rivista anarchica
anno 41 n. 362
maggio 2011


cultura

Tutto ciò che è male, è bene per i giovani
di Philippe Godard

Qualche riflessione sul futuro del libro, soprattutto per i giovani.

 

In tutto il mondo il libro è interessato dalla diffusione delle tecnologie digitali. In Francia, l’unico aspetto di cui si discute a fondo è quello dei diritti d’autore, perché il nostro paese è in prima fila nel combattere l’idra d’Oltreatlantico che procede a spron battuto alla digitalizzazione del nostro patrimonio scritto. Eppure le questioni riguardanti il libro digitale e la remunerazione degli autori non sono così importanti… ma impugnarli con decisione permette di dimenticare di discutere dell’essenziale. Certo, nel mondo capitalista, sarebbe ridicolo ignorare che l’attività editoriale è un settore dell’economia (in caso contrario è militante), e che, in quanto tale, deve produrre profitto, e dunque che gli editori e gli autori devono poterne vivere. Tuttavia, non è certo che la situazione sia così drammatica per l’editoria cartacea da costringerci sin d’ora, come alcuni ci sollecitano a fare, ad abbandonarla al suo triste destino, buttare alle ortiche l’etica e buttarci sulla scialuppa di salvataggio digitale per tentare di salvarci la pelle.

Tecnologie di destra e di sinistra

La questione delle rivoluzioni tecnologiche che sconvolgono il modo di leggere, di fare cultura o di imparare non è nuova, il che però non giustifica la politica dello struzzo. Poniamoci dunque la domanda fondamentale per il futuro: la frattura digitale non è prima di tutto una frattura generazionale? E a che livello deve essere analizzata per pensare l’evoluzione della cultura del libro? I figli non leggono più come i loro genitori; non riempiono le loro giornate nello stesso modo di questi ultimi, perché, come dimostrano tutti gli studi, in tutto il mondo sono inchiodati ai loro monitor. Hannah Arendt, in La crisi della cultura, poneva già tale rottura tra generazioni in un modo inatteso e che spesso abbiamo dimenticato. Sostiene Arendt che il bambino ha bisogno di essere protetto per “evitare che il mondo possa distruggerlo. Ma anche questo mondo ha bisogno di una protezione che gli impedisca di essere devastato e distrutto dall’ondata dei nuovi venuti, che dilaga su di lui a ogni nuova generazione” (in La crisi dell’educazione).
Mentre le nuove tecnologie, velocemente assimilate dalle giovani generazioni di digital natives, sembrano minacciare gli adulti che non le padroneggiano, la tesi di Arendt può sfociare direttamente in una posizione politica conservatrice, caratterizzata da una tecnofobia reazionaria. Poiché tale posizione tecnofoba è semplice, se non addirittura semplicistica, non ci sorprende ritrovarla in aree politiche differenti, che vanno da alcuni settori dell’estrema sinistra, rappresentati per esempio da John Zerzan, cantore del “futuro primitivo”, fino a una parte della destra e dell’estrema destra pétainista, passando per pensatori quali Paul Virilio, il quale ostenta sempre una posizione nostalgica del mondo che ha preceduto il cybermondo, che ha ridotto il pianeta in modo tale da impedire qualsiasi avventura non tecnologica.
Una simile tecnofobia primaria la ritroviamo principalmente nella categoria demografica costituita dai “vecchi”, il che riveste una certa importanza: le persone anziane hanno ragione di lamentarsi di non capire più niente del mondo attuale e in particolare di Internet.
Teniamo a mente che le generazioni precedenti potevano ancora comunicare tra loro, perché le evoluzioni tecnologiche non si succedevano a un ritmo così sfrenato. Ai giorni nostri, se dei nonni vogliono comunicare con i nipoti, dispongono di un’unica soluzione: il computer. È finita l’era delle lettere scritte a mano! Non solo, è anche necessario possedere software compatibili, perché ormai la corsa folle del capitalismo globalizzato condanna intere generazioni di computer, come di veicoli a motore o elettrodomestici, a una obsolescenza quasi istantanea. Come sosteneva Gunther Anders fin dal 1956 in un testo che fornisce numerose chiavi per comprendere il nostro presente, stiamo assistendo alla obsolescenza dell’uomo.
I tecnofobi reazionari hanno ragione almeno su un punto, che nessuno può contestare: il rinnovamento rapidissimo delle tecnologie ha portato in pochi anni alla famosa frattura digitale. L’Unesco se ne preoccupava già nel suo rapporto sulle società di condivisione del sapere pubblicato nel 2005: non si tratta dei tempi di Matusalemme, eppure, cinque anni dopo, abbiamo già dimenticato questo dato essenziale. Ebbene, la frattura digitale, invece di ridursi, aumenta, non soltanto tra paesi fortemente connessi e paesi poco o per nulla connessi, ma anche, all’interno di tutti i paesi, tra individui connessi e individui non connessi. Che lo si voglia o no, e poco importa che soltanto i reazionari difendano questa posizione, tale rapida obsolescenza delle tecnologie consacrate dalle nostre norme sociali porta al fatto che certi individui o interi gruppi sociali non riescano più a seguire il ritmo. Da cui deriva una divisione sociale reale tra classi di età, tra connessi e non connessi, che può sfociare a una dissoluzione della società, cosa che forse già sta accadendo.
Le riflessioni che seguono si pongono da un punto di vista diverso da quello dei tecnofobi conservatori, eppure non entrano in contraddizione con le critiche formulate da Arendt, Anders o da Lewis Mumford in The Myth of the Machine, tradotto in italiano con il titolo Il mito della macchina, il Saggiatore, Milano 1969.
E, per citare un autore assai più recente, da Nicholas Carr in The Shallows. What the Internet Is Doing to Our Brains, pubblicato nel 2010 (titolo che possiamo tradurre con “La superficialità. Ciò che Internet fa ai nostri cervelli”). Tali critiche attaccano la tecnologia in nome di un processo di emancipazione dell’umanità, e non in nome di un passato idealizzato.

