Camminiamo nelle nostre città e ogni giorno di più ci sentiamo spaesati, estranei ai suoi cambiamenti, decisi da pochi, dall’alto che ogni individuo è “costretto” ad accettare. Milano più di altre città grazie all’Expo 2015 è tutta un cantiere una cementificazione continua, attraversarla senza deprimersi è diventato impossibile.
Deprimersi si, camminiamo e questi spazi anonimi si moltiplicano ogni giorno, viviamo una città sempre più ricca di Nonluoghi, attraversati da migliaia di persone ma chiuse nella loro solitudine.
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Sempre di più il volto di questa città cambia e cambia velocemente, la giunta comunale ha dichiarato guerra alla storia della città, ai quartieri popolari, ai circoli culturali, alle occupazioni, ai centri sociali, agli archivi storici non istituzionali, a tutti gli spazi libertari della città, in generale a tutte le istanze di libertà e autogestione.
Nella città postmoderna non c’è spazio per le libertà, almeno così ci vogliono far credere, su questa tematica ho fatto qualche domanda a Leonardo Lippolis, che ha pubblicato per Elèuthera un libro che parla della città, Viaggio al termine della città.
Come è nata l’idea di questo libro?
Formalmente come oggetto dei miei studi universitari, concretamente come frutto di una profonda passione personale per la città. Il libro nasce dall’idea di dare il seguito naturale a quello precedente, La nuova Babilonia. Il progetto architettonico di una civiltà situazionista (Costa & Nolan), in cui ricostruivo una diversa interpretazione della storia dell’Internazionale situazionista a partire dalle sue teorie sulla città. Mi stupisce quanto rapidamente si sia persa memoria di una corrente di pensiero fondamentale per il Novecento, per la quale la città è stato un laboratorio privilegiato tanto delle analisi critiche più profonde sulla natura totalitaria del capitalismo (a partire da Georg Simmel e Walter Benjamin), quanto di alcuni dei progetti rivoluzionari più originali (e mi riferisco alle avanguardie storiche). Dopo aver analizzato come l’IS è stata l’ultimo movimento che ha provato a rovesciare il dominio del capitalismo contemporaneo a partire da una trasformazione della vita quotidiana delle persone, da una loro riappropriazione antiutilitaria dello spazio-tempo sociale urbano, la mia intenzione era vedere che cosa la città rappresenta nell’immaginario collettivo dal momento in cui questa tradizione di pensiero è tramontata, ovvero simbolicamente a partire dal crollo del complesso abitativo di Pruitt-Igoe nel 1972, considerato la nascita del postmoderno.
Nel tuo libro analizzi la crisi della città moderna partendo simbolicamente da due crolli, pensi siano veramente i segni del tramonto dell’Occidente?
Occorre fare una distinzione. In senso assoluto no, nel senso che non credo assolutamente alla “fine della storia” tanto cara al pensiero debole postmoderno. Non penso infatti che la storia abbia un percorso lineare e ineluttabile; ci sono rotture e salti imprevedibili, per cui anche in un periodo così buio, è possibile che tutto possa cambiare da un momento all’altro. Se viceversa, come intendo nel libro, si prende in considerazione l’occidente capitalistico lungo la china che ci sta rapidamente portandoci verso il baratro, allora sì penso che il periodo intercorso tra questi due crolli possa essere quello in cui c’è stata l’accelerazione decisiva, quella che ha segnato un punto di non ritorno, la definitiva condanna a morte dell’idea di felicità che il capitalismo ha provato a rifilarci per tutto il Novecento. In questo senso avrei voluto dedicare più spazio all’opera di Ballard; nei suoi romanzi degli ultimi trent’anni è tracciata nel modo più lucido la parabola declinante della società contemporanea, e la stretta dipendenza di questo declino dalla natura dei suoi luoghi.
Per te la crisi della metropoli postmoderna è inarrestabile?
