rivista anarchica
anno 39 n. 342
marzo 2009


racconto

Il “sermone” anarchico in chiesa
di Pietro Ferrua

Può un prete essere più efficace nella lotta sociale e più rivoluzionario di un anarchico?

 

A Sergio e ad Anna era stato affidato un incarico culturale nei paesi dell’entroterra. Si trattava di plaghe considerate desolate, salvo poi scoprire che, in genere , rassomigliavano in tutto e per tutto ai primi sobborghi della grande metropoli: identici cartelloni pubblicitari, stesso negozio di generi alimentari della catena X, medesime antenne televisive che si stagliavano verso l’orizzonte. Non variava neanche il colore delle case, tutte dipinte di verdolino (salvo qualche chiazza di giallo canarino, qua e là), con le stesse finestre (anzi, vetrate) sprovviste di scuri e avide di sole, dietro le quali si scorgevano in genere delle tendine semitrasparenti, uno schermo televisivo, un paralume. Non mancava la bandiera americana. Più si andava verso la campagna, più sventolava il vessillo nazionale. Mentre in città lo si inalberava in genere di fronte agli edifici scolastici e postali, nell’entroterra lo si scorgeva spesso sui comignoli delle case più umili. Qualcuno aveva spiegato loro che si trattava di neo-patrioti, più americani degli americani, gente recentemente naturalizzata, che esibiva la sua nuove cittadinanza, cosi come avrebbero sfoggiato l’abito domenicale o la macchina fuori serie.
Nel paese natio di Sergio il patriottismo era ormai tramontato – forse perché puzzava di fascismo – e s’era divertito il giorno in cui l’Italia aveva vinto i campionati mondiali di calcio e in giro non si trovavano più bandiere da far sventolare. I negozi non ne possedevano e non si sapeva neanche bene in che tipo di bottega ci si dovesse recare per comprare una bandiera. Ne esistevano solo, s’accorsero ben presto, di quelle di piccolo formato nei negozi di giocattoli. La gente s’era messa allora a confezionarle alla meglio, con stoffa di ricupero e il tricolore era diventato rosso, bianco e verde, e non viceversa, come sarebbe stato normale. Sergio in quell’occasione si era ricordato delle adunate, dei vessilli con o senza la croce sabauda, con o senza l’orifiamma, che avevano punteggiato gli eventi della sua infanzia. Rammentava i discorsi...