McLuhan: il ritorno

Molte cose sono criticabili su Internet: la schedatura generalizzata delle e-mail e dei blog da parte degli Stati, le imprese commerciali e le reti sociali; la mancanza di affidabilità dei dati che ormai vengono pubblicati da chiunque; il fallimento del Web cosiddetto sociale, di cui gli internauti si sono impossessati soltanto per soddisfare il loro narcisismo esacerbato; il posto rilevante della pornografia, di cui avevamo già avuto un’idea nelle versioni precedenti… Criticare Internet è facile, troppo facile! Ciò consente di distogliere l’attenzione dalle forme precedenti di informazione e comunicazione, che forse potrebbero essere, anche loro, oggetto di critica?
Proprio così: l’editoria cartacea, che in qualche modo rappresenta il vecchio mondo di fronte all’irruzione delle nuove generazioni di cui parla Arendt, non ha subito una corretta evoluzione. In primo luogo perché l’editoria non ha previsto appieno ciò che stava succedendo. È vero, peraltro, che si tratta di un fenomeno piuttosto nuovo in questo settore: la concorrenza non proviene da un altro medium, nel senso di un diverso sistema di diffusione delle stesse informazioni. Dopo tutto, la radio e la televisione diffondono testi o divertimento, i cui contenuti imitano più o meno quelli pubblicati su carta. Con Internet, si tratta di strumenti tecnologici che attaccano i vecchi media: tutti, non soltanto il libro, ma anche la radio e la televisione sono minacciati –, e il ruolo del contenuto al fine del successo riscosso è assai meno determinante rispetto alla radio o alla televisione.
Ciò che propone Internet non ha più niente a che vedere con tutti quei media polverosi. Eppure è divertente e stupefacente il fatto che i tecnofili entusiasti ripetano all’infinito il loro ritornello in tutti gli articoli, gli studi, le trasmissioni e persino nei libri (il colmo!): la cultura di Internet sta già sostituendo quella del libro, ma hanno bisogno del libro, della radio e della televisione per farcelo sapere!
Sono quindici anni che era prevedibile e annunciato quello che sta accadendo oggi! In realtà, purtroppo, verifichiamo di nuovo la validità dell’intuizione di McLuhan: il mezzo è il messaggio. E la verifichiamo nel peggiore dei modi.
Una delle sfide fondamentali poste dal digitale al libro nell’ambito delle scienze umane e dei saggi per i giovani o ancora delle enciclopedie (ma queste sono quasi tutte scomparse), è l’accelerazione del tempo. Il tempo di Internet, che è dell’ordine dell’istantaneità, comporta una obsolescenza molto veloce dei dati informativi. Per questo, l’opera cartacea è in qualche modo superata prima di essere stampata… È deprimente, anche se questo non è vero per una grande parte delle documentazioni, o non è mai vero, ma tale reattività, questo culto dell’istantaneità è un vantaggio sostanziale di siti quali Wikipedia. Dobbiamo dunque condurre una lotta intorno alla affidabilità dei dati, di cui Wikipedia non è l’esempio migliore… Per distruggere il mito del cervello collettivo portato avanti da questa enciclopedia, sarà necessario una grande sforzo, che farà sì che le quotazioni dell’editoria classica risalgano. Il Web non è affidabile, ma lo preferiamo alle opere cartacee perché l’istantaneità e la reattività, e non l’affidabilità, ci appaiono come i veri valori del nostro mondo. Ora conoscere non significa più capire, analizzare, prendersi il tempo di riflettere; significa sapere che cosa succede in quel momento o leggere un digest dell’ultima opera di moda. O meglio, conoscere non è neppure più questo…
