rivista anarchica
anno 40 n. 357
novembre 2010


giustizia

Anarchia e diritto
di Sergio Onesti

Ovvero alcune riflessioni sul rapporto controverso che gli anarchici – quando si organizzano fra loro e con gli altri – hanno con diritto e giustizia.

 

Gli anarchici sono aprioristicamente contro ogni regola normata perché costituisce sempre la consacrazione formale di un rapporto di potere e, pertanto, di per sé ingiusta? Al di là del fatto che gli anarchici si dichiarano contrari ad ogni forma statuale ed alle leggi che la informano, nella loro pratica quotidiana gli stessi sono capaci di autorganizzarsi dotandosi di regole condivise che accettano e rispettano e nei rapporti con il mondo esterno nel quale interagiscono (centri sociali, comitati, coordinamenti etc) ricercano con gli altri regole di convivenza comune, sono disposti ad accettare tali regole e a quali condizioni? Legge e diritto hanno per gli anarchici il medesimo significato e che cosa intendono per “giustizia” in relazione ai rapporti che li legano al mondo esterno non istituzionalizzato?
Per gli anarchici, o meglio per le concezioni anarchiche più consolidate, la “giustizia” non è un concetto a priori. È invece un’intuizione dell’intelletto intesa come l’insorgenza di un sentimento, come il frutto dell’esperienza di vita ovvero come il risultato di un percorso razionale di conoscenza.
Mentre i principi di libertà, uguaglianza, rispetto delle diversità, pluralismo e solidarietà che accomunano gli anarchici consentono agli stessi di intuire il significato di giustizia in sé, è la concreta applicazione di tali principi nel mondo reale che permette loro in un determinato contesto spazio-temporale di avere conoscenza e coscienza del concetto di giustizia, non nella sua dimensione metafisica, ma in quella empirica delle manifestazioni umane, relative e mediate e, quindi, imperfette.
Questo percorso di interiorizzazione del concetto di giustizia non ha mai carattere spirituale e metafisico poiché la filosofia giuridica degli anarchici non mira a dare esecuzione ad uno scopo ultimo ed assoluto, ma ad un progetto il più ampiamente condiviso e, pertanto, concretamente perseguibile mediante un’unità di energie e di intenti dove la funzione del diritto è quella di concepire norme alle quali si possono effettivamente conformare le azioni umane.

Legge e diritto

Tutti i pensatori anarchici ed in particolare Proudhon hanno tenuto distinte le nozioni di legge e di diritto dove la prima costituisce mera manifestazione dell’esercizio in via esclusiva della forza monopolizzata dallo stato, mentre il secondo comprende tutte le forme di regolazione, di mediazione e di amministrazione dei rapporti, degli interessi e dei conflitti che occupano le vicende umane.
La critica radicale degli anarchici alle leggi dello stato e alla sua giustizia - intesa come manifestazione assoluta del potere e cioè di quell’entità, definibile volta per volta come capace di esercitare la forza che detta i limiti di libertà, uguaglianza e rispetto delle diversità – non può investire automaticamente il concetto di “diritto” in sé.
Al di là di una visione utopica di società ispirata solamente a principi anarchici, è un dato di fatto che sono sempre più gli anarchici, gli anarcosindacalisti e i libertari in generale che si dotano di strumenti normativi di autorganizzazione idonei a regolare l’attività e la convivenza interne ed i rapporti con il mondo esterno anche istituzionale.
Nel proprio contesto associativo, gli anarchici si autorganizzano adottando regole per lo più fondate su un vincolo di solidarietà reciproca per il perseguimento di un progetto comune alla costituzione della quale tutti partecipano attraverso un processo di elaborazione collettivo di confronto continuo fino alla condivisione delle forme e dei contenuti prescelti (es. atti costitutivi e statuti).
La validità di dette norme costitutive di una realtà organizzata in modo libertario e che dettano le regole del comportamento individuale e dell’azione collettiva non ha mai carattere assoluto per gli associati non essendo vincolata metafisicamente ad imperativi aprioristici ed anzi le norme che regolano i reciproci rapporti fra gli stessi sono accettate e condivise fintanto che conservano coerenza con i principi e con i valori che li hanno ispirati e permangono le condizioni reali esterne che ne avevano giustificato l’adozione.
Il principio pacta sunt servanda non è un dogma neanche per quegli anarchici che vorrebbero riferire la propria filosofia politico-giuridica alle teorie giusnaturalistiche.
Al contrario, all’interno del movimento anarchico e libertario si assiste ad un pragmatismo nei confronti delle proprie regole che non ha carattere ideologico, ma è manifestazione di buon senso comune e di adeguamento degli strumenti normativi alla realtà delle cose in continuo cambiamento.

