rivista anarchica
anno 41 n. 361
aprile 2011


cinema

Le immagini di Watkins (contro il potere)
di Stefano Casi

È uno dei principali esponenti del “cinema politico”: ha vinto anche un Oscar, ma non è un caso che in Italia sia poco noto. Ecco la sua vita e le sue opere principali. E il testo di una sua conferenza.

Peter Watkins

Se si parla di cinema politico, Peter Watkins ne è forse il rappresentante più lucido e coerente, cioè colui che non solo ha affrontato di petto questioni «urgenti» dell’agenda politica (la guerra, il nucleare, il potere, il ruolo dei media nella creazione del consenso), ma lo ha fatto forzando i codici stessi della cinematografia, prima inventando generi che in seguito sono diventati di successo come il docu-drama e il mockumentary, poi criticando sia con i film che con le sue riflessioni teoriche l’intera industria dei mass-media. È forse strano che un intellettuale come questo, tra l’altro vincitore di un premio Oscar, sia tenuto ben lontano dall’Italia? A parte la sporadica distribuzione in pellicola di due soli suoi film, un ciclo monografico in tv nell’estate 1980 (in prima serata su Rai 1: davvero altri tempi!), e un libro uscito due anni fa sulle sue analisi massmediologico-politiche (La scomparsa dell’orologio universale di German A. Duarte), Watkins rimane nel nostro paese uno sconosciuto. Ma, forse mai come in questi ultimi anni in cui il rapporto tra i media e il potere ha mostrato in Italia il suo volto più feroce, le riflessioni di Watkins sono importanti, così come sarebbe finalmente utile far circolare i suoi film, vero e proprio mosaico non solo libertario o di denuncia, ma potentemente e frontalmente nemico di ogni sistema di potere.
Nato nel 1935 in Inghilterra, Peter Watkins ha compiuto già nella sua opera prima del 1964, Culloden, un balzo da gigante: una fiction televisiva commissionata dalla Bbc, che doveva rievocare l’ultimo scontro campale combattuto in territorio britannico nel 1746. Watkins strappa Culloden dalla memoria ammuffita delle pagine di storia, «inventando» il docu-drama: cioè inserisce la ricostruzione dell’evento storico in una cornice da servizio giornalistico televisivo. Con la telecamera sempre in spalla, che si muove freneticamente sul campo di battaglia, tra interviste «in presa diretta» a ufficiali, soldati e poveri contadini del ’700 (tutti attori non professionisti, caratteristica costante in tutti i suoi film), e corse per sfuggire ai colpi di fucile o di cannone, Watkins fa entrare lo spettatore nell’evento come se l’atrocità della battaglia stesse accadendo in quel momento e non due secoli prima. Di colpo, Culloden crea un sorprendente corto circuito con le immagini della guerra in Vietnam che entravano in quei mesi nelle case degli inglesi attraverso la tv; di colpo, i morti scozzesi del ‘700 hanno il volto spaurito dei contadini vietnamiti; di colpo, il film annulla decenni di ricostruzioni di battaglie per presentare una cosa nuova: la guerra nel suo farsi in quel preciso istante, sotto gli occhi di un telereporter che schiva le pallottole e intervista i soldati terrorizzati; di colpo, l’assurdità di quella guerra diventa quella di tutte le guerre, e la «responsabilità» ricade direttamente sullo spettatore che sta guardando.
L’anno successivo Watkins alza il tiro, sia sui contenuti, sia sulla tecnica. Non più docu-drama, The War Game, sempre commissionato dalla Bbc, apre la strada al mockumentary, il falso documentario. Il regista immagina un bombardamento nucleare sull’Inghilterra da parte sovietica, e lo descrive sempre nel suo stile telegiornalistico, con telecamera a spalla e interviste. Il film è sconvolgente e il governo ne blocca la messa in onda, primo episodio di una lunga storia di bandi e censure patite ovunque da Watkins: troppo pericoloso far riflettere gli spettatori sulla corsa agli armamenti; troppo imbarazzante sentire dichiarazioni vere e dati esatti riferiti incongruamente sotto le esplosioni; troppo estreme le descrizioni del collasso della società, con le radiazioni, la distruzione di ogni infrastruttura e la polizia che spara sulla popolazione per contenere i disordini. Nonostante la vincita del premio Oscar nella categoria (con mossa involontariamente ancor più politica) dei «documentari» e nonostante l’ampia diffusione (divenne un cult nei campus americani in rivolta di quel periodo e inaugurò il culto della «camera a spalla»), The War Game fu bandito dalla tv inglese per ben vent’anni, e nel nostro paese arrivò solo nel 1984 grazie all’Arci, con il titolo War Time.
La goccia che fece traboccare il vaso delle relazioni tra Watkins e l’Inghilterra, e che fece abbandonare per sempre al regista il suo paese, fu il primo film pensato direttamente per il cinema: Privilege (1966), l’unico altro lavoro di Watkins distribuito in Italia. Qui il tema si sposta sugli intrecci tra il potere e la sempre più dilagante cultura pop giovanile, che proprio l’Inghilterra aveva rilanciato con i Beatles e l’affermarsi di subculture trendy dai mods ai rockers. Protagonista del film è un cantante «ribelle», blandito e infine risucchiato dai poteri forti: non solo quello politico, ma anche quello religioso ed economico. Così la pop star (impersonata da un vero cantante, Paul Jones) si ritrova a essere un semplice burattino nelle mani di chi vuole convogliare le masse di giovani attraverso un finto ribellismo verso il consenso e l’omologazione.