L’istantaneità non è l’unico bonus regalato dalla cultura digitale. La sua altra straordinaria prerogativa è l’inaudita accumulazione, grazie a quello strumento prodigioso che è il motore di ricerca, di informazioni (vere e false), che si accumulano le une sulle altre a un ritmo vertiginoso. Se il libro di scienze umane o l’opera documentaria per i giovani sono minacciati, non è tanto a causa del loro contenuto quando della infinita estensione delle pagine Web, messe a nostra disposizione dal loro concorrente diretto il quale, ancora una volta, non è un sito o una megabase di dati, ma un insieme di strumenti: l’architettura del Web e i motori di ricerca. Dunque, in ultima analisi, conoscere diventa l’equivalente di sapere dove trovare ciò che si cerca…
È soprattutto qui che McLuhan era visionario. Gli esperimenti più seri, condotti dal 1989 (!) dai seguaci di Internet principalmente nelle università americane, dimostrano che la navigazione su Internet e la lettura su monitor, con i suoi collegamenti intertestuali e i suoi contenuti multimediali, non mettono in funzione le stesse zone del cervello della lettura “tranquilla” su carta. Ebbene, la lettura su carta propizia molto di più la memoria e la comprensione della lettura su monitor. Quest’ultima, più o meno spesso disturbata da elementi esterni a ciò che si sta leggendo, è meno concentrata, più caotica, al punto, sostengono gli scienziati, da disturbare notevolmente la comprensione e la memorizzazione e, se si ha una frequentazione quotidiana del monitor, persino la capacità dell’utente a concentrarsi, come spiega l’ottimo lavoro di Carr. Come afferma un vicepresidente di HarperStudio, “gli e-books non sono semplicemente dei libri stampati elettronicamente. Dobbiamo approfittare del mezzo e creare qualcosa di dinamico, che migliori l’esperienza. Voglio connessioni, e dietro le scene, dei bonus e della narrazione e dei video e della conversazione”. Quello che conta non è il messaggio, per questi venditori di tablets e lettori; importa soltanto il contenitore, il mezzo.
Questo è fondamentale per tutto ciò che riguarda la pedagogia, e implica che i manuali scolastici digitali, che forniscono tutto un ambiente cosiddetto “interattivo”, sono tutti cattivi. Il mezzo è proprio il messaggio: ci condiziona a ricevere soltanto un certo tipo di informazioni, poco importano i contenuti, perché non potremo più collegarli veramente gli uni agli altri, costruire ragionamenti autonomi né potremo pensarci come animali sociali che interagiscono gli uni con gli altri. Questo è il luogo esatto della frattura digitale – l’altra frattura digitale, quella della densità delle connessioni, non ne è che il pallido riflesso: essa indica le società nelle quali i rapporti tra gli esseri umani sono maggiormente mediatizzati tramite le immagini, e queste società così altamente reificate sono anche quelle che si definiscono le più sviluppate. Ciò sottintende una interessante contraddizione in questo mondo, in cui i “ragionatori” non usciranno più dal mondo tecnologico avanzato… Chi avrà la meglio: la tecnologia o la ragione? La lotta è solo all’inizio.

