rivista anarchica
anno 41 n. 362
maggio 2011


Libia

Guerra e petrolio
di Stefano Capello

Alcune riflessioni sulle recenti vicende nel Paese nord-africano.

 

Gli avvenimenti libici di quest’ultima settimana devono essere giudicati con la massima profondità possibile, anche tenendo conto delle difficoltà che abbiamo a dare un’identità politica e sociale leggibile agli insorti di Bengasi e Misurata. L’insurrezione libica sembra essere allo stesso tempo qualcosa di molto diverso dalla dinamica sociale innescatasi in Tunisia ed Egitto, e un evento leggibile solo ala luce di questi ultimi.
La Libia è un paese scarsamente abitato con poco più di sei milioni di abitanti; allo stesso tempo è fortemente scolarizzato e urbanizzato. Tripoli da solo assomma a circa il 22% della popolazione complessiva del paese. Le forti rendite petrolifere hanno permesso alla quarantennale dittatura di Muammar Gheddafi di effettuare una discreta distribuzione del reddito all’interno del paese e di scolarizzare una popolazione sostanzialmente analfabeta. La dipendenza del suo potere dal sistema delle cabile, meccanismo tribale allargato e plurifamiliare, e la mancata integrazione delle élite cirenaiche hanno determinato una costante divisione del paese e uno scontento regionale verso il blocco di potere che negli anni non è mai venuto meno. D’altra parte bisogna ricordare come al tempo della colonizzazione italiana l’opposizione armata alle truppe tricolori venisse esclusivamente dalle confraternite cirenaiche che nel dopoguerra espressero il primo capo di stato della Libia indipendente: il Re Idriss. Il golpe con cui Gheddafi prese il potere nel 1969 è interpretabile –dal punto di vista interno- come un colpo delle élite tripoline contro quelle cirenaiche.
L’insurrezione di febbraio ha visto protagonisti gli abitanti della Cirenaica come d’altronde le rivolte del 1996 e del 1978. Il coinvolgimento di altre città è avvenuto nei giorni seguenti alla liberazione di Bengasi, Tobruk e Derna e ha visto l’emergere di un insieme composito di oppositori anche nelle città della Tripolitania storicamente più fedeli al regime. La mia impressione è che l’allargamento a macchia d’olio della rivolta rispondesse più all’impressione di un “finale di partita” per il Colonnello. L’inserirsi nella rivolta di nuclei estranei al milieu cirenaico avrebbe risposto in questa interpretazione alla necessità per questi ultimi di entrare nella partita prima del cambio di regime.
L’imprevista capacità di reazione di Gheddafi, basata sull’afflusso di mercenari, sui nuclei speciali dell’esercito e sulla sostanziale mancanza di armi moderne da parte degli insorti, ha scombinato le carte del gioco. È evidente, a questo punto, che le forze che avevano aderito in seconda battuta all’insurrezione si sono sfilate e, forse, sono anche state ricomprate da Gheddafi e dal suo regime.

