rivista anarchica
anno 41 n. 359
febbraio 2011


Turchia

Mamma li turchi!
di Antonio Cardella

Dismessa la maschera del musulmano moderato, il premier turco Erdogan si fa portavoce dell’orgoglio arabo, mediato dal jiadismo islamico. E la Turchia rivendica il proprio ruolo di potenza emergente.

 

Nella novellistica popolare siciliana si narrava dei leggendari pirati saraceni che, partendo dalle coste dell’Africa settentrionale, con agili e veloci imbarcazioni, compivano, soprattutto nel tempo del raccolto, rovinose incursioni nei paesi rivieraschi della Sicilia, qualche volta spingendosi anche nell’entroterra.
Sorsero così, a difesa, le torri di avvistamento e i piccoli e indifesi centri urbani, oggetto delle incursioni, strutturarono i loro paesini in modo che le abitazioni e i presidi di difesa sorgessero ai lati di stradine strette, così da incanalarvi i flussi degli invasori e renderli più esposti ai colpi dei difensori.
La vita di questi agglomerati aveva il suo corso normale sino a quando dalle torri d’avvistamento non veniva il fatidico grido strozzato e ripetuto di “Mamma li turchi”. Allora era tutto un correre per mettere al riparo le mercanzie e apprestarsi alla difesa.
Tempi di un passato remoto. L’impero Ottomano è scomparso da tempo e i sultanati sono solo oggetto di spesso cervellotiche rivisitazioni esotiche, lontane dalla realtà storica.
Ebbene, oggi viviamo una stagione geopolitica nella quale l’orgoglio arabo, mediato dal jiadismo islamico, alza la voce e rivendica il proprio ruolo di potenza emergente nello scacchiere internazionale. Il suo leader indiscusso, Recep Tayyp Erdogan, capo del partito Akp e trionfatore del referendum del 12 settembre 2010, ha smesso la maschera del musulmano moderato, per scoprire il suo vero volto di neo-ottomano oltranzista, oppositore di un Occidente sempre più ancorato alle politiche neocolonialiste americo-israeliane.
Svanisce, così, il disegno di una Turchia integrata nell’Unione Europea; un’integrazione, del resto, osteggiata da una parte consistente dell’opinione pubblica del Vecchio Continente e dalla maggioranza degli stessi governi della Comunità.

La svolta impressa alla politica estera turca da Erdogan non è evento di poco conto. A parte le velleità egemoniche e le sfide epocali, la semplice collocazione geografica assegna alla Turchia un ruolo non indifferente, sia nelle zone di sofferenza e di attrito nel Medio Oriente e a oriente dell’Adriatico, sia nelle vaste aree asiatiche nelle quali ormai si giocano gli equilibri dell’intero pianeta.
Questo spiega perché le politiche estere americane e israeliane guardino con seria preoccupazione l’evolversi degli eventi.
Certo, il disegno di un’Europa che includesse la Turchia non era facile da raggiungere. La Comunità europea doveva fare i conti con le proprie difficoltà interne: 27 Paesi, collocati in zone d’influenza diverse (a partire dal nord-est, un ginepraio di conflitti sorti dal collasso dell’Unione sovietica; la piaga mai risolta dei Paesi della ex Iugoslavia; la questione greco-cipriota, per citarne solo alcuni), ed economie difficilmente integrabili, talché è impossibile impostare una normativa comune senza penalizzarne pesantemente alcune a vantaggio di altre, come del resto avviene all’interno del nucleo originario della Comunità.
La deriva islamica di Erdogan ha dissipato l’equivoco di una vocazione europeista di Ankara. Il Vecchio Continente, oggi più di prima, non è per la Turchia un obiettivo strategico da perseguire. Il suo sguardo, la sua prospettiva sono rivolti verso il Medio e l’Estremo oriente, per obiettive consonanze culturali e religiose, non solo, ma anche perché in quella direzione possono concretizzarsi le sue aspettative di sviluppo.
Intanto, sul vitale piano energetico la Turchia è al centro di grandiosi progetti di condotti, tra i quali il gigantesco gasdotto Nabucco che dall’Iran, attraverso l’Anatolia raggiunge la Bulgaria, e il già quasi completato oleodotto che da Kirkuk in Iraq proprio in Turchia si dirama: da una parte raggiunge il Mar Nero e dall’altra, attraverso la Georgia, raggiunge l’Azerbaigian.

Poi, sul versante geopolitico, la Turchia è interlocutrice essenziale nello scacchiere Medio orientale: nell’eterno conflitto israeliano-palestinese, in quello inesauribile che coinvolge l’Iraq e nel contenzioso tra le potenze occidentali e l’Iran, un contenzioso che ci si augura non sfoci nell’ennesima guerra guerreggiata che destabilizzerebbe l’intera area con conseguenze difficilmente calcolabili.
Ma l’attesa messianica di un neo-ottomanismo non si ferma.
Secondo l’attuale ministro degli esteri, ispiratore della politica di Erdogan, Abmet Davutoglu, la missione della Turchia del XXI secolo è di colmare il vuoto di potere conseguente al crollo dell’Unione Sovietica e all’indebolimento del predominio della potenza americana.
Nel suo volume Profondità strategica pubblicato nel 2001, quando Davutoglu era un semplice professore di relazioni internazionali all’Universita di Marmara ad Istambul, Davutoglu scrive testualmente:

“Il ruolo della Turchia come ponte tra Oriente ed Occidente si sta più che mai accentuando. Effettivamente la Turchia è un Paese tanto europeo quanto asiatico, tanto balcanico quanto caucasico, tanto mediorientale quanto mediterraneo. Questa sua poliedricità richiede di allargare il ventaglio delle opzioni… Due sono le possibili sorti che storicamente attendono i popoli che si investono del ruolo di ponte. Coloro che hanno basato tale ruolo su una forte identità e fiducia in se stessi hanno dato vita ad una civiltà capace di aprire nuovi orizzonti all’umanità… diversamente le società che hanno considerato il ruolo di ponte da un punto di vista puramente pragmatico e superficiale, secondo una mentalità che ignora il rispetto e la fiducia in se stessi, nel corso della storia hanno dovuto subire frequenti crisi identitarie con i conseguenti conflitti intestini”.
È evidente che, da un lato, la visione quasi profetica di Davutoglu assegna alla Turchia il ruolo messianico di un panislamismo che fu del califfato dell’Andalusia nell’XI secolo; dall’altro, il recupero di un’identità forte da parte dei popoli islamici, che favorisca una nuova civiltà connotata dalla pacificazione in nome di Allah.
Nella realtà della politica estera turca attuale, la componente antieuropea gioca un ruolo decisivo anche nella discriminazione che Erdogan opera all’interno degli stessi islamici: si schiera con i russi contro i ceceni, con Hamas contro l’autorità palestinese, con il governo sudanese nell’eccidio del Darfur, con il governo di Teheran contro le istanze di libertà del popolo iraniano.
E l’Europa, che ha considerato la Turchia solo come baluardo atlantico contro l’Oriente ostile, e solo per questo motivo ha caldeggiato il suo ingresso nella Ue, adesso si lecca le ferite di un inutile, ulteriore conflitto interno tra i pro e i contro di un accesso che Teheran non richiede, anzi respinge.
Altro segno di una miopia strategica che segna il suo declino.

Antonio Cardella