rivista anarchica
anno 40 n. 357
novembre 2010


 

Italiani
Arabi d’Europa

Una volta un ragazzo iracheno mi disse: “Voi italiani siete gli arabi d’Europa”. Guardando al Mediterraneo si vede un grande lago che durante i secoli ha unito i popoli insediati sulle reciproche sponde. Popoli che durante la storia si sono mischiati, combattuti, rispettati, sino a trovare un equilibrio: una pax mediterranea.
La recente visita di Gheddafi si inserisce pertanto in un contesto meno esotico di quel che si crede e si lascia credere: in fondo la Libia rappresenta la testa di ponte di un mondo, quello arabo, e in senso lato quello africano (hic sunt leones), che ha con l’Europa del sud uno stretto rapporto di intenso interscambio.
Gheddafi è arrivato in un’Italia alla deriva. Senza prospettive di reali sviluppo, senza la progettualità politica attorno alla quale un popolo può costruire un sogno comune. In questo senso l’Italia diventa effettivamente una provincia remota di un continente che la storia ha relegato ai margini delle posizioni che contano: l’Africa giardino del mondo, depredato nelle sue risorse materiali come nelle risorse umane. E l’Italia, che Gheddafi paventa in via di africanizzazione come il resto d’Europa, è già a buon punto di questo percorso. E non c’è bisogno di riferirsi strumentalmente all’invasione degli immigrati, sulla quale paura gioca l’astuto leader libico: l’Italia si sta africanizzando da sola per colpa degli italiani, che hanno perso il controllo di uno Stato che adesso più che mai li tratta da sudditi sostituendo privilegi ai diritti.

Mu'ammar Gheddafi

Gheddafi è arrivato in un’Italia alla deriva e lui, dittatore, panarabista, ex socialista, gioca le sue carte, ossigeno per un’economia stantia dai tratti apoplettici. In Italia abbiamo bisogno di Gheddafi. Le commesse, che guardando al suo circo, plaudendo le sue lezioni coraniche, ed ascoltando come il cugino matto le sue esternazioni, hanno accordato futura linfa economica alle imprese italiane, sono un punto segnato in una partita che si continua a rimandare, quella della realtà economica italiana, a prescindere dalla propaganda di governo. Una linfa economica, quella dell’investimento in Libia, alla quale bisogna assolutamente attingere, la real politik ci insegna che visto che i soldi non hanno colore, adesso che non ve ne sono qualsiasi colore pur che si trovino.
E così si piega una nazione al ricatto. Si piega una nazione al teatrino di un leader politico scaltro e navigato che arriva a Roma, detta l’agenda e lancia ultimatum e proclama. Immigrazione e investimenti. La bilancia del nostro arlecchino del deserto ha questi due piatti. Degli investimenti e della loro necessità, sembra che ci si sia accordati per una zona franca in Libia dove le piccole e medie imprese italiane potranno operare sfruttandone le agevolazioni, si è già parlato. La politica italiana abdica alla propria funzione di guida economica per salire al volo sulla barca di questo imprenditore di Stato.
E poi immigrazione. Il tema immigrazione, si sa, lo sa, sta caro a tutti. Quindi l’Italia diventa un palco dal quale lanciare sfide e provocazioni a tutta l’Europa. Gheddafi conosce la realtà che preme dietro le spalle della nazione libica: milioni e milioni di diseredati dalla storia e dalla corruzione che premono per scappare in Europa a raccogliere quel che pensano possa essere, a torto, un futuro migliore. Vuole 5 miliardi l’anno per bloccare questo esodo. Ci spaventa. Ci prende come fanno i nostri politici per la pancia, e fa leva sulla paura dell’invasione. Invasione sarà finché l’Europa geograficamente resterà l’approdo naturale per queste persone. Gheddafi non può fare nulla contro di questo. Può solo provare sfruttare, a suo fine, l’irrazionalità con la quale la maggioranza degli europei affronta l’argomento.
L’invasione è già in atto e inarrestabile. Il mondo occidentale porta nel suo benessere le responsabilità di tale esodo. Gli stati sociali europei giustamente collasseranno nel caso il fenomeno dovesse incrementare nel breve e medio periodo, ma come provare a salvare capra e cavolo? Non ci sono soluzioni oltre il ricatto libico?
Certamente ci sono, ma nessuno le ha nominate durante l’assurdo e triste spettacolo visto nei giorni passati.
Investire nei paesi in via di sviluppo in maniera che chi, la meglio gioventù, si appresta a partire ad ogni costo, si faccia due conti, e avendo finalmente la possibilità di vivere dignitosamente nel proprio paese, decida di rimanervi. Andare avanti su questa strada è l’unica soluzione possibile, l’unica soluzione razionale, che guardi al mondo del XXI secolo per quello che è, analizzandone la storia e le dinamiche che fin qui ci hanno condotto.
Gheddafi non è nessuno, perché nessuno, anche con 5 miliardi annui può bloccare un movimento epocale, le migrazioni di massa che caratterizzano questo momento nel quale il mondo e l’essere umano cercano le nuove forme di un futuro sempre più incerto.
Come arabi d’Europa gli italiani, noi italiani, abbiamo il dovere di vedere aldilà del nostro naso, guardare le sponde del Mediterraneo che ci sono di fronte, rovesciare con gli argomenti l’isteria, non tacere nemmeno una volta quando l’irrazionalità suggerisce la via più breve, per il disastro finale. Quello di una umanità che collassa perché non è in grado di garantire la dignità dei suoi individui. Qualunque sia la provenienza.