Collaborazione tra preti e atei

Quel giorno, però spettava a lui farlo, il discorso, anche se non si trattava che di una chiacchierata senza pretese. Anna, che in genere lo accompagnava, si occupava piuttosto degli aspetti pratici: guidare l’automobile, prenotare la macchina da proiezione, noleggiare i film, mantenere i contatti con la comunità ispanofona, salvo poi a osservarlo con aria sorniona quando lui enunciava degli sproloqui sulla storia messicana. Chissà quante suscettibilità stava urtando senza volerlo quando si metteva a spiegare la Rivoluzione Messicana a un pubblico che, pur essendo di origine messicana, della rivoluzione non se ne importava un fico secco e si appassionava semmai per le avventure amorose dei protagonisti principali del film che a Sergio, invece, parevano parentesi decorative fra due importanti episodi di guerriglia. Accontentare la comunità cicana era pressoché impossibile: se ci si esprimeva in spagnolo, non potevano seguire quelli della nuova generazione, se si parlava invece in inglese, ci si alienava gli anziani. La soluzione più ovvia – ma bisognava ricordarsene e Anna glielo faceva ogni tanto osservare, sempre con cortesia e diplomazia – era alternare le due lingue, magari ripetendosi, se non addirittura traducendo oralmente da una lingua all’altra.
Quel programma di proiezioni cinematografiche “periferiche” avveniva sempre al di fuori dei circuiti normali: le sale di proiezione erano in genere improvvisate. Ci si radunava in centri culturali, aule scolastiche, quando non addirittura nelle sacristie delle parrocchie. Uno dei tanti paradossi di quell’impresa culturale, era la collaborazione puntuale e cortese fra preti e atei, senza che nessuno di loro avesse l’impressione di venir meno alla proprie convinzioni o temesse fare delle concessioni. Il cattolicesimo, qui, non rassomigliava affatto a quello italiano della sua gioventù: i preti si confondevano ora coi popolani per linguaggio e per aspetto. Il più scalmanato (sic!) di costoro stava sempre parlando di coscientizzazione e di rivoluzione più che di Cristo e portava un maglione bianco tipo “dolce vita” che evocava un tribuno rivoluzionario vestito da Pierre Cardin piuttosto che un membro del clero.
Il clero cattolico di quel paese, essendo minoritario, distante dagli esempi romani e vaticani, costretto a comporre con forze avverse, occupato a difendere gli interessi di una minoranza etnica, era certamente l’elemento più progressista di quella realtà regionale (ad eccezione, forse, di qualche rabbino influenzato da Martin Buber, il quale però agiva a livelli diversi).
Anna e Sergio, quell’anno, andavano in giro per le campagne con le loro bobine e fungevano da animatori culturali. All’inizio tutto pareva semplice: Sergio aveva insegnato con successo dei corsi di film e letteratura (più precisamente lo studio della riduzione cinematografica delle opere letterarie) e pensava poter applicare lo stesso modello in un programma concepito per un pubblico non studentesco, ma assai omogeneo: gli ispanofoni. I cicani predominavano, ma c’erano anche alcuni cubani, dei portoricani, e latino-americani di diverse provenienze. Gli spostamenti erano spesso complessi. La prima volta erano dovuti partire in aereo verso l’aeroporto di un altro stato