Vale qui lo stesso discorso accennato sopra. La metropoli postmoderna in quanto espressione del capitalismo contemporaneo è sicuramente in una crisi irreversibile. In questo senso l’evoluzione è rapida e i fatti recenti confermano le dinamiche descritte nel libro. Cito due episodi in particolare strettamente legati tra loro: il pacchetto sicurezza entrato in vigore in Italia nell’agosto scorso e il Rapporto Nato Urban operations 2020. Il pacchetto sicurezza, come noto, prevede una serie di restrizioni repressive riguardanti le più banali forme di vita quotidiana che sono proprie di una città. L’introduzione dei militari per le strade a garantire la “sicurezza” è l’apice di questa politica securitaria paranoica. Ma a dimostrare che non si tratta di una scelta bizzarra del governo reazionario italiano, bensì il riflesso particolare di uno scenario internazionale di ben più vasta scala è proprio il Rapporto Nato Urban Operations 2020. Questo studio, elaborato dagli esperti di sette Stati appartenenti alla NATO e reso pubblico nei primi mesi del 2003 (consultabile in rete sul sito della NATO), parte dalla stima che nel 2020 il 70 % della popolazione mondiale – prevista allora intorno alle 7,5 miliardi di persone – vivrà in aree urbane e ipotizza che, a fronte del rapporto tra il continuo aumento della popolazione e la contemporanea diminuzione delle risorse, proprio nelle metropoli aumenteranno in modo esponenziale conflitti a bassa intensità, se non vere e proprie guerre, per fronteggiare e reprimere le quali sarà necessario utilizzare l’esercito, forze militari ultraspecializzate, le stesse che oggi combattono la guerriglia per le strade di Mogadiscio o di Baghdad.
A partire dall’analisi di quanto accade da tempo negli slums delle megalopoli del cosiddetto terzo mondo (vedi l’illuminante Il pianeta degli slums di Mike Davis), dove le quotidiane sommosse per il pane e tensioni sociali di vario genere non sono gestibili dalle forze di polizia normali, ma anche da quanto comincia ad accadere da noi (per esempio nelle banlieues francesi), lo studio, con lungimiranza, consiglia di iniziare gradatamente ad utilizzare l’esercito in funzione di ordine pubblico, per abituare i cittadini alla loro presenza... e infatti ecco gli alpini, presentati e accolti come una presenza simpatica e folkloristica, per le strade nelle nostre città. La città dunque è ancora una volta letta e progettata come un laboratorio decisivo del futuro; purtroppo però non più da qualcuno che ha un progetto di trasformazione della realtà, a partire magari da un rilancio dell’anima sociale intrinseca alla vita urbana, ma soltanto da chi organizza la difesa del moloch capitalista.
Puoi spiegarci meglio il significato di distopia catastrofica?
Se fino al periodo delle avanguardie storiche la città veniva spesso interpretata in chiave utopica, dove il concetto di utopia non era da intendere come rappresentazione statica di qualcosa di bello ma impossibile, ma come modello dinamico che doveva fare da volano per un progetto di trasformazione radicale dell’esistente, oggi, con la graduale ma inesorabile perdita storica di qualsiasi ipotesi rivoluzionaria, la città è diventata rapidamente specchio di una società in declino, una civiltà al tramonto, ovvero letteralmente come il modello di una distopia, l’opposto dell’utopia, un luogo dove è brutto vivere.
L’accezione catastrofica è data dal fatto che l’idea che il mondo stia andando verso la catastrofe ambientale e sociale non è più ormai appannaggio solo di novelli Savonarola o di militanti disfattisti, ma è un dato comune ad analisti di varia estrazione ed alla sensibilità comune di una parte sempre maggiore di popolazione. Il rapporto NATO su citato dimostra proprio questo: è il tentativo di contenere una catastrofe che viene data per inevitabile e che è riassumibile nell’immagine del recente La terra dei morti viventi di George Romero, nel quale i pochi esseri umani sopravvissuti vivono in città fortificate dove chi può permetterselo abita in grattacieli inaccessibili, mentre i poveri combattono nelle strade e provano ad assediare il fortino.
Nel libro già dalle prime pagine si parla dell’Internazionale Situazionista, cosa rimane attuale della loro critica?