Fabrizio Dentini

 

Ricordando Colin Ward
A Londra

È stata una giornata calda e impegnativa, ma in fondo gratificante per le due centinaia di persone che hanno affollato un angolo tranquillo della Red Lion Square, nel centro di Londra, passeggiando e conversando per tre ore per il Colin Ward Memorial Event, Conway Hall, Londra, 10 luglio 2010.
Il funerale di Colin Ward, il 1° marzo, aveva riportato alla mente lo spirito e l’ironia dell’uomo, mentre questa iniziativa ha piuttosto riguardato la sua figura pubblica, la sua visione politica e le impressioni che egli ha lasciato a coloro che hanno collaborato con lui.
I primi due oratori sono stati, come si conviene, i principali promotori dell’evento. Ken Worpole, curatore del volume in onore di Colin Ward, Richer Futures, ha creato la giusta atmosfera con un cordiale benvenuto agli intervenuti, raccontando come aveva conosciuto Colin nel primi anni settanta e spiegando le caratteristiche di assoluta originalità di Colin come teorico ambientalista e come educatore. La moglie di Colin, Harriet, ci ha offerto un ritratto dell’uomo timido ma intellettualmente affascinante che aveva conosciuto a un corso di aggiornamento per insegnanti nel 1965.
Stuart White, autore del saggio Making Anarchism Respectable, ha fornito un’accurata analisi della posizione di Colin nel contesto politico generale ed è stato convenientemente seguito dall’intervento di Peter Marshall, autore di Demanding the Impossible: A History of Anarchism, che ha esaminato la posizione di Colin nell’ambito della tradizione anarchica.
Questi interventi sono stati tutti presentati da un leggio alla sinistra del palco, mentre un grande schermo al centro mostrava una fotografia di Colin alla sua macchina da scrivere. Poi lo schermo si è animato mentre il regista Mike Dibb presentava una parte del suo DVD, Colin Ward in Conversation with Roger Deakin, nella quale Colin parlava del proprio coinvolgimento nel processo ai redattori della rivista Freedom nel 1945.

Londra, Conway Hall, 10 luglio 2010. Harriet Ward ricorda
il marito Colin (nella diapositiva sullo sfondo)
durante l’iniziativa in sua memoria

Con un altro cambiamento di atmosfera, mio fratello Tom si è messo al piano e mi ha accompagnato mentre cantavo una canzone americana degli anni venti, che mio padre ascoltava volentieri e di cui apprezzava le parole: Always Lift Him Up (And Never Knock Him Down). La canzone comincia così:

When a fellow has the blues and feels discouraged
And there’s nothin’ else but trouble all his life
When he’s always grumbled at and never happy…
Do not fail to lend a hand and try to help him
Always lift him up and never knock him down

[Quando un compagno è triste e si sente scoraggiato
E non ci sono che guai nella sua vita
Quando è sempre incupito e non è mai contento…
Non mancare di dargli una mano e cerca di aiutarlo
Tienilo sempre su e non deprimerlo mai]

Negli anni settanta l’assistente di Colin, quando era il responsabile dell’educazione della Town and Country Planning Association, era Tony Fyson, che è stato felice di condividere i propri ricordi personali di collaborazione con lui e di elencare il repertorio musicale, dalle arie d’opera a quelle del music hall, che Colin era solito cantare in ufficio.
Dennis Hardy, coautore con Colin di due libri pubblicati negli anni ottanta, ha raccontato come entrambi si divertissero nei loro giri di indagine sul campo, a intervistare le persone e osservare gli ambienti sia urbani sia rurali, per ricavarne i dati su cui scrivere.

Ken Worpole, l’organizzatore dell’evento
in memoria di Colin Ward

Del ruolo di Colin come educatore ha parlato Roman Krznaric, con un discorso eloquente; Eileen Adams,che è stata sua collaboratrice negli anni settanta nel progetto Art and the Built Environment, ha fornito un affettuoso ricordo di come “mi lasciava sempre nella merda, ma era sempre pronto a tirarmene fuori”
Peter Hall, che ha collaborato con Colin per il libro Sociable Cities, e che oggi è il presidente della TCPA, ha offerto una divertente descrizione delle difficoltà incontrate per convertire i testi dattilografati di Colin in documenti utilizzabili sul computer. L’ultimo contributo all’evento è stato quello del geografo Brian Goodey, che ha ricordato un numero di Anarchy del 1968, che conteneva un articolo su Bob Dylan del compianto Charlie Gillett, che sarebbe poi diventato un critico musicale di fama mondiale.
Sul fondo della sala erano sistemati alcuni stand, con libri di Freedom Press, della Housman’s Bookshop e di Five Leaves Publications, il cui fondatore, Ross Bradshaw, ha contribuito all’organizzazione dell’evento. La sua casa editrice, Five Leaves, ha pubblicato e ristampato molti testi di Colin Ward. Era anche in vendita il libro di Harriet Ward su suo padre, A Man of Small Importance, insieme a cartoline di un disegno che ritraeva Colin, opera dell’illustratore Simon Farr, realizzato nel 1990. Dan Poyner ha presentato una maquette di libro in progetto che raccoglierà le copertine degli anni sessanta della rivista di Colin, Anarchy, insieme a una raccolta di numerose foto e altri ricordi della sua vita.
Tra i numerosi intervenuti, erano anche presenti i più vicini familiari di Colin, compresa la cognata Kate, la nipote Sue, il nipote Colin, i cugini Barbara e Tony, il quale, nel 1991 aveva collaborato con lui per – indovinate cosa? – un libro.

