rivista anarchica
anno 40 n. 358
dicembre 2010-gennaio 2011


72 scritti...
che palle!

 

La libertà
nell’era delle reti

di Carlo Milani

Si può fare con il digitale così come con le biciclette: metterci sopra le mani, smontare per capire, imparare a usare e insegnare agli altri.

Al termine del XX secolo gli strumenti digitali erano di uso comune solo per pochi. Nel giro di un decennio la situazione si è capovolta: ovunque, e non solo nell’Occidente ipersviluppato, computer, telefoni cellulari, lettori musicali, videocamere e ogni sorta di incroci immaginabili fra questi dispositivi sono imprescindibili per la vita quotidiana. Consentono a miliardi di persone di connettersi alle reti telefoniche e quindi soprattutto a Internet, quasi realizzando il sogno dell’ubiquità nella telepresenza. Le distanze non sono mai state così ridotte.
L’inflazione di gadget tecnologici è deprecabile per diversi motivi. Sono espressione di un consumismo esasperato, in quanto beni cosiddetti «di sostituzione», destinati a essere rapidamente sostituiti da modelli più avanzati. Sono anti-ecologi, costruiti per durare poco (obsolescenza programmata). La loro produzione esige lo sfruttamento di minerali rari, e la lotta per accaparrarseli provoca conflitti continui in varie zone particolarmente povere (Africa centrale, ecc.). Implica anche il parallelo sfruttamento delle masse operaie asiatiche che li fabbricano. Infine, ed è quello che qui più ci interessa, la costante connessione «in rete» pone problemi enormi all’esercizio della libertà.
Le reti hanno una doppia faccia: servono per connettere persone e cose, ma anche per imprigionarle. I dibattiti sul controllo e sulla privacy sono sintomi di un malessere diffuso. Non dimentichiamo che Internet è l’evoluzione civile di un progetto militare che, durante la guerra fredda, mirava alla costruzione di una rete decentrata di nodi autonomi, virtualmente indistruttibile a un attacco. Autonomia di guerra, non per ampliare la libertà. Non a caso, oggi i meccanismi di delega tecnocratica sono sempre più diffusi. Le nostre mail, foto, conversazioni, dati si trovano su macchine remote, completamente al di fuori del nostro controllo. Ogni azione e discussione è accuratamente auscultata e archiviata, non solo per accumulare informazioni utili al controllo globale, ma soprattutto per propinarci pubblicità personalizzate. Così si finanzia la gratuità delle reti: oggetti personalizzati per tutti i consumatori evoluti.
Come uscirne? Non si tratta di demonizzare la tecnologia, ma di adottare uno stile critico e sobrio. Evitando il luddismo, l’unico modo di liberarsi dalla dipendenza è imparare a gestire la tecnologia in maniera autonoma. La libertà nell’era delle reti richiede curiosità e immaginazione radicale. Si può fare con il digitale così come con le biciclette: metterci sopra le mani, smontare per capire, imparare a usare e insegnare agli altri. Per creare strumenti conviviali, pensati per soddisfare i nostri desideri e per estendere le sfere di autonomia personale e collettiva.

 


La parola come strumento
di asservimento o di liberazione

di Carlo Oliva

Anche se ho cambiato mestiere da vent’anni, continuano tutti a chiamarmi “professore”.