La Commune

La faccia grottesca del potere

Nel 1969 Watkins realizza in Svezia I gladiatori, una delle allegorie cinematografiche più amare sulla guerra. In questa utopia fantascientifica, il mondo è pacificato e convoglia l’aggressività in olimpiadi belliche: capi di stato e generali si riuniscono in una sala comandi, disponendo le truppe (vere in veri campi di battaglia) a mo’ di risiko e guidandole a distanza. Loro, i potenti, al caldo e a farsi i complimenti per le «mosse»; gli altri, i «gladiatori», in trincea, a morire. La guerra, con stretto riferimento all’attualità del Vietnam, è un bersaglio ossessivo su cui Watkins ritorna approdando proprio negli Usa, dove nel 1970 realizza l’impressionante Punishment park. Nel film, i pacifisti americani vengono confinati in un campo in pieno deserto e sottoposti a un processo farsa al termine del quale sono invitati a un gioco: scappare nel deserto verso la libertà, ma inseguiti dai soldati che potranno ucciderli. Caccia mortale al pacifista, insomma, che è la faccia grottesca dello stato di emergenza instaurato da Nixon per fronteggiare la contestazione interna. Immaginabili le reazioni dell’establishment di fronte a questo film in cui i meccanismi del cinema-verità e del finto documentario piombano dentro un’allegoria che sferra un durissimo atto d’accusa alla repressione della libertà.
Tornato in Svezia, Watkins firma Edvard Munch (1973), film biografico sul pittore. Apparentemente lontano dai suoi temi abituali, permette al regista non solo di intessere una fitta corrispondenza con l’attualità, ma anche di sperimentare nuovi modelli creativi: molti dialoghi, infatti, sono improvvisati dagli attori (sempre non professionisti). L’esperimento sarà replicato più avanti con una biografia di Strindberg, ancor più radicale nelle modalità creative, dal titolo The Freethinker (1994) e dall’ormai quasi consueto esito di film bandito dalle televisioni.
Dopo una pellicola indirizzata all’analisi della società contemporanea (The Seventies People del 1974 sui suicidi tra i giovani danesi), il nuovo bersaglio è l’energia nucleare, con Un paese al tramonto (1976), uno dei lavori più estremi e spietati di Watkins. Nel film si immagina che gli operai dei cantieri di Copenaghen scendano in sciopero bloccando la costruzione di un sottomarino destinato a portare missili atomici. Lo sciopero, la repressione della polizia, le ambiguità del potere, i gruppi terroristici che sequestrano i leader politici: un crescendo di stimoli davvero impressionante e «disturbante», ben sintetizzato da quel che scrisse un critico: «Quando imparerà Watkins a smettere di spaventare il pubblico?». Il film raccolse un coro quasi unanime di attacchi, dalla stampa conservatrice come da quella di sinistra che accusava il regista di parteggiare per i terroristi anziché per gli operai. Inutile accennare al fatto che un progetto attivato con la Rai subito dopo, nel 1977, per un film su Marinetti fu immediatamente abortito.