Ben Ward
(traduzione dall’inglese di Guido Lagomarsino)

Violenza precaria e
Etica del lavoro

La violenza non piace a nessuno, a parte i sadici. Nessuno gradirebbe diventare l’obbiettivo di una contestazione verbale e tantomeno di aggressione mezzo fumogeni, mentre dal palco del partito che vorrebbe essere l’alternativa al potere pidiellino, ci si accinge a dibattere sulle prospettive del mondo del lavoro italiano. Il Bonanni, segretario generale CISL è stato aggredito, contestato e fatto scappare prima del suo intervento. Alcune considerazioni in merito sembrano doverose, più alla luce delle dichiarazioni rilasciate in seguito che alla contestazione in quanto tale. Per gli esuberi umani della produzione o per un giovane, precario, flessibile, lucidamente ai margini di un paese sull’orlo del baratro, infatti, i motivi della contestazione possono risultare alquanto evidenti e sono quindi le reazioni verbali a questo attacco che dovrebbero stimolare una profonda riflessione.
È stato espresso da più parti discredito totale e biasimo generale per chi si è permesso, evidentemente extraparlamentare, di interrompere un comizio organizzato da una forza istituzionale. Anche le parole del Bonanni inseriscono con chiarezza la contestazione nella dimensione di realtà dalla quale è nata: il totale disinteresse delle istituzioni verso le problematiche nate nel solco delle sempre più pressanti sfide globali. Al disinteresse si somma, ed è ancora più grave, la mistificazione palese della natura della contestazione: “Erano giovani, dei centri sociali. Non erano lavoratori. È la gente che va a fare violenza allo stadio, professionisti della violenza, che naturalmente di fronte ai toni esagitati degli ultimi tempi provano ad inserirsi. Per questo alcuni farebbero bene ad abbassare i toni.” Qui non si tratta di una risposta politica avversaria, ma di una gretta degenerazione, più o meno consapevole, a seconda dell’onestà intellettuale del Bonanni, della capacità di analisi dell’Italia di oggi. Non erano lavoratori, forse il Bonanni è dotato di tale istinto sindacale da riuscire a capire l’impiego, il contratto, la categoria, direttamente al primo sguardo. Non erano lavoratori, dunque non hanno nemmeno il diritto di parlare, sembra sotto intendere, figurarsi se possono permettersi di contestare. In questa società post moderna, chi non lavora, ce lo ricorda il Bonanni, non ha lo status sociale tale da poter vivere pienamente la propria cittadinanza. E qui si gioca il nesso della contestazione stessa. Chi è che contesta in finale?
Chi si sente irriducibile al tradimento che le istituzioni stanno compiendo sulle spalle dei lavoratori. Traditi da un governo, che ben anche se di destra, in teoria dovrebbe tutelare il proprio popolo elettore, traditi dai sindacati che svendono l’operaio alle direttive aziendali, traditi, ricattati e lasciati alla deriva con il paese tutto a perseguire nella solitudine e contro le forze centrifughe della globalizzazione, in conflitto fra capitale e diritto del lavoro, un ormai solo agognata dignità lavorativa ed esistenziale.
I metalmeccanici oggi sono senza contratto nazionale, lo zoccolo duro del lavoro italiano, le leggendarie tute blu, sono in via di rotta, hanno perso ogni potere contrattuale sulla via della negoziazione per il valore della mano d’opera offerta, e questo soprattutto per tre motivi: perché FIAT è diventata come tutte le aziende globali, un potere extraterritoriale, non limitata al paese di origine e senza prospettiva di appartenenza ai vincoli nazionali geografici, perché il Governo ha buon gioco, il più semplice, a seguire l’aut aut delle imposizioni industriali di Marchionne, come unica soluzione possibile perché unica proposta e in finale perché la politica sindacale dei cosiddetti confederati (CGIL, CISL e UIL) ha perseguito uno strada di contrapposizione, in vista di non si capisce quale beneficio relativo, se non del prestigio personale ai tavoli del capitale transnazionale. È l’italo- lavoratore è stato venduto, grazie alla logica globale della competitività e della produzione.
Indubbiamente la politica sindacale ha fallito nel corso degli ultimi decenni il suo scopo primario. La corretta tutela del lavoratore. Oggi infatti anche i metalmeccanici salpano per il porto della precarietà, con l’ipotesi ventilata e ormai sempre più prossima della contrattazione individuale: un abominio dal punto di vista sindacale. Nel frattempo, FEDERMECCANICA stracciando il vecchio contratto nazionale targato 2008, conduce il mondo del lavoro italiano, a partire dal referendum di Pomigliano d’Arco, verso la delegittimazione finale del lavoratore in quanto portatore di diritti, diritti che vengono reinterpretati, nella logica globale della massimizzazione del profitto e della riduzione dei costi, come dannosi strumenti che intervengono a impedire quel che le dirigenze industriali invece vorrebbero promuovere. La competizione interna alla classe operaia del ventunesimo secolo, ma non, come si potrebbe pensare, per la logica meritocratica ineccepibilmente necessaria in questo paese, ma per la logica del ricatto, a scapito dei propri colleghi, di una stragrande maggioranza di lavoratori presi per la gola e sempre più bisognosi di lavorare. Per questo il Bonanni può strumentalmente affermare che la FIOM, secondo lui sindacato antidemocratico, non rispetta la volontà della maggioranza dei lavoratori. La maggioranza di essi con l’acqua alla gola è costretta a vendere se stessa, più o meno consapevolmente, solo per poter lavorare, solo per avere il diritto di poter continuare a vivere, sempre peggio, del proprio lavoro. Infondo il gioco degli industriali ha il senso di scoprire la strategia auto lesiva dei sindacati italiani che nel corso dei decenni per difendere gli interessi di tutti (anche di chi non lo meritava ma era tesserato), hanno finito per compiere un clamoroso errore, dal punto di vista dell’etica del lavoro: permettere il ricatto, che adesso viene legittimato dal contratto individuale, di chi si è sempre approfittato dei diritti acquisiti, tanto il sindacato non avrebbe permesso nessun azione di allontanamento da parte delle dirigenze. Il primo ricatto insomma è stato degli operai verso altri operai, e su questo c’è poco da lamentarsi. Bisogna semplicemente ammetterlo. Se poi Marcegaglia afferma che la disdetta del contratto nazionale da parte di Federmeccanica è un atto di chiarezza, tocca allora adesso ai metalmeccanici fare chiarezza nelle loro file, per riprendere con senso di causa le sfide inesorabili alle quali sono chiamati.
Un referendum nazionale fra le tute blu, sembra la strada da percorrere nel minor tempo possibile, perché mentre la velocità rapace del capitale non lascia il tempo di ponderare le decisioni migliori, e mentre i sindacati perseguono le proprie politiche di prestigio, solo ai lavoratori resta adesso, e per poco, la facoltà di decidere come meglio scegliere di lavorare per vivere o vivere per lavorare.

