rivista anarchica
anno 41 n. 359
febbraio 2011


dibattito anarchismi

Pensieri aperti e ibridi
di Andrea Staid

Non può e non deve esistere un solo modo di vedere l’idea anarchica. A partire da questo assunto si apre un dibattito non sull’anarchismo, ma appunto sugli anarchismi.

Questo piccolo spazio nasce all’interno della rivista con l’intento di dare adito a un dibattito plurale tra le varie forme, pratiche e teorie del pensiero libertario e anarchico. La consapevolezza è quella che non può e non deve esistere un solo modo di vedere l’idea anarchica e che attraverso il confronto, la discussione pratica e teorica anche su queste pagine si possa comprendere meglio la contemporaneità e soprattutto le possibilità del pensiero libertario, cioè capire come navigare in quell’oceano che è la natura culturale del genere umano.
Partendo proprio dal concetto che l’idea anarchica è un “prodotto” culturale, cerchiamo di definire il concetto di cultura.

“L’uomo è un animale biologicamente carente. Affidato alle sue sole capacità biologiche, ben difficilmente saprebbe sopravvivere. La sua stessa sopravvivenza fisica a quanto pare richiede, fin da subito l’intervento della cultura.” [Remotti 1996]

Comunicando tra loro, gli esseri umani “inventano” una cultura, nel senso che questa si configura come il risultato dell’accordo sempre rinegoziabile di individui che negoziano determinati significati. Quindi “la” cultura come prodotto dell’interazione comunicativa tra esseri umani, un qualcosa che è continuamente sottoposto a processi di contaminazione da parte di altre culture.
Per Arjun Appadurai (1992;1996) il concetto di cultura implica l’idea di differenza, ma dove le differenze non sono più concettualizzabili come una volta in forma tassonomica, bensì dato il crescente processo di globalizzazione, in termini di interazione e di rifrazione intersoggettive e interculturali.
Questo modo di interpretare il concetto di cultura ci suggerisce che anche l’idea anarchica (cioè un prodotto culturale oltre che politico) non può essere qualcosa di definito una volta per tutte, e nemmeno divenire un’entità reale che si sviluppa in base a “leggi” proprie, bensì qualcosa che scaturisce da un accordo tra soggetti comunicanti, ognuno dei quali è portatore della propria specificità. Non si può avere la pretesa di poter definire una volta per tutte quali siano le “leggi”che ne regolano il divenire.
Quindi solamente conferendo all’anarchia un significato dinamico, comunicativo, negoziale, inventivo, conflittuale anche con se stessa, che questa idea può ancora vivere e agire per il cambiamento della società del dominio e dell’autorità. Il soggetto in questa visione dell’anarchismo diventa decisivo poichè alla fine la differenza è fra chi decide di ribellarsi, sabotare il sistema dominante e chi decide di accettarlo.
Si tratta dunque di produrre un “soggetto politico” che sia radicalmente refrattario al tipo di società all’interno della quale viviamo, ai suoi valori, ai rapporti di sfruttamento e di dominio che la costituiscono, ed è dunque anche nel, con e per il soggetto che si costruisce l’anarchia. Parto dalla convinzione che sia inutile lottare per un mondo liberato quando in primis non siano gli individui che lottano per questo a cambiare le loro vite, i loro rapporti relazionali, quotidiani con le persone.
Le nostre pratiche di lotta, non devono essere solo delle pratiche rivendicative, ma anche costruttive, fatte di “saper fare” in modo differente dall’egemonia dominante. È in seno alle lotte e nel corso del loro svolgimento che noi ci “desoggettivizziamo”, e che mettiamo in pratica un altro modo di vivere, degli altri rapporti; per fare solo qualche piccolo esempio è attraverso l’autogestione e le sue tante pratiche che tentiamo di scardinare lo spazio dell’immaginario del dominio per fare in modo che ogni individuo possa contribuire attraverso l’azione diretta e il rifiuto della delega a riappropriarsi della propria vita liberando spazi mentali e fisici. O attraverso l’autoproduzione attuiamo un metodo che ci fa riscoprire l’indipendenza nel creare ciò di cui abbiamo bisogno per vivere, ci fa staccare dall’attuale sistema produttivo, riducendone la dipendenza e aumentando il piacere nell’utilizzare ciò che viene prodotto. Attraverso uno stile di vita diverso cerchiamo di ribaltare le norme imposte e soprattutto di riformularle dal basso, per iniziare già da ora a vivere in una società parzialmente liberata. È fondamentale cercare di agire costantemente per combattere il dominio, è necessario un lavoro lungo e profondo di delegittimazione dell’autorità, per riuscire a rompere le asimmetrie nelle relazioni funzionali cercando di scatenare dal basso un inizio, un abbozzo di società libertaria, sia sotto forma di pratiche di resistenza che di attacco.
A questo punto nasce spontanea una domanda che fine ha fatto il futuro? Dove è finito il sole dell’avvenire, è chiaro che è necessario dare alle lotte una proiezione che travalichi il presente, ma;