I gladiatori

Per una visione “partecipata”

Il progetto successivo, The Journey (1986), è clamoroso, e non solo per la durata del film (14 ore e mezzo). Si tratta del primo film «globale», girato in molte parti del mondo tra Europa, America e Australia, di denuncia della guerra e degli armamenti nucleari, e soprattutto del ruolo dei mass media nella falsificazione e manipolazione delle informazioni: film rigorosamente indipendente, visto che ogni domanda di produzione fu respinta ad ogni latitudine, e sostanzialmente anarchico nella concezione della realizzazione a cui collaborarono attivamente decine di persone in una modalità di creazione collettiva diffusa. Scopo del film è dimostrare come in ogni paese la gente sia totalmente tenuta all’oscuro dei pericoli che minacciano la pace. È diventato dunque il sistema della comunicazione il vero obiettivo dell’attacco sferrato da Watkins: obiettivo che si concentrerà sempre più negli anni successivi e che avrà un nuovo importante esito nel suo film più recente, girato nel 1999. Si tratta di La Commune (Paris 1871) ovvero quasi 6 ore (ma girato in sole due settimane dove sorgevano i vecchi studi di Méliès) per raccontare un evento-chiave della storia europea, visto da Watkins come essenziale per affrontare la lettura del mondo occidentale contemporaneo. Da qui, la necessità di coinvolgere gli attori non professionisti nella preparazione del film, attraverso studi e ricerche che ciascuno di loro era stato chiamato a fare in proprio, anche improvvisando durante le riprese. Da questa esperienza nasce l’associazione Rebond che dal 2000, stante il sostanziale ennesimo boicottaggio di questo film sui canali di diffusione tradizionale, si occupa di promuovere proiezioni e modalità nuove e sperimentali di visione «partecipata» del film stesso.

La Commune

L’impegno maggiore di Watkins negli ultimi decenni è soprattutto teorico e pedagogico. Punto nevralgico della sua riflessione è la critica al sistema dei media individuati come manipolatori dell’informazione a favore di un sistema politico indirizzato al consolidamento del potere economico e al suo più importante mezzo di sostegno, la guerra. In particolare, molto del suo impegno è rivolto allo svelamento dei meccanismi di quella che ha definito la «monoforma», vero e proprio codice di omologazione del sistema mediatico, che ha portato alla crisi della comunicazione contemporanea. Punto chiave di questo concetto è lo sviluppo e l’affermazione di un’unica modalità dominante di «racconto», una forma-linguaggio ripetitiva, un vero e proprio format, nato con Hollywood e rilanciato a livello planetario dal doppio strumento cinematografico e televisivo americano. La monoforma schiaccia la possibilità di riflessione da parte dello spettatore, grazie all’uso di linee narrative predeterminate e ormai «previste» nella ricezione, cosa che consente a chi produce comunicazione di predeterminare anche il tipo di reazione da parte di chi guarda. Alternativa, se non vero e proprio antidoto al dilagare di queste forme di controllo del consenso, è la ricerca di modalità (cinematografiche e televisive) capaci di scardinare i meccanismi della monoforma che, d’altra parte, non ha nulla a che vedere con la buona volontà politica di chi produce audiovisivi. Non a caso, il regista inglese considera ascrivibili alla monoforma i suoi stessi film fino al 1976, cioè includendo proprio il suo titolo forse politicamente più sconvolgente, Un paese al tramonto. La sperimentazione di rottura della monoforma, nel tentativo di creare diverse dinamiche creative e di coinvolgimento politico «reale» di tutti, cercando di azzerare perfino i meccanismi di potere interni alla squadra di realizzazione del film, viene compiuta da Watkins solo a partire da The journey, cioè da quando il film da lui concepito risulta creato da un apporto di base da parte di molte persone, con una consapevolezza altrettanto diffusa e compartecipata. Fino a La Commune, per la quale si prevede addirittura una modalità innovativa di ricezione (e quindi di consapevolezza) da parte dello spettatore.
La complessità di questo lavoro, la difficoltà di distribuzione e la difficoltà stessa di attenzione che prova uno spettatore nella visione delle sue ultime opere dai tempi fluviali e dalla narrazione continuamente spiazzante, mostrano proprio come la nostra assuefazione di spettatori alla monoforma denunciata da Watkins sia arrivata quasi a un punto di non ritorno. La sfida è alta e anche se la ricerca di Watkins risulterà sempre marginale (come sembra esserlo il luogo nel quale è andato a vivere da anni, la Lituania) rispetto al mainstream dei mass-media, resta in tutti noi la forza di sapere che un altro tipo di cinema politico e di politica dei media è possibile.