Fabrizio Dentini

Chi ha ucciso
Vladimir Vysotsky

Si credeva fosse morto di alcol e di disperazione
Roma - Vladimir Vysotsky era un mito nell’Urss plumbea degli anni Settanta. Poeta, cantante ed attore aveva un seguito enorme tra i giovani ed i non conformisti. Le sue canzoni erano proibite per il loro tono irriverente: ma i nastri clandestini circolavano a milioni. Tutto finí venti anni fa, il 25 luglio del 1980: l’irriverente menestrello aveva solo 42 anni quando se ne andò, per sempre: infarto e abuso di alcool, queste le cause ufficiali del decesso.
Ma ora emerge una nuova testimonianza secondo cui non si trattò affatto di una vita bruciata troppo velocemente in maniera quasi volontaria e comunque autodistruttiva; ma di assassinio organizzato dal Kgb – i mitici servizi segreti del comunismo sovietico – per disfarsi di un dissidente imbarazzante.
È quanto scrive Marlena Zimna, autrice di un libro dal titolo “Chi ha ucciso Vysotsky?”, di imminente pubblicazione, di cui ha anticipato il passaggio principale in un’intervista comparsa sul giornale polacco “Rzeczpospolita”.

Marlena Zimma

La signora Zimna afferma di aver incontrato il medico del «bardo» dissidente poco dopo la sua morte. «Abbiamo fatto un lavoretto geniale», le rivelò, spiegando che lui ed agenti del Kgb bloccarono il menestrello, lo legarono, e gli fecero ingerire sostanze tossiche, calmanti ed alcool. In quelle condizioni – disse ancora il medico, morto poco dopo, anche lui in circostanze non chiarite – Vysotsky soffocò.
La morte del «bardo» creò un trauma tra i giovani sovietici: ai suoi funerali era presente una folla impressionante che aveva imparato ad amarlo sulle cassette pirata. Un ruolo importante svolse anche l’ex moglie, l’attrice Marina Vlady, che molto ha fatto per tenere in vita il ricordo del grande poeta, incidendone le canzoni in Francia. Già personaggio culto in vita nell’Urss e nei Paesi dell’Est, lo divenne ancor di più dopo la morte. Per anni ed anni migliaia di persone hanno commemorato l’anniversario del suo decesso; mentre ancor oggi sulla sua tomba nel cimitero moscovita di Vaganovskoye non mancano mai fiori freschi.
Da quando la perestroika di Mikail Gorbaciov ne permise la vendita ufficiale, i suoi dischi hanno venduto un centinaio di milioni di copie, gli sono state intestate fondazioni ed erette statue.

Marlena Zimma

Grecia /
Ristorante Autogestito

Dal 7 giugno, il ristorante Barthelonika nel centro di Salonicco sta lavorando in modo auto-organizzato, gestito dai suoi operai. Tutto è iniziato quando il proprietario del ristorante ha annunciato ai lavoratori che il ristorante chiuderà per tre mesi durante l’estate e che deciderà il suo destino nel mese di settembre. I lavoratori, da parte loro, sostengono l’attività è in profitto e non c’è motivo di sospendere il suo funzionamento.

Salonicco (Grecia).
Il ristorante autogestito Barthelonica

E così, hanno fatto un accordo informale in base al quale i lavoratori si assumeranno la gestione del ristorante per due mesi, per consentire loro di non diventare disoccupati. Ora, come ci dicono, il ristorante Barthelonika “lavora normalmente, senza padroni, manager e rapporti gerarchici. Noi tutti insieme decidiamo su tutto, troviamo i fornitori e curiamo il posto. In questo clima di crisi, se accettiamo le decisioni dei padroni senza reazione ci sarà condotto direttamente alla abiezione “, si stressa.
Immediatamente dopo aver assunto la gestione del ristorante, i lavoratori hanno applicato una riduzione del 30% su tutti i piatti e hanno invitato la società di Salonicco a sostenere questo progetto di auto-gestione. Una domenica di giugno la cucina di Barthelonika è stata trasferita al Festival Anti-razzista, dove i lavoratori hanno deciso di partecipare e cucinare per i visitatori