Entro sempre un po’ in crisi quando mi capita di dover spiegare a qualcuno quali siano esattamente i miei interessi. Laureato in filologia classica, ex insegnante di lettere antiche e moderne nei licei, esperto di problemi dell’istituzione scuola e della cultura giovanile (e fin qui fila tutto abbastanza liscio...), autore di saggi di linguistica, traduttore da varie lingue, cultore e storico di libri gialli, notista politici... sono irrimediabilmente un eclettico. A quasi settant’anni di età, non ho ancora deciso che cosa farò da grande. Ne fa fede la varietà e l’eterogeneità degli argomenti che, non ricordo più neanche per quanti anni , ho trattato su “A” (e a “Radio Popolare” di Milano, nonché su una quantità di periodici di maggiore o minore levatura che vanno dal “Corriere della sera” al “Manifesto” e al bollettino del club dei fan dell’agente 007). E il dubbio, in casi come questi, è che la molteplicità stessa dei campi di applicazione precluda la capacità di approfondirne uno che sia uno. Il rischio di chi coltiva qualsiasi eclettismo è quello di sconfinare senza neanche rendersene conto, nella superficialità.
D’altra parte, sappiamo tutti che il primo amore non si scorda mai. Ed è grazie alla frequentazione del mondo classico (il mio primo amore, appunto) che ho scoperto il principio per cui la parola è un dio potente, che avendo un esile corpo può compiere grandissime cose, rendendo grande ciò che è piccolo e piccolo ciò che è grande (come scrive, se non mi sbaglio, Gorgia di Lentini nell’Encomio di Elena, più o meno nel V secolo a. C.). Rendendomi conto, al tempo stesso, che chi della potenza di quel dio sa servirsi non lo fa, come dire, per sport, ma con il fine preciso di controllare gli altri e imporgli il proprio dominio. E viceversa, naturalmente, perché la conoscenza dei meccanismi verbali attraverso i quali è possibile asservire i propri confratelli in umanità rappresenta a sua volta un indispensabile strumento per chi da ogni giogo desideri liberarsi.
Ecco. Potrei dire, con un po’ di presunzione, che di questo mi occupo: dell’uso della parola come strumento di asservimento e di liberazione. Ogni tanto sintetizzo il concetto scrivendo (nei risvolti, nelle quarte di copertina, nelle schede biografiche che qualcuno si ostina a chiedermi) che mi occupo di “ideologia del linguaggio”. Suona bene, anche se non significa nulla di preciso, e ha un rassicurante tono accademico. Perché si può essere rivoluzionari finché si vuole, estremisti, eversori e persino anarchici – tutti ambienti che ho frequentato, pur senza appartenervi del tutto – ma su tutta questa brava gente l’Accademia continua a esercitare un gran fascino. E allora, perché no? Una laurea e un’abilitazione non nuocciono mai e infatti, anche se ho cambiato mestiere da vent’anni, continuano tutti a chiamarmi “professore”.
Naturalmente il concetto non è originale. Ha qualcosa in comune con la teoria marxista dell’ideologia come “falsa coscienza”, ma il marxismo, pur restando un formidabile strumento di analisi, ha subito, erigendosi in sistema (e per di più, spesso, in sistema di stato), troppe ossificazioni ontologiche perché sia possibile richiamarcisi con la necessaria serenità. Un fondamento teorico più tranquillizzante l’ho trovato, or è mezzo secolo, nelle analisi di Silvio Ceccato sulla “svista conoscitiva” (analisi che con il marxismo, checché ne pensasse lui, non sono poi troppo confliggenti), e, soprattutto nello sviluppo che ne ha dato Felice Accame, con il quale, da allora, non ho mai cessato di collaborare. Certo, non sono bravo come lui: non pretendo, con la mia sola presenza, di poter mandare in rovina qualsiasi testata, o di scrivere delle cose tanto pericolose da esserne immediatamente estromesso. Ma faccio anch’io del mio meglio per mettere in luce e comunicare quanto altri hanno interesse a tenere nascosto. Nella consapevolezza che la più ampia messa in comune delle opinioni e dei punti di vista è il fondamento di quella prassi della decisione in comune che chiamiamo democrazia. O, se preferiamo, dell’anarchia.


Un diritto sempre
più negato: l’aborto

di Chiara Lalli

Di fatto sta diventando sempre più difficile abortire in condizioni di sicurezza.