Esiste ancora un posto per l’essere umano?

Internet si presenta come uno straordinario accumulo di informazioni differenti, personali, associative, giornalistiche o politiche, enciclopediche o teoriche, tutte accessibili sul Web – salvo in ogni caso il fatto che il “Web degli esperti” resta il Web profondo, il deep Web degli anglosassoni, Web “invisibile” come diciamo noi, irraggiungibile dai motori di ricerca. Questo accumulo di informazioni non equivale a quella che comunemente chiamiamo conoscenza, il cui scopo è l’emancipazione degli individui. La rete favorisce l’accumulo, ma non la costruzione di una conoscenza critica. Siamo le pedine di un Trivial Pursuit.
Una simile facilità di stoccaggio e di accesso ha una conseguenza fondamentale: il ruolo del cervello umano è modificato dalla tecnologia digitale; la memoria diventa informatica e rischia di diventare soltanto una questione di neuroni e sinapsi. Qual è il posto della macchina rispetto all’uomo? Tale questione etica, che non discuteremo qui, porta a un dilemma politico: dove sarà collocata la libertà in una società che si informerà e comunicherà soltanto tramite Internet?
Sul piano quantitativo, su quello della velocità di esecuzione, l’essere umano non può competere con le macchine informatiche. Da cui deriva un nuovo problema, questa volta editoriale: di fronte alla concorrenza dell’istantaneità, il ruolo del libro non può più essere quello di fornire i dati più recenti e più numerosi di quelli di Internet, perché la battaglia è perduta in anticipo. Può però fornirne di maggiormente affidabili. Certo, ma chi sarà in grado di riconoscere l’affidabilità in una società che, come abbiamo visto, privilegia altri criteri? La domanda esige una risposta realistica.
Quanto ai libri per i giovani, e in particolare ai libri di documentazione, il loro ruolo non si è mai limitato, nelle buone case editrici, a fornire informazioni affidabili. I libri per i giovani sono soprattutto volti a far riflettere il lettore, a dargli gli strumenti della sua libertà. Ed è proprio quello che Internet non fornisce, o fornisce in un modo assai meno accessibile del libro. Internet, i blog, i forum sociali e persino le enciclopedie forniscono soprattutto strumenti per consumare, per accettare il mondo così com’è. Naturalmente su Internet si possono anche trovare informazioni scomode e riflessioni sovversive, ma sono annegate in un guazzabuglio di dati affiorati dalle profondità grazie al loro page rank favorevole, il che non ha niente a che vedere con la qualità e l’affidabilità. Inoltre, una gran parte dei siti più interessanti fa parte del Web invisibile.

Un nuovo ruolo dell’editoria per i giovani?