per poi rientrare nell’Oregon con un’automobile a noleggio. Tutto cronometrato, tutto perfettamente previsto da Anna al punto che Sergio a volte l’accusava di elvetomania e di stendere dei copioni così precisi che comprendevano persino la durata degli applausi. Ogni domenica sera Anna elaborava un rapporto da presentare l’indomani alla riunione del Consiglio di Amministrazione che andava immancabilmente in visibilio, un po’ perché il di lei stile avrebbe incantato anche dei serpenti, un po’ perché i risultati dell’esperimento da loro collaudato andavano assolutamente controcorrente e contraddicevano tutte le statistiche esistenti. In un paese e in un’epoca in cui la lettura veniva progressivamente abbandonata in favore dell’immagine, Anna e Sergio erano riusciti a servirsi dell’immagine per invogliare alla lettura. Dopo la prima proiezione cinematografica, infatti, Sergio ebbe l’idea di chiedere ai presenti quanti di loro fossero stati ispirati dal film a leggere il libro da cui era stato tratto. Si alzarono una dozzina di mani. Andò a finire che venne inaugurata una biblioteca bilingue per la comunità cicana il cui primo volume era di un autore poco ortodosso (B. Traven) che non apparteneva neanche tanto alla loro tradizione culturale.
Forti di questa prima esperienza, Anna e Sergio pensarono ripeterla in occasione della seconda seduta cinematografica commentata. Invece, a quel pubblico non interessava fondare una biblioteca perché il loro club ne possedeva già una e ben provvista di autori messicani e latino-americani. Avrebbero piuttosto preferito si iniziasse una casa editrice. Il loro progetto era quello di incidere una serie di conversazioni con degli anziani, che erano analfabeti, ma conoscevano dei racconti tramandati da una tradizione orale che altrimenti si sarebbe persa. Il lunedì, il consiglio di Amministrazione non sapeva più che pesci pigliare: comprare una dozzina di copie dei romanzi di Traven, in edizione inglese e in edizione spagnola, poteva ancora andar bene, provvedere un registratore e qualche nastro per incidere delle interviste, rientrava ancora nel novero delle loro possibilità, ma pretendere che il loro organismo si trasformasse in casa editrice era un po’ esagerato, esulava dai loro compiti e li costringeva a rivolgersi alla sede nazionale, dato che i fondi regionali erano già esauriti o comunque stanziati. Siccome era scaduta la data per le domande di sovvenzione, per quell’anno non se ne poteva più far niente e la faccenda venne rimandata alle cosiddette calende greche. Gli attivisti politici della comunità cicana cominciarono a protestare, temevano che il progetto si insabbiasse e accusarono l’organizzazione culturale di praticare il paternalismo, d’imporre i programmi dall’alto e di non accettare le proposte dalla base, ecc... In fin dei conti avevano ragione e la loro era una vera lezione di democrazia impartita agli animatori culturali. A Sergio, che in fin dei conti era docente universitario, ed era responsabile solo della parte “intellettuale” del programma, la cosa dispiacque molto e ci tenne a non esser assimilato al Comitato organizzatore. Anna era alle dipendenze di quell’ufficio ma, benché ne fosse la mente, ricopriva un incarico molto modesto che non le conferiva nessuna autorità.

