rivista anarchica
anno 40 n. 354
giugno 2010


neo-colonialismo

Cronache dai popoli-spazzatura
di Gianni Sartori

Papua Nuova Guinea, Polo Nord, Haiti, India: molte sono le facce dello sfruttamento e del disprezzo delle popolazioni indigene, unico il volto del Potere e dell’arroganza.

 

1. Papua Nuova Guinea


Colonialismo cinese contro gli aborigeni

All’epoca ne aveva parlato solo qualche esponente dell’ecologia radicale (v. gli articoli su “Terra selvaggia”), ma la ribellione degli abitanti dell’isola di Bougainville negli anni novanta era costata circa 15mila morti.
Dai primi sabotaggi contro la realizzazione di una devastante miniera di rame a cielo aperto, proprietà di una società anglo-australiana, gli indigeni erano passati alla guerriglia secessionista contro Port Moresby, capitale della Papua Nuova Guinea. Su richiesta del governo, le truppe mercenarie di una società privata inglese avrebbero dovuto “bonificare” le foreste dove si nascondevano i ribelli. Fortunatamente, pochi giorni prima dalla spedizione, la società venne incriminata per aver organizzato un golpe in uno stato africano. I mercenari restarono in Gran Bretagna e la miniera da allora è rimasta chiusa.
Ma un altro colonialismo è da tempo sbarcato in Melanesia per aprire miniere (di nichel e cobalto) e distruggere foreste, minacciando i diritti e la cultura tradizionale degli indigeni. Sulla costa nord orientale di Papua Nuova Guinea è in costruzione una raffineria della Ramu NiCo per la lavorazione del nichel. Il contratto per l’estrazione del minerale era stato siglato nel 2004 dal primo ministro papuano Michael Somare a Pechino. Nel 2007 la società, controllata dal China Metallurgical Group, ha inviato squadre di operai cinesi nella foresta per costruire strade, impianti di lavorazione, uffici e dormitori per i lavoratori.
Gli abitanti dell’area, una delle regioni più arretrate ma anche più integre della Papua Nuova Guinea, si sono immediatamente ribellati armati di fionde e di machete. I pochi autoctoni assunti per lavorare nella miniera parlano di condizioni indegne di sfruttamento, mentre alcune organizzazioni locali per la difesa dell’ambiente e dei diritti delle comunità indigene hanno denunciato il sistematico “saccheggio delle nostre risorse naturali da parte dei cinesi”. L’australiano Mineral policy institute ha definito “totalmente infondati” i rassicuranti dati forniti dall’azienda mineraria in merito all’inquinamento da scorie nelle acque della baia di Basamuk.
Nel luglio 2009 la miniera è stata chiusa, anche se solo provvisoriamente, per ragioni di sicurezza.
La presenza delle State companies cinesi in Papua Nuova Guinea rientra nel grande rilancio di investimenti globali che Pechino sta effettuando in Asia, Africa e America latina. Una presenza gradita a molti governi anche perché non implica particolari richieste nel rispetto dei diritti umani, sindacali e ambientali. Come aveva documentato Parag Khanna (“I tre Imperi – Nuovi equilibri globali nel XXI secolo”) in Cina la conversione di terre arabili in spazi edificabili destinati all’industria ha impresso una forte “spinta verso l’outsourging agricolo e verso la produzione agricola offshore”. Come in Indonesia e nelle Filippine che stanno diventando una grande “risaia cinese”. Il “secondo anello della strategia di reperimento di risorse” è rappresentato dall’Oceania, in particolare dalla Melanesia, tradizionalmente legata all’Australia.
Nella Papua Nuova Guinea la penetrazione cinese ha causato una drastica accelerazione della deforestazione.
Mantenendo i ritmi di saccheggio attuali la foresta vergine dovrebbe essere completamente scomparsa entro il 2030. In cambio delle risorse naturali (minerali, legname, terreni agricoli...) il governo cinese fornisce finanziamenti per strade, ferrovie, stadi e palazzi governativi. Gran parte delle infrastrutture vengono però realizzate con mano d’opera cinese. Al seguito degli operai arrivano anche le loro famiglie che aprono bar e negozi di merci cinesi a basso costo mandando in crisi l’economia locale. Una possibile spiegazione per le recenti rivolte anticinesi scoppiate sia in Asia che in Africa e in Oceania (dal Lesotho alle isole Salomone, Tonga, India e Zambia).