Stefano Casi


La crisi dei mass-media

di Peter Watkins

In una conferenza tenuta un anno fa in Francia, il regista spiega la propria concezione dei mass-media. E come opporsi alla loro pervasività.

Fin dal tempo della messa al bando dalla Bbc nel 1966 del mio film The War Game (che parlava delle conseguenze dell’uso delle armi nucleari) mi sono occupato del crescente abbassamento di livello dei Mavm (Mass AudioVisual Media, mass media audiovisivi) e dello sviluppo di ciò che oggi chiamo «la crisi dei media». Tra gli elementi chiave di questa crisi: l’agenda pesantemente circoscritta dei Mavm, lo sviluppo forzato della cultura popolare mediatica, la standardizzazione della forma audiovisiva che si risolve nella creazione di una relazione col pubblico sempre più gerarchica e manipolatoria, e i sistemi educativi largamente sottomessi a questo sistema.
A metà degli anni ’70 ho tenuto due corsi estivi presso James Shenton alla Columbia University di New York, nei quali abbiamo analizzato una serie di programmi americani di notizie. Da qui è emersa la mia consapevolezza di ciò che chiamo Monoforma, di cui ho scritto ampiamente per oltre 30 anni.
La nostra ricerca alla Columbia ha rivelato lo sviluppo di una forma-linguaggio televisiva formattata e ripetitiva, costituita di immagini montate rapidamente e frammentate, accompagnate da un denso bombardamento di suono, tutto tenuto insieme dalla struttura narrativa classica. Sebbene questa forma-linguaggio sia stata concepita originariamente da Hollywood, è stato inquietante scoprire il suo uso comune attraverso pressoché tutta la programmazione televisiva contemporanea, dalle soap-opera alle trasmissioni giornalistiche. Questa standardizzazione – e le logiche che le stanno dietro – è peggiorata nelle ultime decadi, e ora abbraccia virtualmente tutte le forme d’uso del cinema e della tv professionale, inclusa la tv-verità, le trasmissioni sportive, la maggior parte dei documentari, ecc.
Per la sua estrema rapidità (specialmente la versione sviluppata negli ultimi 20 anni), la Monoforma non dà tempo all’interazione, alla riflessione o agli interrogativi. La densa stratificazione del suono e la mancanza di silenzio (eccetto per scopi manipolatori) sono ostili alla riflessione. Le immagini rapidamente montate sono come piccole carrozze ferroviarie, e i binari corrono sulla struttura narrativa monolineare così come originariamente sviluppata da Hollywood e tracciata per muovere la storia (il messaggio) su una linea predeterminata (dai produttori, non dal pubblico), salendo e scendendo tra punti d’impatto fino al climax finale e alla conclusione.