L’interruzione volontaria di gravidanza è un argomento moralmente molto controverso. Fino al 1978 in Italia era illegale interrompere una gravidanza e ancora oggi in molti Paesi ci sono norme molto restrittive.
La ragione principale dei divieti è l’attribuzione dello status di persona all’embrione: come soggetto detentore di diritti la sua esistenza non deve essere interrotta. L’attribuzione di diritti, però, non può essere una premessa apodittica, ma andrebbe sostenuta da argomentazioni forti e l’impresa non è affatto semplice. Si potrebbe discutere a lungo sulle altre ragioni che spingono alla coercizione: la concezione della donna come madre, il controllo sulle vite e sulle decisioni delle persone, una idea paternalistica e moralistica che nega ai singoli la possibilità di scelta.
Decidere di interrompere una gravidanza, seppure si rifiuti la visione personale dell’embrione, mette comunque in conflitto due visioni: quella della donna e quella dell’embrione. La sentenza 27/1975 della Corte Costituzionale esprime bene l’inevitabilità del conflitto e indica la soluzione più ragionevole: “non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare”.
La decisione di abortire può essere motivata da ragioni di salute della donna, da una diagnosi prenatale infausta o da altri motivi. La legge 194 stabilisce i criteri nel seguente modo: per i primi 90 giorni una donna può abortire nel caso di “circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito”. Dopo i 90 giorni “quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; [e] quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”.
Sebbene di diritto le donne abbiano la possibilità di ricorrere alla IVG, di fatto sta diventando sempre più difficile abortire in condizioni di sicurezza, soprattutto a causa della altissime percentuali di personale sanitario obiettore di coscienza (le ultime stime parlano dell’80%). Inoltre il clima di condanna è molto forte e non sono infrequenti i casi di donne maltrattate da zelanti difensori della vita o abbandonate senza assistenza in attesa dell’unico ginecologo non obiettore. Non è certo questo il modo per combattere le IVG!
Non dobbiamo nemmeno dimenticare che promuovere il divieto di abortire delinea inevitabilmente il ricorso alla clandestinità – mai sparita del tutto e ultimamente in aumento proprio a causa della difficoltà di ricorrere alla IVG legale – o alle gravidanze forzate, entrambi scenari non percorribili perché fortemente lesivi dei diritti “di chi è già persona”.
Purtroppo le discussioni al riguardo sono caratterizzate spesso da malintesi e da argomenti molto deboli. Uno dei più resistenti è di pensare che essere a favore della legalità della IVG significa essere a favore della morte, di contro ai difensori della vita. Invece significa concordare con quanto affermato dalla sentenza del 1975 e rendersi conto che non ci sono soluzioni migliori.

 