Penetrazione a stelle a strisce

La direzione dell’insurrezione è tornata in modo chiaro in mani cirenaiche ed è diventato un po’ più chiaro quali siano le figure che la dirigono: esponenti delle professioni e dell’esercito, una sorta di piccola borghesia statale emarginata dal potere centrale.
L’insurrezione si è trasformata in modo evidente in una guerra civile. A questo sbocco ha contribuito la peculiare situazione sociale libico che vede la working class locale costituita sostanzialmente da emigrati provenienti da paesi come l’Egitto, il Bangladesh, e da lavoratori esteri indiani e cinesi al seguito delle molte commesse ottenute in Libia dalle imprese dei paesi asiatici.
L’interesse dei gruppi sociali locali consiste sostanzialmente nel posizionarsi nel sistema di clientela interno il più vicino possibile al potere politico, dal momento che quest’ultimo è l’unico centro in grado di dirigere il flusso di ricchezza che arriva in Libia dall’estero.
Lo scontro sociale nel paese tende a coincidere con quello per il potere e il rischio della sconfitta è quello di restare completamente esclusi dalla distribuzione del reddito. Tradimenti e capovlgimenti di fronte in una situazione come questa sono quindi all’ordine del giorno.
La ricchezza gas petrolifera della Libia è anche il motivo dell’interesse particolare e della cura speciale che gli USA e i loro alleati europei hanno deciso di prescrivere allo sfortunato paese africano. La Libia in questi anni è stata una riserva di caccia italiana, a partire dall’azione svolta dai governi Andreotti e Craxi che, a rischio di conflitti con le amministrazioni americane, aprirono alle imprese energetiche italiane –allora pubbliche- la strada per insediarsi nel paese. I rapporti al limite del ridicolo ostentati da Berlusconi con il Colonnello di Tripoli sono la versione pagliaccesca di una politica antica dei governi italiani. L’atteggiamento dell’attuale governo, fedele fino all’ultimo all’uomo forte di Tripoli, è lo specchio della difesa degli interessi del capitale nazionale nell’area.
L’interesse mostrato dagli americani per il change in libia è invece funzionale alla penetrazione a stelle e strisce all’interno dell’ultimo cortile di casa europeo, il Mediterraneo. Penetrazione finalizzata al contrasto dell’operazione cinese di annessione delle ricchezze africane. La guerra d’Africa tra Usa e Cina necessita la sparizione dei cortili di casa e delle rendite di posizione costituite nel tempo dai paesi europei. In questi anni la Francia è in ritirata in tutta la vecchia Francafrique e la meschina figura rimediata in tunisia con l’appoggio fino alla fine al tiranno Ben Alì non aiuta certo il prestigio di Parigi. La Gran Bretagna da anni opera in modo esclusivo a ruota di Washington facilitata in questo dalla rinuncia a mantenere una sua industria. La Gran Bretagna è oggi sostanzialmente una piattaforma per operazioni finanziarie nelle quali il capitale inglese gioca da sostegno di quello americano.
Il disperato tentativo di Sarkozy finalizzato a recuperare a spese dei cugini italiani prestigio e spazi di influenza è stato immediatamente frustrato dal deciso intervento americano per recuperare anche formalmente la guida dell’operazione. Resta da vedere se questo mutamento di guida porterà agli italiani il vantaggio sperato nella futura riorganizzazione della Libia, quale che essa sia. I ridicoli litigi di cortile tra francesi ed italiani probabilmente preludono all’espulsione di entrambi dallo scenario mediterraneo e alla loro sostituzione con l’intervento diretto americano.

Come “pilotare” una rivoluzione

In quanto al legame tra insurrezione libica e interventismo occidentale il nodo mi sembra da porre sui tempi del secondo rispetto al primo; solo venti giorni fa l’istituzione di una no-fly zone avrebbe probabilemnte ottenuto il risultato di sostenere realmente la rivolta e costringere Gheddafi alla fuga. Oggi l’intervento diretto ha come conseguenza quella di evitare la disfatta degli insorti. Il favorirne la vittoria, o comunque il ridimensionamento del potere tripolino ha come finalità quella di far nascere un futuro governo non dotato di autonomia ma dipendente dall’occidente e nello specifico dagli USA. Diverso sarebbe stato con un’insurrezione vincente venti giorni fa capace di arrivare a Tripoli sulle sue gambe e non sugli aerei della NATO.
In questo modo chiunque governerà a Tripoli non potrà che essere un governante a sovranità limitata.
Il ritardo nell’intervento e il suo allargamento da una no-fly zone a un intervento bellico diretto sono funzionali a questo progetto e hanno lo stesso significato che hanno avuto in Tunisia ed Egitto il sostegno al ruolo dell’esercito e l’allontanamento dei vecchi vassalli caduti in disgrazia.
Le rivoluzioni, quando non possono essere soffocate nel sangue con pochi rischi, si controllano e si indirizzano. Questa mi sembra essere la tutt’altro che rozza dottrina che la nuova amministrazione USA – in questo sicuramente discontinua con quella precedente e molto più raffinata di quest’ultima – stia applicando in Nord Africa; alla faccia di chi li dava già per morti...

Stefano Capello