Quella, una chiesa?

Che cosa sarebbe successo la terza domenica? Anna e Sergio erano piuttosto irrequieti e, oltre a ciò, anche di pessimo umore per essersi dovuti alzare cosi presto in un giorno festivo per recarsi in un borgo sperduto in mezzo alle foreste. Dopo l’autostrada si doveva inforcare una carrozzale e poi addirittura una mulattiera in mezzo agli abeti e non si sapeva se l’auto poteva procedere o se ci si fosse dovuti fermare all’improvviso con la strada sbarrata da un tronco d’albero o da una voragine che si spalancava ai loro piedi. I loro timori erano infondati: il passaggio dei trattori agricoli aveva spianato tutte le asperità del terreno e salvo la limitazione di velocità e una curiosa segnaletica stradale (attenti ai bufali! passaggio di cervi, vietato gettare fiammiferi e mozziconi, curva pericolosa, slittamento dovuto agli aghi di pino) tutto andò liscio. Arrivarono in un piazzetta e fu davvero un sollievo: da quando in qua esistevano piazze in quella nazione? Qualche davanzale fiorito e dei bei pergolati d’uva fecero loro pensare che stavano scoprendo un regno fiabesco. Di chiese, però, nessuna traccia. Entrarono in un caffè. Essendo in anticipo sull’ora dell’appuntamento avevano tempo di consumare e ne approfittarono per informarsi circa la loro destinazione finale. Spiegarono che portavano un film da proiettare dopo la messa domenicale che iniziava alle dieci. Si sarebbero perciò presentati verso le 11. Ma nessuno aveva mai sentito parlare di una chiesa cattolica in quel villaggio. Scoprirono poi che la popolazione era tutta protestante e solo un pugno di agricoltori, anzi, di braccianti, erano oriundi messicani e forse cattolici. Non avevano ricevuto nessun indirizzo, solo qualche vaga indicazione. Lasciarono le macchine in piazza (una volta tanto, c’era spazio per posteggiare e nessun divieto di sosta) e si avviarono a piedi verso quella che doveva essere la direzione giusta, secondo la parche istruzioni appuntate da Anna sul taccuino. Arrivarono ai limiti della città senza scoprire nulla che rassomigliasse ad un edificio di culto (ormai s’erano rassegnati anche a trovare un tempio – in clima di ecumenismo tutto poteva succedere – o magari una moschea o una sinagoga, il che era altamente improbabile) e dovettero tornare sui loro passi. I rari passanti che incontrarono non furono di nessuna utilità. A un certo punto del loro andirivieni, sembrò loro di udire un brusio di voci. Era il cicaleccio tipico di litanie cadenzate smorzato dalla lontananza. Seguirono il cammino tracciato dalle voci per ritrovarne la fonte e si avvicinarono a un caseggiato che sembrava un fienile o un’autorimessa in disuso. Siccome c’era una finestra (dai vetri rotti) si affacciarono per guardare all’interno. Il prete li additò (si, era proprio lui) e trenta volti si girarono verso di loro. ci fu un attimo di imbarazzo, ma il prete indicava la porta con insistenza e non potettero fare a meno di entrare subito. Quella, una chiesa? Sergio pensò piuttosto alla sede di un gruppo anarchico povero nei sobborghi di una vecchia città della provincia italiana. Appeso a un chiodo, sulla parte dietro il parroco, un crocifisso in plastica. Nessuna immagine sacra, né statue, né santi, né pile battesimali, né confessionali, né ceri, né aspersori, né calici, niente che evocasse una vera messa o una vera chiesa. Intanto Anna e Sergio dovettero accomodarsi. Fortunatamente non c’erano inginocchiatoi, ma solo sedie, altrimenti sarebbe stato imbarazzante per loro non fare come gli altri. Per educazione imitarono i movimenti altrui, che consistevano nell’alzarsi e sedersi. Stavano zitti mentre gli altri oravano e anziché giungere le mani – sarebbe stata un’ipocrisia da parte loro – abbassavano la testa dignitosamente, guardandosi la punta delle scarpe e pensando ai fatti loro. Sergio riandò con la memoria all’epoca in cui era chierichetto, conosceva i riti a memoria e sapeva rispondere in latino alle domande dell’officiante. Com’erano cambiati i tempi! Non c’era più quell’odore d’incenso che gli dava la nausea e il diacono non volgeva più la spalle ai fedeli. I paramenti erano ridotti al minimo e la parlata era vernacola. Sostituire al vecchio Agnus Dei maestoso un “agnello di Dio” banale, gli suonava sacrilego. Quando non si professava apertamente ateo soleva dire di essere più papista del Papa e rimproverava al Concilio Vaticano di aver fatto troppe concessioni che a lui parevano eresia, come quella dell’olio di semi per l’estrema unzione, del bicchiere che sostituiva il calice, del provenzale mal pronunciato al posto del latino aulico, del pane anziché dell’ostia consacrata. Improvvisamente il parroco si rivolse a lui ad alta voce, distogliendolo dai pensieri nostalgici o polemici in cui era assorto. Doveva essere proprio distratto (chissà se non era già la seconda volta che il prete cercava di attirare la sua attenzione altrimenti perché Anna gli avrebbe assestato una gomitata?) e reagì arrossendo e senza muoversi. Improvvisamente i fedeli si voltarono nella sua direzione e notò che Anna abbassava il volto fra le mani (fingendo fossero giunte, in atto di contrizione) e stentava a frenare le risa. Capi che il prete lo voleva in tribuna (cercò di dimenticare che quello era un altare e ciò gli fu facile perché si trattava di un semplice tavolino, sul quale gli parve di notare fosse stata posata una tovaglia ricamata d’oro) e, se pur riluttante, gli si avvicinò.