Il Messico per sempre

di Claudio Albertani

Mi affascinarono subito i colori violenti, la potente energia vulcanica…

“Sono venuto in Messico a cercare una nuova idea dell’uomo”, scrisse Antonin Artaud. Mi ci portò la mia compagna, Patricia; venivamo da Berkeley, California, e c’eravamo conosciuti in un ristorante, dove lei faceva la cameriera ed io il lavapiatti. Patricia, messicana, sognava di andare in Italia ed io, italiano, preferivo il Messico, paese che vagheggiavo da sempre, ma del quale non sapevo quasi nulla. Alla fine io ebbi la meglio, perché in Italia quelli erano anni difficili, forse peggiori degli attuali.
Molti dei miei compagni erano in galera e quelli che, come me, avevano scelto di vivere all’estero perché contrari alla lotta armata e non disposti a rovinarsi la vita con l’eroina, se ne mantenevano prudentemente alla larga. Passammo la frontiera di Tijuana il 2 ottobre 1979, a bordo di un vecchio camioncino Volkswagen che fungeva da stanza da letto, cucina e biblioteca. Era l’anniversario del massacro degli studenti in piazza Tlatelolco, una tragedia che nel 68 aveva impressionato molto anche noi studenti italiani. Passammo un mese in Bassa California, a quell’epoca in gran parte intonsa, dove ebbi un primo assaggio dei paesaggi messicani, così strani e insoliti: il mare di Cortes con la sua acqua (allora) cristallina, deserti, montagne e cieli sterminati. Nella Sierra San Pedro Martir, dove accampammo vari giorni, contemplammo una Via Lattea talmente bianca da sembrare una nuvola. Non vi erano giornali, ma seguivamo le peripezie della rivoluzione sandinista in Nicaragua, della guerra nel Salvador e dell’incipiente genocidio in Guatemala con una vecchia radiolina di onda corta che sintonizzavamo di notte. Nei mesi successivi, visitammo gran parte del paese, dal Sonora fino al Chiapas. Doveva essere un viaggio di qualche mese e sono passati più di trent’anni; rimanemmo senza neppure deciderlo, come conseguenza naturale dell’avventura della vita.
Del Messico, mi affascinarono subito i colori violenti, la potente energia vulcanica, la vita intensa ed esaltata, i popoli indigeni. Ma vi è di più. Il Messico non è solo un paese di “bellezza convulsiva” (Benjamin Peret), è anche un punto di incontro di vagabondi, poeti e dissidenti, l’ultimo rifugio di rivoluzionari che, come Victor Serge e tanti altri, arrivarono qui fuggendo dalla peste nera ed anche da quella rossa. Ma è, soprattutto, un grande laboratorio politico e sociale dove si scontrano da millenni le potenze della vita e quelle della morte.
La partita non è chiusa.

 


Spagna 1936
tra mito e progetto

di Claudio Venza

Resta un vivace dibattito sulla rivoluzione e sull’autogestione in terra iberica.

L’esperienza spagnola ha un rilievo centrale nella storia e nel pensiero dell’anarchismo a livello mondiale. Per dimostrare agli increduli e agli avversari che i principi anarchici non sono solo delle utopie (comunque positive e incoraggianti) si rievoca spesso la rivoluzione del 1936-1939.
La propaganda anarchica ha, logicamente e giustamente, esaltato le conquiste e le realizzazioni di questo periodo che ha rappresentato l’esempio migliore per dimostrare che la società di liberi ed eguali era possibile e gratificante. Dove l’anarchismo è stato attivo – dal Giappone al Canada, dall’Argentina alla Svezia –, la Spagna del 1936 è stata ricordata ad ogni anniversario del 19 luglio 1936, la data della risposta libertaria vincente ai golpisti a Barcellona.

Barcellona maggio 1937. Barricata nel centro storico
contro l’aggressione comunista alla Centrale Telefonica

Resta comunque un vivace dibattito, a livello internazionale, sui significati dei vari aspetti della rivoluzione e dell’autogestione in terra iberica. Per chi si è riconosciuto fino in fondo nel “momento magico” della lotta contro la reazione a tutti i livelli, si è trattato di una serie di realizzazioni valide e incontestabili. Così le milizie sono state un esempio di come condurre una guerra su basi non gerarchiche e non militarizzate; le collettività agricole e industriali hanno offerto un esempio tangibile di organizzazione paritaria, federalista e autonoma della produzione e della vita sociale; la rottura con le tradizioni patriarcali e i passi avanti nella liberazione delle donne hanno testimoniato la volontà effettiva di fondare una nuova società. Accanto a questi cambiamenti va considerato anche il riuscito ridimensionamento dell’influenza deleteria della chiesa cattolica, da secoli alleata degli oppressori, paladina di una morale ipocrita che spingeva il popolo alla subordinazione e alla superstizione. Ad ogni modo, nel corso dei decenni si è diffuso uno spirito critico verso le contraddizioni dell’anarchismo e ancor più dell’anarcosindacalismo. Da un punto di vista antiautoritario intransigente è stato rilevato che la condotta della dirigenza della CNT-FAI era progressivamente scivolata verso un tipo di politica in cui l’antifascismo e la guerra erano gli elementi determinati e prevalenti. Di conseguenza le istanze rivoluzionarie venivano in pratica ridimensionate ed emarginate. La collaborazione, in nome dell’urgenza bellica, con i partiti repubblicani e con il governo sarebbero state la logica conseguenza di un’involuzione organizzativa che faceva somigliare l’anarchismo ad un organismo sostanzialmente gerarchico e militarizzato. Anche il maggio 1937, con l’insurrezione proletaria contro le manovre comuniste per eliminare la CNT-FAI, sarebbe terminato con una sconfitta in seguito all’ordine dei leader libertari di abbandonare le barricate e di sospendere le ostilità. Insomma la forza del popolo libertario sarebbe stata soggiogata dalla logica della ricostruzione dello Stato repubblicano che puntava, peraltro invano, sugli aiuti delle democrazie occidentali.