Giustizia: rispetto reciproco e comunanza di idee

Il risultato di questo approccio pragmatico degli anarchici è che le norme – anche quelle pattizie che fondano i reciproci rapporti – vengono condivise con la consapevolezza che non possiedono validità assoluta ma relativa; non sono sacre in sé e sono per questo sempre interpretabili, modificabili e cancellabili. Ciò che è sacro è invece l’impegno assunto da ciascun associato che viene, però, mantenuto fintanto che le condizioni soggettive ed oggettive che lo avevano determinato permangono e continuano, quindi, a giustificarlo.
Per gli anarchici la coerenza personale non è un monolite freddo, insensibile ed eterno. Anzi, la coerenza personale è pratica quotidiana, forgiata nell’etica dell’esperienza del proprio essere in relazione agli altri e per questo motivo deve misurarsi con il contesto della realtà esterna e della complessità delle relazioni umane.
I patti vanno pertanto rispettati, ma non perché si debbano rispettare aprioristicamente ed acriticamente, ma perché continuano a contenere al loro interno le ragioni soggettive ed oggettive di vantaggio individuale nel quadro di un maggior benessere collettivo che ne avevano giustificato l’adozione.
Tale approccio al proprio universo normativo è del tutto coerente con la comune idea di giustizia che gli anarchici sentono come propria e che ispira la condotta degli stessi e la loro capacità di autorganizzazione: una giustizia dei rapporti fra associati che si fonda sul rispetto reciproco e sulla comunanza di idee e che, proprio per questo, è anche capace di adeguare gli strumenti di convivenza comune al mutamento della realtà delle cose.
L’idea di giustizia non coincide mai, invece, con l’idea di verità: ogni anarchico fa sì appello a quanto conosce empiricamente e razionalmente e che gli appare coerente con i principi ed i valori ai quali si richiama nella sua condotta, ma non dovrebbe mai esternare apoditticamente verità assolute ed, invece, comunicare nel rispetto del pluralismo delle idee la propria conoscenza empirica (cd. etica dell’esperienza).
È pacifico che l’anarchico come ogni altro essere umano in buona fede crede che sia vero quello che predica e pratica, ma ciò deve fare nella consapevolezza che la sua conoscenza empirica è di per sé imperfetta anche se ordinata nel modo più coerente nel proprio universo di ragione e coscienza secondo principi e valori che vanno affermandosi nella sua vita attraverso l’esperienza e non l’adesione a dogmi apodittici.

Valore pratico delle norme

Le norme hanno pertanto per gli anarchici un valore pratico che nulla ha a che vedere con le teorie giusnaturalistiche e tantomeno con quelle metafisiche dettate da ideologie della verità e della giustizia assolute.
Conseguentemente a quanto sopra affermato, il diritto degli anarchici è mero diritto posto ovvero quello che viene definito “diritto positivo” in contrapposizione al “diritto naturale”, perché è l’unico che si costituisce effettivamente attraverso l’incontro delle volontà, il confronto sui contenuti e la condivisione delle statuizioni.
Quello degli anarchici non è solo diritto pattizio, valido fra le parti che hanno partecipato all’elaborazione-statuizione delle norme, ma è anche adesione a quanto statuito da altri, sempre che successivamente condiviso, ovvero partecipazione alla revisione critica di quanto prima stabilito da sé o da altri.
La discussione politico-giuridico-etica degli anarchici sulle norme, che regolano la propria convivenza interna ed i rapporti con il mondo esterno a loro adiacente, non è mai una critica sul piano della logica filosofico-politica – come ad esempio avviene nella critica nei confronti dello stato e delle sue leggi ritenute istituzioni legittimate solo dall’esercizio in via esclusiva della forza - ma si esplica su un piano tecnico causale sotto il profilo oggettivo e psicologico sotto il profilo soggettivo.
In altri termini, l’obiettivo degli anarchici nella loro discussione politico-giuridica, (ed in questo senso sembra questa essere una pratica adottata anche dal movimento zapatista per giungere a decisioni più ampiamente condivise) coincide con lo strumento del dialogo aperto e diffuso, del confronto incessante e talvolta estenuante dove il punto di vista dell’oppositore o del critico è fatto valere non attraverso i rapporti di forza ma mediante l’adozione degli strumenti retorici dell’argomentazione-persuasione.