Silenziosi e imperterriti

“Adesso il professor Sergio vi parlerà del film che vedrete fra poco” annunciò padre Elvetius. Il film (purtroppo?) parlava di scioperi, sindacati, sommosse popolari, rivolte sanguinose. Discorrer di anarchici in chiesa pareva sacrilego anche a lui. Si ricordò di quella barzelletta del brigadiere di Pubblica Sicurezza e del militante anarchico ai tempi del fascismo. Non appena il sovversivo apriva la bocca in piazza sopravveniva il sottufficiale di polizia che lo interrompeva, lo fermava e lo portava in caserma, in commissariato o alla sede del Fascio. Secondo i casi erano botte, olio di ricino o qualche giorno in gattabuia a pane e acqua. Un giorno, stufo, o per divertirsi, il brigadiere decise di lasciarlo parlare. Quando l’anarchico cominciò a sbraitare contro il governo si sorprese di non venir interrotto come al solito e se la cavò cosi: “Questo maledetto governo che” (e qui fece la solita pausa perché era a questo punto che gli venivano infilate le manette o che era acchiappato per la collottola) e il brigadiere ancora immobile, tranquillo e sorridente), “questo stramaledetto governo che...) altra lunga interruzione e non accadeva nulla, “che paga inutilmente i suoi funzionari che non fanno neanche il loro dovere...”.
Sergio si sentiva un po’ nei panni di quell’anarchico e cercò di tirare l’acqua al suo mulino. Cominciò allora a tessere una storia tutta sua, con dei paralleli originali e dei paragoni astuti. Gli anarcosindacalisti argentini (si trattava di una rivolta in Patagonia all’inizio del Novecento) erano equiparati ai primi cristiani, il Vangelo religioso di questi a quello sociale di quelli. Al posto della polizia bisognava immaginare dei centurioni imperiali. I latifondisti della Terra del Fuoco diventavano nella descrizione di Sergio dei consoli colonizzatori. Man mano che s’infervorava s’accorgeva che Anna sprofondava ancor più il viso nelle mani. I fedeli rimanevano silenziosi ed imperterriti ma Sergio ebbe l’impressione che prevalesse un certo sbigottimento. Riattaccò il discorso con ancor più convinzione rammentandosi di un libro dell’autore brasiliano Anibal Vaz de Mello, sì, Cristo era proprio il maggiore degli anarchici. Se fosse vissuto nel Novecento sarebbe stato un capellone hippie, un agitatore sindacale, un rivoluzionario non violento. I fedeli erano vieppiù allibiti e non si capiva bene se perché trovavano che lui saltava di palo in frasca o perché il suo dire era troppo estremistico. Credendo di compiacer loro citò Chavez e lo sciopero di Delano, rievocò quello di Cananea del 1906 che aveva segnato l’inizio di una serie di episodi poi culminati nella Rivoluzione Messicana. Parlò dei fratelli Magón che volevano internazionalizzare la rivoluzione. Il loro appello, d’altronde, era stato ascoltato da un manipolo di sindacalisti e di rivoluzionari che difatti erano sbarcati in California, provenienti dall’Europa o dall’America del Sud, per contribuire alla palingenesi sociale in corso. Più che dissertare sul cinema, s’accorse che stava quasi tenendo un comizio politico. Chissà da quanto tempo parlava! Non osava guardar l’orologio ma Anna gli fece vedere discretamente due dita che si muovevano a mo’ di forbice e capi che doveva concludere. Cessato il suo dire, si diresse in punta di piedi verso il suo posto senza neanche voltarsi verso il parroco, il quale si era tenuto un po’ in disparte. Nessuno applaudi, pensò di non meritarlo. Comunque forse in “chiesa” non si battevano le mani. Improvvisamente tutti si alzarono e ripresero a pregare. La messa, evidentemente, continuava. Eppure a lui era parso di esser stato chiamato al pulpito (!) a messa finita. Le preci proseguivano, ci si continuava ad alzare e a sedere. Allora si spaventò: se Dio esistesse davvero e fosse dappertutto sarebbe stato anche li, in quella chiesa (!) e avrebbe assistito al sacrilegio di un sermone pronunciato da un anarchico che faceva le veci del prete. Gli venne il sospetto che quello fosse un gioco, che si trovasse in mezzo a un circolo teatrale che stava inscenando uno spettacolo. S’aspettava che improvvisamente entrasse un regista pirandelliano, sino allora nascosto fra le quinte o magari in mezzo agli spettatori, e dicesse “Va bene per oggi, adesso potete tornare a casa!”. Ma a venirgli incontro non fu il capocomico, bensì padre Elvetius. Ora la messa era davvero terminata. Gli s’avvicinò, gli strinse la mano e si scusò di non poter rimanere per la proiezione del film, dato che doveva correre in un paesino vicino per recitare un’altra messa. Soggiunse che il film lo aveva comunque già visto, che gli era piaciuto moltissimo e lo avrebbe rivisto volentieri. Concluse stigmatizzando quella sconcia alleanza fra latifondisti, militari e poliziotti che impediva alla classe operaia di organizzarsi per far valere le sue legittime rivendicazioni.
In questo paese, le antinomie erano superate e il clero predicava e praticava la rivoluzione, caso mai erano gli anarchici che si erano imborghesiti.

Pietro Ferrua