(Fonte: il quotidiano greco O Dromos
grazie per la collaborazione a Enrico Massetti)

Ungheria /
Torna la peste bruna

Per molti ungheresi la parola “Trianon” evoca la peggiore disgrazia della nazione. Ma non tutti sembrano avere le idee chiare in proposito.
In molte scritte murali, su qualche manifesto e negli slogan di piazza, Trianon viene evocato come una persona fisica responsabile della rovina ungherese. Nelle manifestazioni della destra populista capita di sentir gridare: “Trianon, vieni qui se hai coraggio”, come ha riportato la giornalista Joelle Stolz. In realtà è il nome del palazzo dove il 4 giugno del 1920, in Francia, venne firmato un trattato che costò all’Ungheria circa due terzi del territorio nazionale, come conseguenza della sconfitta asburgica. Scegliendo nel 1938 di schierarsi con la Germania nazista, l’Ungheria sognava di ritrovare gli antichi confini e, nonostante sia diventata membro dell’Unione europea, la speranza rimane ancora viva. L’estrema destra ungherese ha tentato in varie occasioni di mobilitare le minoranze ungheresi che vivono nei paesi confinanti e anche il Parlamento di Budapest fa la sua parte. Il 26 maggio, presentato dal partito cristiano conservatore Fidesz, è stato adottato un emendamento alla legge sulla nazionalità che consente a ogni esponente della “stirpe magiara” di chiedere un passaporto ungherese (soprannominato “passaporto Trianon”) anche senza la residenza. Basta avere “antenati ungheresi” e parlare la lingua. Teoricamente potrebbe venir richiesto da tre milioni e mezzo di persone che vivono in Slovacchia, Serbia, Romania, Ucraina e Croazia. Nel gennaio 2011 l‘Ungheria dovrebbe assumere la presidenza dell’Ue, ma i “rischi di destabilizzazione nell’Europa dell’Est”, come ha denunciato il giornalista austriaco Gregor Mayer, rimangono consistenti. Molti esponenti del Fidesz si sentono “vittime di una ingiustizia storica”, mentre il partito Jobbik (xenofobo e antisemita) reclama esplicitamente la restituzione di quanto venne perduto con il trattato di Trianon.
Gabor Vona, leader di questa organizzazione che si considera erede delle Croci Frecciate (collaborazionisti dei nazisti), ha definito l’Ungheria un “territorio occupato”. Altri esponenti di questo partito di estrema destra hanno rivendicato gli accordi con cui Hitler aveva restituito ai suoi alleati ungheresi alcuni territori della Slovacchia.
In una variante finora inedita (e ancora più paranoica) del “complotto sionista”, Gabor Vona sostiene pubblicamente che Israele starebbe cercando di “comprare l’Ungheria attraverso intermediari tedeschi per avere un rifugio in Europa” nel caso uscisse sconfitta da una futura guerra mediorientale. Sebbene l’Ungheria abbia adottato in febbraio una legge che punisce la negazione dell’Olocausto, la stampa di destra sta diventando sempre più violentemente antisemita. Si è arrivati a chiedere l’eliminazione dalle biblioteche di alcuni scrittori ebrei ungheresi definendoli “traditori della patria”. Per l’estrema destra populista, gli ebrei sarebbero stati “corresponsabili sia delle repressioni operate dal regime comunista che dell’attuale deriva neoliberista”. Oltre agli ebrei, nel mirino dei razzisti sono finiti i rom, circa 600mila persone. Sedentari da cinque secoli, i rom dell’Ungheria vivono soprattutto nel nord-est, in prossimità del confine con la Slovacchia.
In passato, la scomparsa dei lavori tradizionali veniva compensato dalle “cooperative socialiste” nell’industria e nell’agricoltura. Con la fine del comunismo di stato, le cose sono peggiorate. Se il livello attuale di disoccupazione raggiunge in Ungheria il 14%, per i rom si parla di un 90%. L’unica risorsa è rappresentata dagli aiuti sociali, in genere legati a lavori socialmente utili come la pulizia delle strade. Scarsa anche la presenza politica. Alle ultime elezioni vi erano solo quattro candidati di origine rom, uno con i socialisti, un altro con Fidesz e due indipendenti. Alimentando ad arte la paura per la “criminalità tzigana” e per la loro “fecondità incontrollata”, il partito Jobbik ha organizzato ronde e milizie. Nell’ultimo anno le aggressioni di stampo razzista contro i rom avrebbero provocato sei morti e altrettanti feriti. Il 22 maggio 2010 una delegazione di Jobbik ha partecipato alla manifestazione organizzata da Forza Nuova a Milano.