Secondo me rimane profondamente attuale la critica della vita quotidiana che essi hanno elaborato quando, negli anni Cinquanta, il capitalismo si è evoluto nella sua forma consumistica. È vero che oggi il capitalismo sta finalmente svelando che le sue promesse di progresso infinito sono fasulle, dal momento che le risorse si stanno esaurendo e che probabilmente si tornerà a crisi sociali sui bisogni primari; ciononostante l’attuale dominio si regge ancora sostanzialmente sui meccanismi di noia, alienazione e passività denunciati per primi dai situazionisti. È sufficiente fare un giro nei centri commerciali nei pomeriggi, consultare le statistiche dei consumi o leggere le promesse di felicità della programmazione offerta dalla rivoluzione digitale televisiva per capire che gli stili di vita delle persone non cambiano, nonostante la crisi economica.
Avendo perso qualsiasi forma di esperienza diretta, le persone continuano a affluire nei centri commerciali come gli zombies di Romero, oppure ad affossarsi davanti agli schermi al plasma nei loro salotti; piuttosto fanno un mutuo o si limitano a guardare se non possono comprare l’ultima novità tecnologica, ma la fantasmagoria delle merci continua intatto ad esercitare il suo fascino irresistibile e alienante. La narrativa di Ballard intepreta secondo me nel modo più lucido questa involuzione del capitalismo contemporaneo postsituazionista: non a caso l’ultimo suo romanzo scritto prima della morte, Regno a venire, è una sottile analisi delle dinamiche più recenti della contemporaneità e parla di una società basata su una sorta di “fascismo delle merci”. Inoltre forse non lo è, ma dovrebbe rimanere attuale la propositività situazionista; prima di denunciare i tratti totalitari della società dello spettacolo al fine di sabotarla, l’IS aveva infatti tentato la scommessa di una rivoluzione costruttiva, in cui le persone costruissero dei luoghi e delle situazioni capaci di trasformare la realtà e di cambiare i rapporti sociali e umani in positivo, mentre oggi in certi ambienti sembra prevalere l’idea che si possa cambiare soltanto a partire dalla distruzione.
Parlando di attualità, dopo il terremoto dell’Aquila o l’ultima tragedia di Messina, cosa potremmo proporre sulla base dell’autocostruzione, della non delega alle istituzioni per far sì che si arrivi ad un reale cambiamento dei luoghi in cui abitiamo?
Sono esempi molto calzanti, soprattutto quanto successo a l’Aquila dopo il terremoto. I campi costruiti a l’Aquila, con la serie di regole e limitazioni assurde della libertà imposte dalla Protezione civile e denunciate da tante persone (ma ovviamente taciute dagli organi d’informazione), sono l’ennesima applicazione della teoria del campo di concentramento descritta da Agamben e di cui parlo nel libro, l’ennesima concretizzazione di quello stato d’eccezione che è il fondamento del diritto e della politica degli Stati democratici, di fronte al quale ogni volta i cittadini democratici inutilmente e un po’ pateticamente s’indignano. Ad un livello ancora più profondo i campi per i terremotati tracciano una linea precisa, spietata nella sua esplicità, su come il potere concepisce oggi la libertà delle persone di autodeterminarsi neanche ai livelli più elementari; neanche infatti di fronte alla tragedia e all’emergenza assolute, viene ammessa la possibilità di autorganizzarsi, che è sempre stata la risposta naturale e ovvia di fronte a situazioni così estreme.
Per questi motivi penso che la constatazione che la delega costante e a tutti i livelli della vita sociale porta a tragedie per cui case e palazzi costruiti secondo le logiche del profitto e della speculazione edilizia crollano come castelli di sabbia, dovrebbe essere un buon punto di partenza per cominciare a rivendicare il diritto all’autocostruzione anche nelle situazioni di normalità, come autodeterminazione dei luoghi in cui viviamo. D’altronde le capacità inventive e le soluzioni spesso geniali che l’autocostruzione praticata per pura necessità negli slums delle megalopoli di tutto il mondo sono un utile modello che, senza alcuna retorica, andrebbe considerato anche qua, prima che l’intero orizzonte urbano e abitativo nel quale viviamo abbia completato l’opera di suburbanizzazione della nostra anima.
Andrea Staid