2. Polo Nord


Petrolio e belle parole

Nella regione polare artica le popolazioni indigene costituiscono il 10% della popolazione. Una possibile complicazione per le compagnie interessate alle risorse naturali (gas, petrolio...), anche se non sempre gli autoctoni si mostrano ostili. Intervenendo alla fine di gennaio ad una conferenza in Norvegia, un esponente dell’Associazione russa delle popolazioni indigene del Nord, ha prospettato una “buona cooperazione tra autoctoni e compagnie”. Anche gli inuit della Groenlandia sembrano aspettarsi un futuro di benessere dalla presenza del petrolio. E stranamente quelli che oggi negoziano con i petrolieri “sono gli stessi che negli anni settanta sembravano i più radicali oppositori allo sfruttamento delle risorse da parte delle compagnie”. La Shell starebbe affidandosi a “consiglieri e intermediari autoctoni per fare in modo che le esigenze delle popolazioni siano rispettate”. Un modo per far dimenticare all’opinione pubblica le responsabilità della compagnia anglo-olandese per l’impiccagione di nove militanti Ogoni in Nigeria nel 1995. Ma non tutto fila liscio. La Exxon è accusata di aver intenzionalmente escluso alcuni leader indigeni, ritenuti ostili, per firmare accordi con altri.
Anche l’Eni (presente nella regione artica sia in Canada che in Russia) si sforza di apparire “politicamente corretta”.
La sua ultima campagna pubblicitaria si basava su alcune parole chiave: Internazionalità (forse una via di mezzo tra l’obsoleto internazionalismo e l’abusata mondialità), ricerca e rispetto. Chiarissimo il riferimento alla ricerca, ovviamente di giacimenti. Qualche perplessità sul “rispetto” pensando al Delta del Niger o alla “fascia dell’Orinoco”, le cui scisti bituminose costituiscono uno dei più grandi depositi di idrocarburi del mondo. Si tratta di ecosistemi fragili e preziosi, abitati da popolazioni indigene i cui diritti vengono spesso calpestati dalle multinazionali.
Non molto rispettose nei confronti delle popolazioni locali sono apparse le recenti dichiarazioni dell’amministratore delegato del gruppo petrolifero, Paolo Scaroni. Intervistato sulla guerra in Iraq, ha dichiarato che “dal punto di vista della geografia petrolifera è stata una mossa decisiva, ha consentito agli americani e ai loro alleati di installarsi in uno dei paesi con maggiori potenzialità produttive e di dimostrare ai cittadini di tutto quel mondo che gli Stati Uniti e le grandi democrazie occidentali sono in grado di giocarsi queste partite”.
Chissà se i ribelli del Mend (Movimento per l’emancipazione del Delta del Niger), che il 29 gennaio hanno annunciato l’interruzione della tregua, erano a conoscenza dell’intervista pubblicata pochi giorni prima (25 gennaio 2010) su Affari & Finanza.
Tutte le compagnie legate all’industria petrolifera nel Delta del Niger –si leggeva nel comunicato – dovranno prepararsi ad un attacco generalizzato”. Il portavoce del Mend, Jomo Gbono, aveva poi richiesto alle compagnie petrolifere di sospendere ogni attività, minacciando di “radere al suolo” le loro installazioni. Nel luglio dell’anno scorso il Mend aveva fatto esplodere un oleodotto dell’Agip (Eni) e un altro della Shell. Minacce e attacchi anche contro altre compagnie presenti nel Delta (Total, Exxon-Mobil...) fino al “cessate il fuoco” del 29 ottobre 2009, concordato tra i guerriglieri e Umaru Yar’Adua. Ma da novembre il presidente della Nigeria è ricoverato in un ospedale dell’Arabia saudita e non sembra in grado di riprendere a governare. Invano un folto gruppo di esponenti politici nigeriani tenta da settimane di convincerlo a dimettersi e, con il prolungarsi dell’assenza di Umaru Yar’Adua, si va diffondendo il timore di un intervento dei militari. A quindici anni dalla morte per impiccagione di Ken Saro-Wiwa e degli altri militanti del Mosop (Movement for the Survival of the Ogoni People) il petrolio nigeriano resta ancora fonte di conflitto e di ingiustizia.
Nel frattempo sono svaniti nel nulla gli ambiziosi progetti dell’Eni sui giacimenti ugandesi, intorno al Lago Alberto, di cui la compagnia aveva rilevato il 50%. Probabilmente finiranno sotto il controllo cinese lasciando inalterate le preoccupazioni per l’ambiente e le popolazioni locali.