Gianni Sartori

Mastrogiovanni
E il sindaco-pescatore

Bologna, Pisa, Verona, Salerno, Ancona, Caserta, Trieste, Vallo della Lucania, Perugia, Genova, Massa, Cosenza sono solo alcune delle località nelle quali si sono tenute iniziative e manifestazioni per chiedere che venga fatta piena luce sulla morte di Francesco Mastrogiovanni, il maestro libertario deceduto il 4 agosto 2009, dopo 83 ore di contenzione, presso l’ospedale San Luca di Vallo della Lucania (SA).
Pochi giorni prima che si partisse per Massa e Cosenza , per dare vita ad altre due iniziative, a Pollica-Acciaroli, ridente paesino del Cilento, è stato barbaramente ucciso, dai clan camorristici, il sindaco Angelo Vassallo che emise il provvedimento di TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio, in pratica il ricovero forzato) nei confronti di Mastrogiovanni. Nelle ore successive al tragico omicidio si è tenuta a Pollica una fiaccolata di solidarietà e di protesta alla quale hanno partecipato esponenti del “Comitato verità e giustizia per Franco…e mai più”. Alcuni rappresentanti del Comitato, tra cui Giuseppe Galzerano, Giuseppe Tarallo e Vincenzo Serra hanno partecipato, a fianco della popolazione locale, ai funerali del “sindaco pescatore”, come veniva chiamato dai suoi concittadini.
Con Angelo Vassallo perdiamo, oltre a un amministratore che, come dichiarato dal fratello Claudio, era rimasto solo nella lotta alle mafie che imperversano nel Cilento (al quale aveva confidato, pochi giorni prima di essere ucciso, che “personaggi delle forze dell’ordine erano in combutta con tipi poco raccomandabili”), un testimone importante per capire come e perché, quella mattina di fine luglio 2009 (alle ore 8.30, come si evince dal verbale dei carabinieri) decise di emettere il TSO che portò al ricovero di Mastrogiovanni presso il reparto lager di psichiatria dell’ospedale di Vallo.
Nonostante i tristi eventi, il Comitato ha confermato la partecipazione alle due iniziative previste. Presso il Centro Sociale Officine Babilonia di Cosenza, in collaborazione con il gruppo eco-sociale Malatesta di quella città, sabato 11 settembre, alle ore 18.30 dopo la proiezione del filmato tratto dalla trasmissione RAI “Mi manda Rai Tre”, hanno preso la parola Oreste Cozza (collaboratore del settimanale anarchico Umanità Nova), Angelo Pagliaro (Comitato verità e giustizia per Francesco Mastrogiovanni), Davide Colace (CGIL Cosenza) e Vincenzo Serra, cognato di Mastrogiovanni, recatosi in Calabria per aggiornare i presenti oltre che sugli sviluppi delle inchieste, sulle date delle prossime udienze del processo con giudizio immediato.

Francesco Mastrogiovanni

Al dibattito è seguito un “buffet delirante” a base di prodotti tipici calabresi, il tutto bagnato con vino “tinto” offerto dalla FAI di Spezzano Albanese. In un locale completamente annebbiato dagli effetti speciali ottenuti con il fumo dei sigari toscani di Domenico Liguori, si è esibito Alessio Lega in un concerto che lui stesso ha definito familiare, considerata l’esigua presenza di pubblico. Il cantastorie leccese ha presentato, tra gli altri pezzi, la ballata per Mastrogiovanni alla cui elaborazione ha contribuito Ascanio Celestini. Mentre si prepara un nuovo appuntamento romano, presso il circolo anarchico Carlo Cafiero, nella stessa serata di sabato 11 settembre, a Massa, nel corso della 3 giorni “Anarchia in Festa”, si è tenuto un dibattito contro gli omicidi di stato. Presentati da Frano Serantini, della Biblioteca “Franco Serantini” di Pisa (dedicata appunto alla memoria di un giovane anarchico pestato dalla polizia e lasciato morire in carcere, 38 anni fa) hanno parlato, Giuseppe Tarallo, presidente del “Comitato verità e giustizia per Franco Mastrogiovanni” (www.giustiziaperfranco.it), il padre di Carlo Giuliani e – con una testimonianza tanto semplice quanto appassionante – gli affranti, dignitosi e combattivi genitori di Stefano Cucchi.

(si ringrazia per la collaborazione Angelo Pagliaro)