Barcellona 1936. I trasporti, nella più grande e moderna
città spagnola, sono autogestiti dai lavoratori della CNT

Come si vede, aspetti positivi e negativi vengono evidenziati da un’analisi spassionata degli eventi del 1936-1939. Il dibattito non è certamente finito. Anzi si è riproposto con forza attorno alla ripresa del movimento dopo la morte di Franco del novembre 1975. Per alcuni anni, l’intero mondo libertario ha sperato che si realizzasse una ripresa robusta della CNT e dell’anarchismo iberico in generale. Giornali e manifestazioni, cortei e azioni dirette sembravano annunciare la rinascita in pieno del protagonismo anarchico spagnolo. Nel 1976, il quarantennale assomigliava a tratti all’infuocato 1936 e i grandi mitines del 1977 incoraggiavano un dilagante ottimismo.
Nel frattempo però il franchismo aveva cambiato la società spagnola: prima del 1939 molti proletari, nelle campagne e nelle città, erano disposti ai rischi della rottura rivoluzionaria anche in nome di una cultura e di un immaginario sovversivi centrati su un futuro prossimo di liberazione e giustizia. Quaranta anni dopo, le rivendicazioni si iscrivevano nei limiti di un riformismo (e consumismo) più o meno arrabbiati. Il contesto sociale era perciò mutato profondamente e le istanze di sacrificio e di solidarietà, caratteristiche della CNT e della FAI degli anni Trenta, si rivolgevano a un ambiente collettivo dalle prospettive limitate ad un realistico miglioramento del livello di vita. Secondo molti militanti disincantati, tutto ciò era la dimostrazione della fine di un ciclo storico di rivolte e di scontri frontali.
Alcuni tratti della Spagna del 1936, malgrado tutto, si possono rintracciare ancora. La società spagnola, e quella catalana in particolare, stanno esprimendo un notevole livello di laicità e di apertura culturale. La sensibilità verso l’educazione antiautoritaria è diffusa, mentre l’antimilitarismo è un dato pressoché scontato in molti settori giovanili. Inoltre i movimenti antiglobalizzazione sono radicati in ambienti intellettuali, e non solo, e assumono modelli organizzativi non verticistici simili a quelli tradizionali dell’anarchismo. Ancora: fermenti antiautoritari sono una costante di molti luoghi di vita alternativa come le case occupate e i centri sociali. Quindi lo spirito libertario è vivo.

Catalogna estate 1936. Un gruppo della Colonna Durruti
in viaggio verso il fronte aragonese

La riscoperta negli ultimi anni della “memoria dannata”, quella degli sconfitti, massacrati e calunniati dai generali golpisti (e non solo), ha portato ampi segmenti dell’opinione pubblica e di movimenti di base a recuperare quanto si era realizzato durante la rivoluzione e la guerra. E a valorizzare la resistenza generosa e disperata dei guerriglieri antifranchisti dopo il 1939.
In tale contesto sono stati pubblicati, nell’ultimo quinquennio, centinaia di libri e saggi sulla storia degli anarchici prima, durante e dopo il fatidico 1936-1939. È questo un ulteriore sintomo dell’attenzione verso le ipotesi libertarie e autogestionarie. Però non sempre si rileva piena consapevolezza del ruolo di un movimento che, dalla Prima internazionale, si è sforzato di dare concretezza alle aspirazioni utopiche.
Certamente le organizzazioni esplicitamente anarchiche non hanno oggi adesioni paragonabili a quelle del passato. Ad ogni modo le idee e i progetti libertari risultano sensibilmente presenti nei movimenti di opposizione al presente sistema autoritario e di creazione di alternative umanamente sostenibili.