3. Haiti


Amputazioni made in USA

Inizialmente la polemica stava assumendo i toni dell’ennesimo scontro tra Parigi e Washington. Un episodio della rincorsa per l’egemonia (culturale e politica) sull’ex colonia francese.
L’allarme era stato dato da Annick Cojean, inviata di Le Monde, in un articolo pubblicato sul quotidiano francese il 30 gennaio.
Una cosa “mai vista. Amputazioni a migliaia. Come alla catena di montaggio. Braccia, mani, dita, gambe. Senza una radiografia. Talvolta senza anestesia”. Una scelta quella di molti medici, soprattutto statunitensi, dettata dal timore di cancrena e setticemia e dalle prevedibili difficoltà di seguire i feriti dopo un intervento. E allora “nel caos e nell’improvvisazione dei primi giorni, senza quasi il tempo per riflettere, si è deciso che per salvare la vita si poteva sacrificare un arto”. Ma poi, tra medici, infermieri e altri operatori, sono sorti i primi dubbi. Tra le testimonianze raccolte, quella di un pompiere francese che ha parlato di una equipe di medici texani che avrebbe lavorato in maniera devastante (“a causé des ravages”) praticando una “medicina di guerra”.
L’amputazione viene considerata una scelta estrema, da utilizzare quando un arto è frantumato o c’è il rischio concreto di setticemia, ma “gli americani lo hanno fatto in maniera sistematica, senza fermarsi a pensare ad un’altra soluzione”. Anche senza nominare i responsabili, il chirurgo ortopedico Francois-Xavier Verdot, arriva a conclusioni simili. Racconta di aver visto “fratture semplici alle braccia trattate con l’amputazione anche quando si sarebbero potute curare”. Ha poi espresso tutte le sue perplessità per gli effetti della “guillotine amputation”. Un metodo, definito “anglo-saxonne”, che aumenterebbe sensibilmente il rischio di infezioni perché l’osso rimane scoperto. Ancora più grave, denuncia il medico giunto nell’isola di Haiti dall’ospedale di Saint-Etienne, che “non si sia prevista una chirurgia secondaria per modellare un moncherino su cui poter fissare una protesi”. Per molti pazienti si renderà così necessaria una seconda amputazione.
Dall’incontro con un altro chirurgo ortopedico, Sophie Grosclaude, emerge una possibile spiegazione, un retroterra culturale impregnato di una certa dose di “razzismo sociale”. La dottoressa francese ha riferito dell’accesa discussione con un chirurgo statunitense in una clinica di Petionville, periferia di Port-au Prince.
“Gli ho raccontato – ha spiegato Grosclaude – che per riparare le fratture, facevo esattamente come in Francia, inserendo dei chiodi e dei fissatori esterni di cui si dispone ormai in grande quantità”. Ma l’americano ha definito i suoi metodi “folli”. E avrebbe aggiunto: “A che scopo? Questo paese è troppo povero. Non ci saranno cure serie per i vostri pazienti. È molto più semplice amputare. È pulito, definitivo...”. Allibita la dottoressa francese si è resa conto che “mi stava parlando di una sotto-popolazione! Di un popolo troppo poco evoluto per meritare la medicina degli occidentali...”

