dall’autore di Give up Activism. È chiaro che questa pretesa di conoscere un’«essenza» umana diventa ancora un’ennesima forma di costruzione gerarchica, con quelli che sfuggono costantemente all’identità in cima, e quelli che non lo fanno in basso.
Avendo decostruito tutte le essenze, siamo arrivati ad avere una nuova essenza, e questa volta un’essenza iper-mobile (4). Collateralmente, sembra che la pratica della «iper-mobilità» sociale, un po’ come il kinicismo di Sloterdijk, presupponga la necessità di un sacco di risorse per mantenere una vita del genere: in altre parole, è una strategia per i privilegiati.
Il secondo argomento contro l’iper-mobilità è esattamente quello che Sloterdijk ha anticipato: gli esseri umani hanno bisogno di identità. Vorrei iniziare con l’esempio del linguaggio. Sembra evidente che ci capiamo, in qualche misura, nel linguaggio e attraverso l’uso del linguaggio: dopotutto, gli argomenti di Sloterdijk sono stati espressi in tedesco. Poiché il linguaggio è un elemento potente nella costruzione di identità collettive, anche Sloterdijk è evidentemente imprigionato in un’identità: non quella di «tedesco», ma quella di «germanofono». In che modo è un’identità? Molto semplicemente in quanto definisce un gruppo di «interni» o un «noi» (coloro che parlano una lingua) e degli «esterni» o dei «loro / gli altri» (coloro che non la parlano).
In altre parole: la scrittura è basata sul linguaggio, il linguaggio sull’identità, l’identità sul potere, suggerendo che in qualsiasi modo cerchiamo di comunicare siamo già coinvolti nella costruzione di identità collettive (Lyotard 1984: 15), e dunque Sloterdijk non può affermare coerentemente di essere sfuggito al potere e all’identità con la sua non-pratica non-politica.
Ma si potrebbe dire che forse è possibile costruire identità che quantomeno non implichino la normalizzazione disciplinare che (normalmente?) va con le identità, cosa che ci conduce alla terza e conclusiva critica della non-pratica non-politica: non solo l’identità è necessariamente esclusiva, come mostrato sopra; per di più, non è auspicabile non avere nessuna forma di meccanismo disciplinare in una società. Per esempio, da un punto di vista anarchico, il comportamento sessista non riguarda il fatto di affermare legittimamente la propria differenza, ma è semplicemente inaccettabile e oppressivo. Perciò sarebbe necessario creare strutture sociali, o meccanismi disciplinari, che prevengano lo sviluppo del comportamento sessista e, nel caso in cui si sviluppasse, dovrebbero esserci meccanismi per affrontarlo.
In altre parole: anche la più perfetta comunità anarchica ha bisogno di essere disciplinata, qualsiasi altra soluzione implicherebbe la libertà di ciascuno di fare qualsiasi cosa, senza prestare attenzione a quanto una determinata azione possa essere oppressiva nei confronti degli altri. Perciò un conto è porre un’esigenza di «vero» radicalismo, proclamando che la non-identità è opportuna in quanto le identità sono oppressive e disciplinari (cosa che non è coerente nemmeno dal punto di vista teoretico); tutt’altra cosa è costruire spazi politici radicali che cercano di mettere in pratica quello che l’anarchismo e il post-strutturalismo sono realmente: critiche attive del potere e dell’oppressione.