 

 


Gioia, tubi Innocenti
e anarchia

di Colby

Dovremmo riprendere in mano il mutualismo e la cooperazione, pensare ad una pratica includente e gioiosa.

“Le macerie non le temiamo” scriveva Buenaventura Durruti.
Non le temiamo, no, abbiamo sempre pronta la chiave a cricco del 20/21/22 per stringere i morsetti dei tubi innocenti ed autocostruire un tetto sotto il quale poter fare socialità ed autogestione.
Siamo pronti a collegare fili, a filettare tubi, ad autocostruire, in un laboratorio collettivo, pannelli solari che ci daranno acqua calda a costo zero. In centocinquanta nel giro di un mese abbiamo tirato su le maniche e reso fruibile uno spazio sociale che abbiamo chiamato Libera. Era il luglio 2000 e dopo 3 anni meravigliosi e 5 anni di resistenza, altrettanto meravigliosi, contro la costruzione di un autodromo è stato sgomberato e immediatamente demolito, era l’8 agosto 2008.
Libera era includente, uno spazio anarchico che si lasciava attraversare da migliaia di persone. Libera era testimonianza che l’autogestione era possibile e voleva che chiunque venisse ad assaporarla e a toccarla con mano. Lungo un nostro corteo contro lo sgombero, con 3000 partecipanti, 3 donne ad una finestra esponevano un cartello fatto a mano sul quale c’era scritto “siamo con voi” ed è da sottolineare anche che il Comitato Cittadini di Marzaglia è voluto apparire sul manifesto in nostra solidarietà.
Gioia e inclusione.
Nel settembre 2010 a Rio Torto (Piombino) si è svolta la festa dell’USI e a Massa “Anarchia in festa”, due iniziative molto riuscite e partecipate dove ho ribadito alcuni concetti a me cari e sperimentati concretamente nell’azione “politica” della storia di Libera. Basta col piangersi addosso perché siamo continuamente repressi dallo Stato: è chiaro che bisogna sostenere chi è colpito dalla repressione ma dovremmo vivere con gioia e solidarietà i rapporti tra compagni e compagne e riempire di mutualismo, solidarietà, cooperazione e allegria la nostra progettualità.
Non siamo missionari, non siamo per la sofferenza, ma per costruire un mondo libero che dobbiamo assaporare e vivere fin da ora. Alla festa dell’USI sono stati presentati due ottimi progetti come l’Ambulatorio popolare di Genova e la Torrefazione del caffè zapatista a Lecco. Di solito si motivano i progetti spiegando che si parte dai bisogni ed invece io avrei più coraggio e parlerei anche della gioia di costruire progetti e di costruirli assieme a dei compa ed alla gente comune.
A Massa durante il dibatto sui crimini di stato ho ribadito il concetto che se vogliamo che vicende come quella di Stefano Cucchi o quella dell’anarchico Francesco Mastrogiovanni non si ripetano, visto che le leggi tuteleranno sempre lo Stato e i suoi servitori, dovremmo creare una rete di relazioni solidali con la gente, dovremmo riprendere in mano il mutualismo e la cooperazione, pensare ad una pratica includente e gioiosa, esattamente come la “Libera Officina” sta continuando a fare.

 


Non ho mai dimenticato

di Corrado Stajano

Io e altri giornalisti “borghesi” ci ribellammo davanti alle verità ufficiali.