Ciò nonostante la società digitale non costituisce una rottura nell’evoluzione verso un individualismo timoroso e aggressivo; si colloca piuttosto nella continuità di un processo radicato nelle società contemporanee: individualizzazione e disintegrazione sociale. L’idea di emancipazione e le opere dedicate a diffonderla sono in diminuzione o in via d’estinzione. Ma questo non disturba nessuno: la condizione di violenza latente delle nostre società si accontenta del coprifuoco autoimposto, dovuto a Internet e alla televisione. Tutti a casa dalle otto di sera all’alba! In quelle ore tutto il potere è degli schermi!
Verifichiamo la giustezza di una delle tesi marxiste più celebri: la cultura dominante è la cultura della classe dominante. Che possiamo completare così: oggi gli strumenti culturali digitali proposti dalla classe dominante sono strumenti di dominio. Lo dimostrano la frattura digitale o la qualità del Web a pagamento rispetto al Web sociale.
Tutto ciò che è cattivo, è buono per i giovani! Sono i giovani che rimpinziamo di cibi avvelenati, troppo dolci, troppo grassi, troppo salati. Sono loro che vivono al centro dei monitor, i monitor del loro cellulare, del computer, dei videogiochi e della televisione, la quale non è neppure più familiare, perché la famiglia è diventata un albergo, con televisori in tutte le stanze. Sono ancora i giovani ai quali qualche cattivo editore, appassionato di vecchiume e primitivi dizionari, pretende di vendere la sua misera produzione. Ed ecco che viene annunciato l’arrivo dell’e-book!
La cultura dei monitor, si dirà, non è una catastrofe: Quel che è certo è che l’umanità ha vissuto drammi ben peggiori, e in periodi ancora molto recenti. Tuttavia è una forma di cultura che è attaccata per il fatto di essere sostituita soltanto dal vuoto, e anche peggio del vuoto: una brodaglia antiemancipazione. E sono i nostri figli a esserne colpiti. Come suggeriva Arendt, il mondo si protegge: ma abbrutendo le nuove generazioni, e ciò non era mai accaduto prima a un simile livello, se non nei totalitarismi. La democrazia, nell’era globale, sta cambiando rotta, proprio mentre sembra del tutto incapace di gestire i complessi problemi planetari che sta creando?
Come afferma Marianne Wolf, docente universitaria statunitense che studia le modalità di lettura, “Non siamo soltanto quello che leggiamo. Siamo come leggiamo”. In questo campo, gli editori specializzati in testi per i giovani hanno un ruolo importante da svolgere, con gli altri attori coinvolti nella catena del libro: autori, librai e mediatori di tutti i tipi (esclusi i distributori che si preoccupano soltanto dei loro introiti, e poiché il contenuto è meno importante del contenitori, per loro l’apparenza è determinante).
Le élite “oggettive”, che spingono i propri figli a studiare, che dunque sono in primo luogo i docenti (la metà degli studenti del Politecnico hanno almeno un genitore professore!) e tutti gli adulti preoccupati per l’avvenire, continueranno a interessarsi del cartaceo, tanto più che, come dimostrano i neurologi, la carta non mette in funzione le stesse zone del cervello del monitor. Ora, le zone “carta” del cervello sono anche le zone che, se sono usate tutti i giorni, garantiscono quasi sempre una condizione sociale propizia. Tutto ciò che permette ai giovani di formarsi un’opinione critica su questo mondo partecipa alla lotta per l’emancipazione dell’umanità. Naturalmente i testi documentari per la gioventù sono soltanto una piccolissima parte di questo terreno di lotte, ma non abbiamo il diritto di abbandonarlo.
Dunque facciamo libri per questa élite? Oggi la risposta è sì. Anche se ciò è molto seccante, la situazione attuale si riassume in: tutto ciò che è cattivo, è buono per i giovani, a eccezione, naturalmente, dell’élite, che si rende conto di questo immenso sperpero umano e ne trae profitto. Una soluzione è scrivere, pubblicare e proporre libri che suscitino il dubbio nei giovani che ancora leggono e che non inducano in loro il desiderio di diventare l’élite oppressiva, ma di partecipare alle lotte per l’emancipazione. L’idea non è nuova. Poco importa: in una situazione come la nostra è uno dei rari strumenti per riprendere l’offensiva contro un sistema che ci soffoca e che non vogliamo salvare.

Philippe Godard

(traduzione dal francese di Luisa Cortese)