(...) il progetto, il fine da raggiungere non deve necessariamente essere formulato in termini di un conflitto sociale generalizzato, nè di una società ideale da costruire. Questa proiezione verso il futuro può consistere, per esempio, nell’obbiettivo di moltiplicare e di diversificare progressivamente i focolai di resitenza, di disseminarli al massimo nel tessuto sociale. O, per fornire un altro esempio, questa proiezione fuori dal presente può consistere nell’escogitare stratagemmi ogni volta più efficaci per mettere fuori gioco le azioni del potere. (Ibanez, 2010).

Come ho scritto nel numero precedente di A, l’anarchismo non può essere riproposto uguale in tutto il mondo, non dovrebbe essere considerato universale. È importante che l’anarchismo sia legato al contesto della sua produzione, che sappia produrre un messaggio chiaro e deciso, ma senza mai affermarlo in termini assoluti; un messaggio che si costruisca gradualmente, che cambi nella pratica, nel confronto quotidiano con e tra la gente.
Non si tratta più di organizzarsi per giungere all’insurrezione generalizzata, ma si tratta di cambiare la propria vita e quella degli altri subito, qui e ora, all’interno delle pratiche di lotta che vengono sviluppate collettivamente e nel quotidiano attraverso delle azioni nuove capaci di ribaltare l’immaginario dominante.
Si tratta di sviluppare delle pratiche che, mentre trasformano in maniera rivoluzionaria parti della realtà, mutano noi stessi, la nostra vita e cambiano le nostre relazioni con gli altri. Mi rendo conto che non c’è molto di nuovo in questo modo di leggere l’anarchismo ed è per questo che è secondario mettere il prefisso nuovo o post, lo stesso Colin Ward, ci parla di un anarchismo creatore e costruttivo che non ci da una visione del futuro, del mondo che verrà, ma piuttosto una maniera di vivere e di organizzarsi in seno alla quotidianità presente, con l’idea di espandersi a macchia d’olio e di contaminare con i propri valori settori sociali via via più ampi.
Essere rivoluzionario è organizzarsi per riuscire a contraddire nei fatti i valori dominanti, per creare altri modi di vita risolutamente ai margini dei modi di vita indotti dal capitalismo,

si tratta di agire collettivamente per bloccare, oggi, il potere nelle sue molteplici manifestazioni. Se tutto questo si cristallizza, si amplifica e mette in scacco, domani, l’insieme del sistema, tanto meglio, certamente, ma sarà un effetto collaterale, non il fine ricercato in prima istanza. Il fine ricercato in prima istanza risiede infatti nella proliferazione delle resistenze e nella moltiplicazione di spazi sottratti al potere, nei quali sia possibile creare una realtà tendente verso l’anarchia e vivere il presente il più possibile secondo i valori anarchici (Ibanez, 2010).
Mi auguro che questo dibattito possa essere uno dei tanti spazi che riusciamo a sottrarre al potere, che generi un confronto su una idea, su tante pratiche per vivere l’anarchismo. Qui e ora.

Per rispondere scrivere a:
arivista@tin.it
andreastaid@gmail.com

Andrea Staid