Retorica e dialogo come strumenti di accordo

Tali strumenti sono quelli offerti dalla conoscenza personale ed empirica, dall’utilizzo obiettivo di nozioni scientifiche, dalle tecniche di persuasione accompagnate da motivazioni squisitamente psicologiche e personali etc. L’obiettivo è quello di raggiungere un accordo, ovvero un nuovo accordo, un migliore accordo, ma soprattutto un accordo più pratico, più utile, più vantaggioso per sé e per gli altri e, in definitiva, più giusto in termini utilitaristici e pragmatici e non certo nei termini propri delle teorie giusnaturalistiche.
Quello che cercano gli anarchici in questa dialettica permanente non è la verità assoluta, ma la regolazione dei reciproci rapporti ed interessi ritenuta più giusta in quanto maggiormente corrispondente all’apparenza del vero e pertanto più adeguata alla realtà oggettiva delle cose ed a quella soggettiva delle volontà delle persone.
L’etica del dialogo adottata comunemente dagli anarchici richiama la tecnica di persuasione utilizzata dalla retorica greca che nulla ha a che fare con il termine dispregiativo odierno.
Al pari dei retori antichi, gli anarchici – chi più e chi meno – ricercano attraverso la parola e l’esempio il consenso di chi dialoga con loro; la loro è un’argomentazione razionale ma anche appassionata e, quindi, capace di incidere tanto sulle menti quanto sui sentimenti dell’interlocutore.
La retorica degli anarchici, per non essere inconcludente, deve contenere però anche una prospettazione pratica e non solo teorica di soluzioni che possano andare bene per tutti e per questo motivo oggetto di scelta personale e decisione collettiva.
Ciò che caratterizza, infine, la retorica classica da quella adottata dagli anarchici è che quest’ultima integra gli estremi della condotta etica dovendo essere esercitata nel rispetto della buona fede personale e della apparente verità delle cose che – si ribadisce – non è verità assoluta ed ideologica ma, proprio perchè deriva dalla propria conoscenza empirica delle cose, è imperfetta e sempre soggetta a revisione.

Conclusioni

Gli anarchici non hanno una teoria idealistica della giustizia e tantomeno del diritto.
Il diritto, a differenza della legge, che è manifestazione dell’esercizio in via esclusiva della forza da parte dello stato, è inteso dagli anarchici come una tecnica sociale di organizzazione di più soggetti, di regolazione di comuni e reciproci interessi e di amministrazione degli inevitabili conflitti interni ed esterni ed ha, quindi, carattere neutro.
Lo scopo del diritto per gli anarchici è, pertanto, quello della ricerca dell’accordo pattizio conseguibile solo attraverso il dialogo finalizzato al consenso reciproco; i contenuti di detto accordo debbono essere eminentemente pratici, mai fini a se stessi ed idonei, invece, ad organizzare ed esaltare le energie individuali e collettive.
In questo senso l’attività giuridica degli anarchici ha per scopo il vantaggio dei singoli in relazione al benessere di tutti nel rispetto concreto e possibile dei principi e dei valori della cultura anarchica.
In ragione di quanto sopra il diritto è per gli anarchici eminentemente diritto positivo perché costituisce i risultato del libero incontro di volontà consapevoli sempre modificabili e giammai di valori e principi che li trascendono.
Anche la politica del diritto degli anarchici è, pertanto, ricerca di un equilibrio sempre dinamico e mai statico perché diversamente istituzionale, fra interessi contrapposti, fra problemi complessi di difficile comprensione, articolazione e coordinamento, fra spazi di libertà individuale e limiti dettati da esigenze della collettività nel suo complesso, in una tensione perenne fra libertà ed uguaglianza, fra uguaglianza e rispetto delle diversità, fra pluralismo e solidarietà e via di seguito.

Sergio Onesti