Anarchismo, potere ed egemonia

Per illustrare questo punto, mi concentrerò su una pratica sempre più diffusa fra gli anarchici contemporanei: la strutturazione degli incontri politici in modo tale che le decisioni possano essere raggiunte solo attraverso il consenso. L’argomento a favore di questo modello organizzativo, il metodo del consenso (5) è abbastanza semplice: avendo respinto da molto tempo la democrazia rappresentativa in quanto oppressiva, alcuni anarchici hanno cominciato a criticare qualsiasi struttura che implicasse il voto, ritenendolo inaccettabile. Sostengono che il voto comporta necessariamente l’oppressione di una minoranza da parte di una maggioranza, e privilegia coloro che hanno i mezzi per creare una maggioranza, cioè coloro che hanno esperienza, capacità retoriche, ecc.
Di conseguenza, si era giunti alla conclusione che solo le decisioni consensuali erano legittime, perché in questo modo si sarebbe garantito che nessuno venisse oppresso.
Quali sono i presupposti alla base di questo modello organizzativo? Innanzitutto, l’idea che in assenza di strutture oppressive e di processi di oppressione, le persone tendono naturalmente al consenso; nell’eventualità in cui ciò non accadesse, una struttura in cui tutti sono liberi di esprimersi in maniera ottimale condurrebbe piuttosto al dissenso (e l’assunto diffuso tra gli anarchici è che l’impiego del metodo del consenso comporterà, quantomeno sul lungo corso, un’efficacia non inferiore del processo decisionale).
A sua volta, questo punto di vista può riposare solo sulla convinzione, comune a entrambi i filoni dell’anarchismo, che una volta rimosse tutte le strutture oppressive, potremo tutti incontrarci in pratiche di delibera libere dal potere, il che, poiché siamo essenzialmente uguali, condurrà necessariamente al consenso.
Il modello è quindi fondato sull’idea che sia possibile il non-potere e che sia possibile la condivisione di una essenza/identità umana «libera»: idee entrambe contestate più sopra. Come sottolinea Koch: dal momento che è possibile dimostrare come ogni affermazione che costituisce la base di un possibile consenso è in ultima analisi un’affermazione soggettiva priva di un qualsiasi valore assoluto, «la politica consensuale si riduce a un’espressione di potere» (Koch 1993: 345; si veda anche Laclau e Mouffe 2001: xviii). Lyotard si spinge fino a considerare ogni tentativo di superamento dell’intrinseca eterogeneità di opinioni e posizioni alla ricerca del consenso come «terrorista» (Lyotard 1984: 66).
Quali sono le conseguenze pratiche di tutto ciò? Quando è stato applicato, il metodo del consenso ha portato a uno spostamento del potere, dalle maggioranze che dominano le minoranze a gerarchie non elette di persone dotate di saperi, competenze, tempo, poteri.
Immaginate questo caso: viene convocato un incontro che mira al consenso. L’obiettivo è di concordare l’azione da intraprendere durante una manifestazione il giorno successivo. Dal momento che non ci sono strutture gerarchiche, ognuno è libero di dire quello che pensa. Durante la discussione che segue, a) quelli con il grado maggiore di conoscenza a proposito di manifestazioni domineranno; b) gli uomini (di solito) domineranno; c) quelli con più tempo a disposizione domineranno; d) quelli che sono più dediti alla questione domineranno, poiché gli altri non si prenderanno la briga di rimanere seduti per ore e ore. In definitiva, un gruppo di maschi, attivisti di lungo corso, probabilmente senza altri impegni pressanti, particolarmente dediti alla loro causa, faranno una proposta, e la metà circa di quelli ancora presenti si dirà d’accordo, e gli altri semplicemente non si preoccuperanno di palesare la propria opinione.
Vittoria per logoramento, potere di default; e un potere ancora più insidioso rispetto a quello dei gruppi strutturati, perché non può essere facilmente messo in discussione nel corso dell’incontro: dopotutto, almeno ufficialmente, non esiste (6). O come dice Max Weber: sostituire il voto a maggioranza con il consenso non significa abolire l’autorità; è una mera sostituzione del «legale-razionale», ovvero dell’autorità codificata e strutturata con l’autorità «carismatica» (popolarità) di alcuni individui (Weber 1964: 151, 159).

Tadzio Mueller

Note

  1. Per una critica, si veda ad esempio Bewes 1997, e per una ripresa positiva l’opera di Slavoj Zizek, in particolare Zizek 1989.
  2. Si confronti con Joll 1969: 17-39.
  3. Tutte le traduzioni da fonti non inglesi sono di Tadzio Mueller.
  4. Si confronti con l’idea di Newman che la maggior parte delle analisi post-strutturaliste «essenzializza» la differenza (Newman 2001: 119-124).
  5. Per un’introduzione alla questione si veda Graeber 2002.
  6. Questa critica rispecchia da vicino la classica critica dell’«assenza di struttura» emersa dal movimento femminista, che ha reintrodotto il modello organizzativo «anarchico» nell’attivismo occidentale (Freeman 1984).