Caro Paolo,
avevi 18 anni quando ci siamo conosciuti e io quasi 40. Adesso sei, quel che si dice, un uomo maturo e io un vegliardo. Quante cose sono accadute da quel 12 dicembre 1969.
Non ero e non sono un anarchico, come sai. Dell’anarchia, però, ho sempre avuto curiosità. Ne conoscevo origini e vicende, sapevo soprattutto di Bakunin, di Malatesta, di Kropotkin, sapevo della guerra civile spagnola, una grande passione: gli anarchici, per la prima volta nella storia, entrati in un governo, in Catalogna, i conflitti sanguinosi con il Partito comunista, il Poum, gli eccidi di Barcellona, le centinaia di vittime.

Franco Serantini

Le bandiere nere anarchiche, dopo il maggio francese, avevano cominciato a sventolare nei cortei degli studenti e degli operai d’Europa. In coda, a una ventina di passi dagli altri, a significare solidarietà, ma distacco, partecipazione, ma consapevolezza della diversità. Un orgoglioso ghetto volontario.
Piazza Fontana, la strage, fece da cesura nel cuore di molti. Quel pomeriggio entrai tra i primi nella banca, sangue, polvere, corpi dilaniati, vite spezzate. Immagini difficili da dimenticare. Valpreda fu da subito il capro espiatorio, scelto con oculatezza, il “mostro” cui attribuire ogni responsabilità. (Lo stanzone dei fermati in Questura era gremito. Tra gli altri Virgilio Galassi, ineccepibile e stimato funzionario dell’Ufficio studi della Banca commerciale in piazza della Scala dove, davanti a un ascensore, era stata trovata in tempo una borsa con dentro un’altra bomba. Intervenne con durezza Raffaele Mattioli, il presidente, per liberare Galassi).
Io e altri giornalisti “borghesi” ci ribellammo davanti alle verità ufficiali che facevano acqua da tutte le parti. Prefetti e questurini erano stupefatti di trovarsi di fronte non dei complici, come era sempre avvenuto nel passato prossimo e remoto, ma delle persone che facevano il loro mestiere, chiedevano senza timidezza, cercavano, volevano sapere la verità.
Poi Pinelli, una figura immacolata della memoria. Quella notte del 15 dicembre arrivai in Questura subito dopo mezzanotte, poi al Fatebenefratelli, poi sul pianerottolo della porta della casa di Licia, l’anello forte, donna di grande coraggio. E di nuovo in Questura a prender parte alla miserabile conferenza stampa del questore Guida.
Non ho mai dimenticato. Ci siamo visti e rivisti, caro Paolo, in quegli anni. Nel 1973 siamo andati insieme a Carrara – scrivevo per “Il Giorno”, allora un grande quotidiano: l’occasione erano le tradizioni politico-culturali di alcune città italiane. Andammo nella sede della Federazione anarchica, un impolverato salone tutto specchi che sapeva di antichi splendori. Un pianoforte su una pedana evocava balli ottocenteschi. Una stanza vicina era tappezzata di manifesti, i padri dell’anarchia, ma anche Pinelli e Franco Serantini che era stato ucciso dalla polizia l’anno prima sul Lungarno Gambacorti di Pisa.
Quando fu assassinato pensai subito che ne avrei scritto. Ma detesto gli instant-book. “Il sovversivo” uscì nella primavera del 1975 pubblicato da Giulio Einaudi. Di quella dolorosa storia mi avevano colpito le due morti del ragazzo sardo: quella feroce decretata dalla polizia e quella, altrettanto feroce, delle istituzioni che non avevano fatto giustizia, incapaci di processare se stesse come in uno Stato democratico dovrebbe accadere.
Per scrivere quel libro ero stato a lungo a Pisa. La FAI aveva la sua sede sopra il garage della Confraternita della Misericordia, in via San Martino, vicino alla casa dove abitava Luciano Della Mea. Ricordo i vecchi anarchici che passavano le giornate in quella stanza. Muti, seduti sulle seggiole contro il muro. Il più anziano, 88 anni, si chiamava Nilo. Serantini aveva portato là dentro la sua giovinezza, la sua voglia di fare, criticato per la sua esuberanza. Era un antifascista naturale.
Dalla vita ha avuto soltanto il funerale, grandioso, commovente, pianto da un’intera città. Chissà cosa sanno, che cosa pensano i giovani di oggi di quel crudele Novecento?
Caro Paolo, ho conosciuto anche Alfonso Failla, con grande ammirazione per la sua vita di lotte generose.