Sacco e Vanzetti,
Un grande patrimonio
Ma non di tutti

Sono passate poche ore da quando le agenzie di stampa hanno lanciato la notizia che l’On. Antonio di Pietro ha ”inaugurato”, a Torremaggiore (FG), l’Associazione Sacco e Vanzetti che non si fanno attendere le prime reazioni a mezzo stampa. Vari siti Web e blog vengono invasi da e-mail dal contenuto critico del tipo: ma Di Pietro non è quello che ha votato contro l’istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sulle brutalità del G8 di Genova del 2001? Ma Di Pietro non è il parlamentare più giustizialista che la storia italiana conosca? E via dicendo!
Certo, la seconda (sic!) inaugurazione dell’Associazione, questa volta ad opera dell’On. Di Pietro (la prima era stata celebrata nell’agosto del 2007 in occasione dell’80° anniversario del duplice omicidio di Stato), è un atto difficile da decifrare. Giuseppe Galzerano, editore, scrittore e storico campano intravvede una speculazione politica e umana di basso profilo anche perché, come tanti cittadini attenti ai fatti politici sta assistendo, in questi giorni, a un via vai di deputati, senatori, europarlamentari che, percorrono in lungo e in largo la penisola, preoccupati per l’incombente appuntamento elettorale, chiamando a raccolta i più fidati portatori di voti, per dare vita ad associazioni e fondazioni autoreferenziali e, da intellettuale corretto e passionale qual è, scrive subito alla stampa libertaria e a vari giornali pugliesi i quali riportano fedelmente le sue parole. Il suo pensiero viene riassunto dai media con la frase : “Che ci azzecca Antonio di Pietro con Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti?”. Alle osservazioni di Galzerano hanno risposto in tanti: da Matteo Marolla (presidente dell’Associazione nonché esponente di primo piano dell’IDV in quella città), a Tommaso Marabini, (profondo conoscitore della storia dell’anarchismo), a tanti cittadini e persino componenti della stessa Associazione S & V, come Alberto Scudieri, che si erano già dimessi e che ora vedono confermate le ragioni del loro dissenso.
Ma la risposta in assoluto meno rispettosa dell’uomo e dello studioso Galzerano è venuta proprio dalla nipote di Nicola Sacco, la Sig.ra Fernanda, la quale, tra l’altro afferma: “Come socialisti, noi di famiglia, Sacco, abbiamo sempre condannato le sue idee politiche, ma ci siamo ribellati contro la condanna per omicidio a scopo di rapina.” È proprio su questi due punti: le tradizioni socialiste di famiglia e le macchinazioni ordite intorno alla famosa rapina che, in questa sede, vogliamo fornire, alla Sig.ra Fernanda Sacco e a chi continua a sostenere le sue tesi, alcuni contributi e riferimenti documentali. Sabato 8 ottobre 1921, il quotidiano anarchico Umanità Nova (anno II n.153) pubblica, in prima pagina, un’agile autobiografia di Nicola Sacco (farà lo stesso il giorno successivo, domenica 9 ottobre, con Bartolomeo Vanzetti) dal titolo “Documenti umani- Sacco e Vanzetti dipinti da se stessi” nella quale si legge: “…(…)…Mi buttai anima e corpo nella mischia: mi feci organizzatore di comizi e di conferenze; appartenni per breve tempo alla Federazione Socialista Italiana. Ma desideroso di più aria, né intendendo perdermi nelle lotte sterili che dovevano culminare in una esaltazione di una unione operaia in concorrenza ad un’altra, fui trasportato dal mio stesso ardore e dalla volontà di fare, verso gli aggruppamenti liberi fino al giorno malaugurato in cui mani impudiche di birri mi catturarono e mi allinearono per le maggiori rappresaglie del nemico…(….)….”. Ecco, sig,ra Fernanda, zio Nicola motiva la sua adesione al movimento anarchico con la bellissima espressione “desideroso di più aria” senza condannare la Federazione Socialista Italiana, nella quale ha militato ma rilevando, con una sottile vena critica, il fatto che, a suo avviso, i socialisti si stavano perdendo in lotte sterili promuovendo, inoltre, una sorta di concorrenza tra le varie organizzazioni operaie.
Per quanto riguarda il secondo punto, ossia la famosa rapina per la quale vennero arrestati e la successiva condanna per omicidio a scopo di rapina verso la quale la Sig.ra Fernanda si ribella e che “comunica” ai giovani delle scuole, “senza interessi politici”, bisogna dire che, anche se non disposta a valutare gli interessi politici, almeno riconosca le motivazioni politiche dell’arresto dei due emigranti italiani per conoscere le quali, anche in questo caso, ci vengono in aiuto i documenti dell’epoca. Rileggiamo, ancora una volta, Umanità Nova (anno II n. 152) venerdì 7 ottobre 1921 che, in prima pagina, pubblica un articolo dal titolo “Perché vennero arrestati Sacco e Vanzetti” - L’affare Salsedo dove si raccontano le fasi che condussero all’arresto dei due: “…(…)…una delle ragioni per le quali gli sbirri del Massachussets posero gli occhi addosso ai due operai italiani, oltreché il fatto delle loro idee da essi professate e della nazionalità a cui appartenevano - italiani erano e quindi, gente da poco, capace di tutti i più neri delitti – era quella di essersi essi occupati attivamente del caso del loro connazionale e compagno d’idee Andrea Salsedo, afferrato e misteriosamente detenuto negli uffici di polizia di New York, insieme ad un altro compagno italiano, Roberto Elia. Il 3 maggio 1920, Andrea Salsedo precipitava dalla finestra della sua cella situata, come abbiamo detto al quattordicesimo piano del grattacielo, e si sfracellava il cranio sul lastricato della movimentata arteria metropolitana…(…)”. Ecco perché Giuseppe Galzerano nella sua prima e tanto contestata nota afferma che nulla o pochissimo si conosce della vicenda dei due anarchici brutalmente assassinati su una sedia elettrica.

Giuseppe Galzerano

Sarebbe bastato leggere una buona parte dell’imponente massa di documenti processuali e alcuni articoli della stampa dell’epoca per capire che i veri motivi per i quali Nick e Bart furono arrestati, vanno molto aldilà di una, seppur gravissima, rapina a mano armata. Nell’articolo pubblicato da Umanità Nova si evince che bisognava fabbricare delle false accuse in quantità e soprattutto di una certa gravità perché nessuna di queste poteva essere dimostrata se non ricorrendo alle solite false testimonianze rese da personaggi squallidi e raccolte da giudici traboccanti odio verso gli italiani emigrati e ribelli. Sacco e Vanzetti vennero arrestati su un tram fra Brockton e Bridgwater il 5 maggio del 1920, prima di poter tenere il comizio che avrebbe dovuto avere luogo a Brockton il 9 maggio per chiedere verità e giustizia per Andrea Salsedo, con l’accusa di possesso dei volantini che pubblicizzavano tale iniziativa e di due pistole. Nel mentre, però, vennero accusati del doppio omicidio di un contabile e di una guardia del calzaturificio “Slater and Morrill”, delitto che aveva avuto luogo il 15 aprile, più di due settimane prima dell’arresto.