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Anonymous2, «Give up Activism», Do or Die 9, 2000a, pp. 160-166.
Bewes, T., Cynicism and Postmodernity. Verso, London – New York, 1997.
Freeman, J. «The Tyranny of Structurelessness», in Anonymous10 (ed.) Untying the Knot: Feminism, Anarchism and Organisation, London: Dark Star & Rebel Press, 1989, pp. 5 -16 – Online http://www.jofreeman.com/joreen/tyranny.htm – http://www.jofreeman.com/joreen/tyranny.htm – http://www.jofreeman.com/joreen/tyranny.htm – http://www.jofreeman.com/joreen/tyranny.htm (ultimo accesso 12/8/02).
Graeber, D. «The New Anarchists», New Left Review 13, 2002, pp. 61-73. Laclau, E. e Mouffe, C., Hegemony and Socialist Strategy: Towards a Radical Democratic Politics, Verso, London, New York, 2001/1985.
Lyotard, J.-F., The Postmodern Condition: A Report on Knowledge, University of Minnesota Press, Minneapolis, 1984 (ed. or.: La Condition postmoderne: rapport sur le savoir, Minuit, Paris, 1979; ed. it. La Condizione Postmoderna: rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano, 2002).
Joll, J., The Anarchists, Methuen, London, 1969.
Koch, A., «Post-structuralism and the Epistemological Basis of Anarchism», Philosophy of the Social Sciences 23 (2), 1993, pp. 327-351.
Newman, S., From Bakunin to Lacan: Anti-Authoritarianism and the Dislocation of Power, Lexington Books, Lanham, Boulder, New York, Oxford, 2001.
Sloterdijk, P., Kritik der Zynischen Vernunft, Suhrkamp, Frankfurt, 1983. Weber, M., Soziologie, Weltgeschichtliche Analysen, Politik, Alfred Kroener Verlag, Stuttgart, 1964 (ed. it. Sociologia Politica, Edizioni di Comunità, Milano, 1980) Zizek, S., The sublime object of ideology. Verso, London – New York, 1989.

traduzione: Carlo Milani

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Andrea Staid
Non solo denuncia, anche lotta

È uscito da qualche mese, per le edizioni Porfido di Torino la traduzione di un piccolo e interessante saggio dal titolo, L’insurrezione che viene, Parigi 2007 (ediz. italiana, giugno 2010). Il libro, scritto dal comitato invisibile. fa un’attenta analisi dell’esistente, una critica forte al sistema del dominio capitalista. Scritto in modo chiaro e deciso è una buona lettura per chi è interessato ad una visione dell’anarchismo che non attende il giorno della rivoluzione…

Da ogni punto di vista, il presente è senza via d’uscita.
Virtù di non poco conto. Chi si ostina a sperare non trova alcun appiglio, mentre chi propone soluzioni si ritrova puntualmente smentito. Si dà ormai per scontato che le cose possano solo peggiorare. Sotto le apparenze di un’ostentata normalità, la nostra epoca ha raggiunto il livello di consapevolezza dei primi punk: «Il futuro non ha più avvenire».

Si tratta di un libro che fa piazza pulita dei consueti vaticini sulla fine della politica. Uno scritto attraversato da un voglia di prassi, che costantemente cerca di legare analisi a prospettive di azione. Diversamente da tanti altri, questo testo non si accontenta di eccellere nel radicale pessimismo, nel lucido disincanto; tenta, invece, di far tornare il conto della spesa della questione politica dal lato dell’azione: che fare oggi in questa situazione?
Ci dice chiaramente che oggi delle azioni sono possibili, delle azioni capaci di sospendere la temporalità del dominio infinito, delle azioni che facciano rivivere la figura di un conflitto nel cuore degli spazi pubblici, delle azioni «autonome» con cui ridare consistenza alle figure sacrificali della politica moderna: la comune, la sommossa, l’insurrezione.
È un libro che si pone il problema della forme possibili di resistenza all’insediamento, nelle pieghe della polizia democratica, di uno stato d’eccezione furtivo e permanente di cui la schedatura, la biometria, la telesorveglianza, la detenzione su misura, le leggi sulla sicurezza sono i diversi interpreti. Un libro che non teme di affermare che i nuovi dispositivi di governo dei viventi non devono essere semplicemente denunciati, ma attivamente combattuti.

Andrea Staid