The War Game

Agenda conservatrice

Questa Monoforma è disegnata per intrappolare: per catturare e mantenere l’attenzione del pubblico su prolungati periodi di tempo. È organizzata per crear risposte predeterminate, il che significa che prima ancora che il pubblico veda qualsiasi film o programma tv della Monoforma, i produttori sanno già come il pubblico reagirà; o almeno questa è l’intenzione. Non è permessa alcuna reazione del pubblico che possa essere differente da quella anticipata e confezionata.
I media, e probabilmente molti studiosi dei media, potrebbero sostenere che l’uso della Monoforma in questo modo sia una pratica largamente accettata. Ma accettata da chi? Chi l’ha discussa? E cosa sappiamo del suo impatto?
Data l’assoluta ampiezza e universalità della crisi dei media (i suoi effetti sullo sviluppo creativo e pluralistico di cinema e tv da una parte, le sue nocive conseguenze sociali, politiche e umane sul processo civile dall’altra), il silenzio che regna pubblicamente sull’argomento, nei Mavm stessi, e nella sfera educativa, è scioccante.
La crisi dei media non è soltanto in relazione con l’uso rafforzato della Monoforma, ma anche con l’agenda dei Mavm: ciò che i media decidono di mostrare sugli schermi tv o di produrre per il cinema (o di stampare per la stampa). Con qualche eccezione (soprattutto nei media stampati), l’agenda dei mass media è estremamente conservatrice e basata su un’ideologia nazionale (o la sua mancanza), che in Occidente implica il mantenimento della globalizzazione neoliberale.
Un altro aspetto è il processo non democratico dei Mavm verso il pubblico: e questo tocca ogni elemento che riguarda le decisioni prese dai media su cosa dire/raccontare (o no) al pubblico (agenda), e su come strutturare la presentazione (forma). Il processo coinvolge ogni altro aspetto della relazione: la formazione dei professionisti, come essi dialogano o comunicano (o no) con il pubblico (in incontri pubblici, ecc.), quanto del loro potere condividono, quale sorta di interazione e feedback permettono agli spettatori durante il programma o dopo, ecc.
Anche l’uso del verbo «comunicare» da parte dei Mavm dovrebbe far suonare il campanello d’allarme. Per «comunicazione» si intende uno scambio tra due o più persone. Come può essere possibile questo quando una (o più) parti usa una forma-linguaggio altamente codificata per imporre una relazione centralizzata e gerarchica sugli altri? Specialmente quando né i Mavm né il sistema educativo sono preparati a rivelare questi codici o le reali logiche dietro di essi.

Culloden

Il ruolo della Monoforma

Oggi i giovani che aspirano a entrare nel mondo del cinema o della tv devono sottostare a un sistema educativo che insiste come la Monoforma sia cruciale per il loro futuro come professionisti dei media. A loro sarà invariabilmente insegnata la necessità di strutture temporali formattate e slot di tempo sempre decrescenti dentro il loro lavoro: solitamente un’«ora» corrotta in 40 minuti o meno (il cosiddetto «orologio universale»), con il resto costituito dalla pubblicità. Sarà loro insegnato come «promuovere» i loro progetti ai produttori (una delle pratiche professionali più invidiate e pericolose della nuova era). Saranno indottrinati con la necessità di soccombere all’ordine mediatico esistente e imbevuti della nozione che «professionismo» significa infliggere il potere delle immagini sul pubblico (=la logica di «impattare»).
Probabilmente il genere di Mavm che ha sofferto di più la crisi dei media e l’imposizione della Monoforma è ciò che chiamiamo (o chiamavamo) «documentario».
Molti documentari sono diventati numeri da circo pieni di impatto esplosivo e trucchi audiovisivi aggressivi, con un sempre-presente conduttore del gioco (il regista o narratore, spesso la stessa persona) di fronte alla telecamera. Il filmmaker può avere sicuramente uno scopo genuino, ma poi quasi invariabilmente soffoca il lavoro (e l’argomento) in una forma-linguaggio aggressiva, gerarchica e da «intrattenimento»: la Monoforma.
Naturalmente ci sono le eccezioni, che ci mostrano come esistano modi assolutamente differenti di lavorare con il documentario, sia a livello di forma-linguaggio che di argomento. Sfortunatamente, l’esistente circo mediatico comporta che tali film siano raramente finanziati. E raramente visti dal pubblico.