4. India


Lingue e popolazioni
minacciate dal “progresso”

Ancora negli anni ottanta alcuni studiosi baschi avevano sottolineato come la trasformazione del paesaggio tradizionale in Euskal Herria coincidesse con la perdita dell’euskara, la lingua più antica d’Europa.
Un fenomeno analogo viene oggi analizzato in molte regioni dell’India. Lo storico Rozenn Milin, fondatore del progetto Sorosoro (“soffio, parola, lingua” in araki) sostenuto dalla Fondation Chirac, è rimasto molto colpito osservando “fino a che punto le carte della biodiversità linguistica si sovrappongono a quelle della biodiversità della fauna e della flora”. E come entrambe siano minacciate nella loro sopravvivenza.
Il 4 febbraio, all’età di 85 anni, è scomparsa Boa senior, l’ultima persona in grado di parlare la lingua Bo, un tempo diffusa nell’arcipelago delle Andaman e delle Nicobar. Se le parole rappresentano una visione del mondo, questo linguaggio, in grado di indicare dozzine di varietà di bambù e centinaia di specie di uccelli, esprimeva il profondo legame delle popolazioni indigene con la natura. Ogni mattino Boa senior si rivolgeva agli uccelli e agli animali sperando in questo modo di farsi comprendere dagli spiriti degli antenati.
In India, secondo un rapporto dell’Unesco pubblicato in febbraio, le lingue minacciate sarebbero 196 su un totale di 1635. Tra queste 37 sono attualmente parlate da meno di mille persone. Nella maggior parte dei casi si tratta di lingue unicamente orali che non dispongono di dizionario e grammatica. In India il multilinguismo è un elemento fondante dell’identità nazionale, ma soltanto l’hindi, l’inglese e altre 22 lingue regionali, riconosciute dalla Costituzione, vengono utilizzate per l’insegnamento. Quindi le popolazioni con un maggiore tasso di alfabetizzazione rischiano di perdere la lingua tradizionale. Da quando il 77% dei Deori, una tribù dell’Arunachal Pradesh, è in grado di leggere e scrivere, la loro lingua viene considerata “seriamente minacciata” dall’Unesco. Un fattore decisivo, più ancora del calo demografico e della diffusione della televisione, sarebbe rappresentato dalla “diluizione sociale” provocata dalla costruzione di strade (come quelle della National mineral development corporation nelle foreste del Dantewada) che irrompono nei territori delle comunità indigene. Contemporaneamente si starebbero diffondendo nuove “lingue da contatto” come l’halbi o il chakesang, ma questo non può compensare la scomparsa delle lingue tradizionali. Da parte delle autorità indiane esisterebbe il fondato timore che una politica in difesa delle lingue minoritarie possa alimentare richieste autonomiste e separatiste.

Adivasi in resistenza

Gli Adivasi, le popolazioni indigene della “cintura delle foreste” dell’India centrale (detta anche “cintura tribale”) non rischiano di perdere soltanto linguaggio e identità.
In gioco è la loro stessa sopravvivenza.
Su questi territori si è posata la cupidigia delle multinazionali, desiderose di impossessarsi dei ricchi giacimenti di minerali grazie ai Memorandun d’intesa (Mou) stipulati con il governo. Tra i casi più drammatici, le colline dell’Orissa abitate dai kondh e ricche di bauxite. E, come per la biodiversità e le lingue ancestrali, altre due mappe coincidono. Quella della “cintura tribale” si sovrappone al “corridoio rosso”. Da decenni la resistenza degli adivasi opera in sintonia con i guerriglieri maoisti del Pci-m, conosciuti come “naxaliti” dal nome di un villaggio dove negli anni sessanta iniziò la rivolta contadina. Recentemente il loro leader, Koteswar Rao ha chiesto alla scrittrice Arundhati Roy, molto attiva in difesa degli oppressi e delle minoranze, di svolgere un ruolo di mediatrice con il governo.
Contro i naxaliti e i tribali, dal dicembre scorso è stata avviata una campagna militare denominata “Caccia Verde” con l’impiego di più di 75mila soldati.

Gianni Sartori