Sacco e Vanzetti, olio su tela 40x60, 2002

La storia del lungo processo farsa e il tragico epilogo lo conosciamo! Mentre i democratici di tutto il mondo piangevano la morte di Nick e Bart, qualche mese dopo la loro esecuzione uno slavo, proprietario di una fabbrica di tabacchi, cominciò ad andare in giro raccontando di essere tanto infelice per la morte dei due italiani. Diceva di volerli commemorare con una marca di sigarette che avrebbe portato i loro nomi ma che, soprattutto, gli avrebbe consentito lauti guadagni. Con l’aiuto di un intermediario arrivò a contattare Rosina Zambelli moglie di Nicola Sacco la quale, dopo aver letto la lettera, scosse il capo e disse di no; non avrebbe acconsentito ad un’operazione del genere.

Angelo Pagliaro
(si ringrazia Franco Schirone per la documentazione fornita)

A Gallico (RC)
Ricordando i cinque

Domenica 26 settembre, presso il CSOA Angelina Cartella di Gallico (RC), organizzato dagli Anarchici Reggini, Gruppi Anarchici Casentini e Federazione Anarchica Siciliana si è tenuto il preannunciato incontro in occasione del 40° anniversario della morte dei compagni anarchici Angelo Casile, Franco Scordo, Gianni Aricò, Annaliste Borth, Luigi Lo Celso, avvenuta in circostanze ancora avvolte da quell’italico mistero che è diventato una costante a partire dalla strage di Piazza Fontana.
La giornata, ancora estiva, in uno spazio piacevole e funzionale, ha visto una partecipazione insolitamente ampia, costituita in parte da compagni appartenenti alla generazione degli anni ‘70, in parte da compagni giovani e giovanissimi. In realtà il vero tema della giornata, già nelle intenzioni degli organizzatori, non era la commemorazione dei compagni e neppure fornire una messa a punto sulla ricerca di indizi che potessero ricostruire una dinamica dei fatti meno fumosa di quella emersa dalle indagini. Più correttamente, come è stato ben chiarito già nell’introduzione fatta da Pino Vermiglio, il problema è stato quello di portare all’attenzione dei giovani di oggi il senso e lo spessore dell’esperienza politica dei giovani anarchici tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta.
Questi compagni non solo rivendicavano, nella marea delle sigle leniniste, il valore delle idee e delle pratiche anarchiche, ma erano profondamente immersi nelle lotte sociali e, contemporaneamente, esigevano un ruolo attivo e propositivo nella riflessione teorica, nella ridefinizione degli obiettivi strategici e nelle proposte organizzative del movimento anarchico. Si è voluto, insomma, cercare di rafforzare un legame reso drammaticamente debole dall’inconsistenza numerica della generazione di mezzo, di quei compagni nati e cresciuti proprio all’indomani delle stragi di stato e dei cosiddetti anni di piombo.
Significativa, in proposito, la scelta di riproporre un opuscoletto con due brevi testi, uno di Bruno Misefari del 1920, l’altro della Gioventù anarchica, del 1967, che spiegano chi sono e cosa vogliono gli anarchici.

Pino Vermiglio e Natale Musarra

Natale Musarra, dell’Archivio storico degli anarchici siciliani, in un denso e pregevole intervento, ha ripercorso i momenti salienti dell’esperienza della Fagi, rapportandola da una parte al movimento nazionale ed internazionale, dall’altra alla dimensione locale del gruppo di Reggio Calabria. Dai documenti analizzati emerge che questo gruppo, anche grazie alle grandi qualità intellettuali ed alla forte personalità di Casile, era particolarmente avanzato nella elaborazione teorica e, per questo, contava solidi e stretti rapporti con le realtà anarchiche e libertarie di gran parte d’Europa.
Angelo Crea, detto il Bonzo, che ha condiviso la militanza con i compagni morti, ha descritto l’ambiente politico sociale nel quale si muoveva il gruppo, sottolineandone il radicamento con le lotte sociali del territorio e la difficile condizione della pratica antifascista, in una Reggio in cui spadroneggiavano squadristi armati, agli ordini di politicanti e delinquenti, sotto la protezione delle cosiddette forze dell’ordine.
L’avvocato Pino Morabito, che assieme al compagno Placido La Torre fu avvocato difensore degli anarchici reggini, ha tracciato un quadro estremamente preciso del loro ruolo protagonistico nelle vicende giudiziarie, conseguenza del protagonismo che avevano assunto nella dialettica politica e sociale della città.
Molti gli interventi, soprattutto da parte di chi fu compagno di lotte o amico personale dei compagni vittime dell’incidente. Il dibattito è stato vivace ma, prescindendo dai punti di vista, ha espresso un unanime giudizio: i compagni reggini erano giovanissimi, ma non erano sprovveduti e non facevano folclore. Erano preparati culturalmente, erano apprezzati umanamente, erano rispettati politicamente. Per questo rappresentavano un cattivo esempio, da fermare in tutti i modi, con le intimidazioni, le coltellate, il carcere, la morte.

I Suonatori Libertari Calabresi

In chiusura, l’intervento di Domenico Liguori, della federazione anarchica spixana, ha preso spunto dall’esperienza politica dei compagni e del gruppo di Reggio per indicare la necessità di un radicamento sociale degli anarchici, che, debbono ritornare a far sentire orgogliosamente la propria voce nelle piccole e nelle grandi battaglie, cominciando da quelle del proprio territorio.
Il gruppo dei Suonatori Libertari Calabresi ha interpretato alcuni brani della loro ultima incisione “Quanno vene l’Anarchia” e tre giovani artisti, hanno interpretato e musicato alcune poesie di Bruno Misefari.

Antonio Squeo

Le foto di questo articolo sono di Antonio Squeo e Alessia Stillitano.