The Punishment Park

Che molti filmmaker e intellettuali dei media credano che un argomento radicale o un tema potente di per sé creino un cinema «alternativo» è un altro paradosso. In molti casi è solo il contenuto che può essere considerato alternativo: un tema radicale di per sé non sfida il problema primario della gerarchia della forma, del processo e della struttura. Di fatto, confonde soltanto di focalizzare il vero punto centrale ed è uno dei principali motivi del mancato sviluppo fatto oltre un certo limite del pensiero critico sul ruolo dei Mavm.
In altre parole, non è semplicemente il contenuto visibile dei programmi o dei film a essere problematico: sono il modo in cui si lavora con il tempo, lo spazio e il ritmo, e il processo invisibile che si usa per creare una relazione con il pubblico, il vero fulcro della crisi dei media. E qui torniamo di nuovo al ruolo della Monoforma.
Questa pratica lancia molte contraddizioni ai temi e alle pretese del filmmaker, alla nozione di «obiettività» e alla nozione di democrazia, per le quali molti documentaristi dichiarano di lottare. Un esempio di questo aspetto della crisi dei media sono i film del regista americano Michael Moore, i cui lavori sono rappresentativi di un’ampia fascia di cinema documentario in stile aggressivo che ora è fortemente tracciato nel cinema commerciale.
Michael Moore avrebbe detto recentemente di volere che il suo pubblico si impegnasse per la democrazia, che «saltasse su dalla panchina e diventasse attivo». Il paradosso qui è che egli stesso usa una forma strutturale molto gerarchica per rendere «impegnato» il suo pubblico.
La Monoforma è solo uno degli infiniti modi di combinare immagini e suoni. Il cinema è come un arcobaleno, e la Monoforma una piccola scheggia nel vasto spettro di colori e ombre. I Mavm hanno usurpato e magnificato il loro uso di questa scheggia a proporzioni orwelliane, ma io credo che la situazione possa essere sfidata. Deve esserlo, per la salvezza del pianeta.
Nuovi mezzi di interazione col pubblico devono essere iniziati per sviluppare forme alternative di impegno con i media audiovisivi: forme e processi che si muovano ben oltre le strutture della Monoforma. Il primo passo include una coscienza olistica dei molti problemi che accompagnano i media della Monoforma, non ultimo l’accelerazione della società dei consumi. I filmmaker devono voler lasciare, almeno a un qualche grado, il potere implicito nell’uso dei media della Monoforma. Cineasti, distributori alternativi, proprietari di cinema e case d’arte, studiosi dei media devono estendere il dibattito oltre i valori della produzione o i piaceri intellettuali inseriti nei film che mostrano. Un nuovo terreno è possibile: allargare il concetto di creatività, il piacere di produrre un film, di modo che coinvolgano la partecipazione diretta, critica, del pubblico in modi che finora non sono esistiti.

Peter Watkins

(da Notes on the Media Crisis di Peter Watkins, conferenza tenuta a Felletin, Francia, nel marzo 2010 e pubblicata nel n. 23 dei «Quaderns portàtils» del Museu d’Art Contemporani de Barcelona. Traduzione e adattamento di Stefano Casi)

Vedere (e leggere) Watkins

Il sito ufficiale di Peter Watkins è http://pwatkins.mnsi.net (in inglese). Per ogni film sono anche indicati la reperibilità e i riferimenti per i permessi di proiezione. Il sito dell’associazione Rebond per la diffusione del film La Commune è www.rebond.org (in inglese e francese).
I dvd di molti film di Watkins, alcuni dei quali con contenuti extra e sottitoli in inglese e francese, sono stati pubblicati dall’americana Project X Distribution (www.projectxdistribution.com) e dalla francese Doriane-Films (www.doriane-films.com). Il British Film Institute ha da poco pubblicato il blu-ray di Privilege con vari extra e sottotitoli in inglese (http://filmstore.bfi.org.uk). Tutti i dvd si trovano sui normali bookshop on line (ma solo stranieri).
Bibliografia in italiano: Peter Watkins, Storie di ordinaria telemanipolazione, in «Società di pensieri», Bologna, n.7, dicembre 1993; German A. Duarte, La scomparsa dell’orologio universale. Peter Watkins e i mass media audiovisivi, Milano, Mimesis, 2009.