 


Pratiche sindacali
di vario tipo

di Cosimo Scarinzi

In questo ciclo di lotte si è formata una generazione di militanti, organizzatori, agitatori di orientamento libertario.

Gli ultimi decenni hanno visto nella nostra area lo svilupparsi di discussioni e, cosa che ritengo più rilevante, di pratiche sindacali di vario tipo.
Per un verso i compagni e le compagne impegnati su questo terreno hanno sentito l’esigenza dii riprendere la riflessione su esperienze passate importanti che vanno dall’USI dei primi decenni del secolo agli IWW, dalla CNT ai diversi movimenti consiliari che si sono sviluppati in Europa dopo la grande guerra,riprendendo le discussioni che videro nel passato i nostri compagni le nostre compagne discutere su natura, effettiva attività limiti e prospettive del sindacalismo. Penso, per fare un solo esempio, all’importante confronto fra Malatesta e Monatte al congresso anarchico di Amsterdam ma anche all’esperienza tragica della rivoluzione spagnola.
Per l’altro, e non sottovaluterei gli elementi di novità e di discontinuità rispetto al pur prezioso patrimonio storico del sindacalismo libertario dei secoli scorsi, abbiamo vissuto, a partire dagli anni ‘70, una serie impressionante di lotte, di movimenti, di esperienze organizzative che ci hanno portato, ognuno secondo la propria formazione e la propria sensibilità, a fare i conti con le lotte autonome di fabbrica, i movimenti che si sviluppano sul territorio come, ancora una volta faccio un solo esempio quello NO TAV, i linguaggi e le pratiche della nuova working class formatasi nella fabbrica fordista e toyotista, nei nuovi settori di lavoro sviluppatasi nelle società occidentali intorno alla riproduzione sociale quali la scuola e la sanità di massa ecc.

In questo ciclo di lotte si è formata una generazione di militanti, organizzatori, agitatori di orientamento libertario che intrecciano, nel definire la propria identità, un riferimento forte all’Internazionale ed al motto “L’emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi o non sarà“ vera e salda definizione della categoria “autonomia” con le specifiche modalità del moderno conflitto di classe.
Questa complessa vicenda ha visto, a partire dall’inizio degli anni ‘90, un’interessante evoluzione. La tradizionale bipartizione fra sindacati istituzionali e movimenti di base che vedeva i movimenti stessi svilupparsi su obiettivi puntuali senza porsi il problema di un’organizzazione stabile nel tempo, ha subito una significativa mutazione con la nascita, e in alcuni casi lo sviluppo di esperienze precedenti, del sindacalismo alternativo o di base.
Ovviamente le scelte sono state diverse e, almeno a parere di chi scrive, tutte meritevoli di rispetto. Vi è chi ha puntato su di un’opzione anarcosindacalista, chi ha fatto una scelta sindacalista intesa come adesione a sindacati radicali ma non identitari in senso forte, chi continua a ritenere opportuna la militanza di minoranza nelle organizzazioni tradizionali.
La mia esperienza, per quello che vale, mi induce a ritenere che le singole scelte sono certo legate a convincimenti generali ma che non va sottovalutato dove i compagni e le compagne sono collocati dal punto di vista del territorio e dell’attività lavorativa.
Si tratta, in ogni caso di una situazione interessante e che vede la necessità di porre in rete le esperienze, le riflessioni, le proposte.

continua...