rivista anarchica
anno 39 n. 342
marzo 2009


canzone d’autore

a cura di Alessio Lega

 

Felix Leclerc il pioniere

Un giorno, rientrando a casa, lo shock!
Era un periodo turbolento, il Québec – il Canada francofono – si risvegliava come da un lungo sonno e voleva mostrare tutta la sua energia vitale e culturale al Canada anglofono, ai vicini egemoni e colonizzatori. Gli animi più sensibili, quelli che meno sopportavano i secoli d’umiliazione, si ribellarono, anche con violenza. Nell’ottobre del 1970 il rapimento e poi il ritrovamento del corpo senza vita del ministro del lavoro Pierre Laporte, furono accompagnati da repressioni indiscriminate.
Felix Leclerc

Un dolce e bucolico poeta con la chitarra, un filosofo contemplativo – che aveva passato buona parte della sua vita lontano, cantando in Francia e per l’Europa – proprio in quei giorni, quando rincasava da un concerto nella sua Isola d’Orléans, situata precisamente di fronte alla città di Québec, si vedeva malmenare e chiedere i documenti – rigorosamente in inglese – da militi bardati a guerra.
Una notte, seduto sui gradini di casa scrisse di getto:

Ho un figlio arrabbiato
Che non crede né a dio, né a diavolo, né a me.
Ho un figlio schiacciato
Sotto i tempi della finanza dove non può entrare
Sotto quelli della parola da dove non può uscire.
Ho un figlio depredato, come suo padre
Portatore d’acqua, taglialegna, affittuario e disoccupato
Nel suo stesso paese.
Non gli resta altro che la bella vista sul fiume
E una lingua materna non riconosciuta.
Ho un figlio in rivolta, un figlio umiliato
Un figlio che domani sarà un assassino.
Allora per il panico ho gridato “aiuto, soccorso, venite”
Il grosso vicino di fronte è accorso armato, stupido, straniero
Per abbattere mio figlio una volta per tutte
E spezzargli i reni, la testa, il becco, le ali... povera allodola!
Mio figlio è in prigione e io dentro di me
Nel profondo di me, per la prima volta
Malgrado tutto me stesso, sento crescere la furia.

Felix Leclerc è un pilastro della canzone, un pioniere, un iniziatore. Timido, malato di riservatezza e ostile a ogni esibizione (cantare in pubblico non mi piace), ha marcato con la sua presenza e la sua poesia due sponde dell’oceano.
La sua era una famiglia di seminatori di grano: un po’ contadini, un po’ allevatori, un po’ commercianti; il padre Léo era il tipo che aveva bisogno di cambiare spesso orizzonte, di nuovi paesaggi, di costruirsi con le proprie mani una casa dove prima non c’era nulla

Ho due montagne da attraversare
Due fiumi da bere, sei vecchi laghi da spostare
Tre nuove frane da ripulire, diciotto savane da dissodare
Una città da fare prima di sera.

Felix era nato nel 1914 col medesimo gusto dell’altrove nello sguardo, ma aveva mani vocate alla scrittura, occhi pronti a cogliere la più piccola delle sensazioni. Così, dopo l’infanzia felice e campagnola (Siamo tutti nati, fratelli e sorelle, in una lunga casa di legno a tre piani, una casa gobba e cotta come pane di grano, dentro caldo e pulito come mollica. (...) eravamo undici bambini a bordo), volse alla città la propria propensione letteraria. Pubblicò qualche libro, stroncato dagli accademici ma piuttosto ben recepito dal pubblico, e scrisse testi radiofonici, leggendoli talvolta con la sua voce profonda. Ogni tanto, in radio, per legare sketch a sketch, prese l’abitudine di servirsi delle canzoni che componeva per proprio sfogo.

La svolta si deve al più leggendario impresario francese, Jacques Canetti – l’ebreo bulgaro, fratello di Elias, che ha scoperto e prodotto Brel, Gainsbourg, Brassens, Vian, Higelin, Guy Béart, Nougaro, Jeanne Moreau, Serge Reggiani... – di passaggio per il Québec, nel luglio del 1950, voleva portarsi dietro un artista che rappresentasse bene quel paese. Una concitata notte, Felix – che tutto voleva fare, meno il cantante – fu intercettato, dopo lunghe ricerche, dai suoi amici della radio e fu praticamente costretto a cantare le proprie canzoni davanti a Canetti, cosa che fece di malagrazia. Colpo di fulmine, contratto firmato immediatamente: tre mesi e mezzo dopo sbarcava a Parigi per una lunga tournée teatrale e per incidere il primo disco, subito insignito del massimo riconoscimento, il Grand prix de l’Académie Charles Cros.
Secondo colpo di fulmine: il pubblico francese s’innamorò di lui. All’inizio colpì il suo aspetto esotico, ma poi, e molto più a fondo, colpì la poesia profonda, i richiami blues, tzigani, folk della sua musica, la totale atipicità dei suoi brani. Fulminanti illuminazioni, aforismi ironici, profonde riflessioni, capacità di raccontare in pochi versi favole sulla follia con accenti di verità

In una palude di rami torti c’era un vecchio castello dalle tende pesanti
Nel castello c’era Bozo, figlio di marinaio, signore del palazzo tremante.
Dall’oblò del suo castello Bozo vedeva entrare i suoi invitati incipriati:
Le vecchie rosse con le carrozze e la fata Morgana, c’erano tutti, meno lei!
Questa è proprio una brutta storia
Perché Bozo, lo scemo del villaggio, è innamorato
La sua amata non è venuta... ben inteso, perché non esiste
Né il castello con le tende pesanti, né i musicisti vestiti a festa
C’è solo Bozo, vestito di pelle, figlio di marinaio
Che va per la palude su una vecchia barca.
Se passate da quel paese la notte, c’è un fanale come segnale di ballo
Danzate, cantate, agitate le braccia per consolare
Il povero Bozo che piange dalla barca.

E poi rimase il rigore. Nel periodo delle pesanti orchestrazioni e dell’avanspettacolo, Leclerc appariva in scena, primo fra tutti i francofoni, accompagnato solo dalla propria chitarra.
Era sbarcato in Francia tutto un nuovo genere di canzoni: se Charles Trenet aveva già introdotto una scrittura raffinata e letteraria, portando nei ritmi swing del Music-hall la sua poetica surreale, con Leclerc si materializzava il primo uomo che canta, un poeta del quotidiano che si regge in scena con la pura forza delle parole diventate musica, come cantasse a sé stesso, come si rivolgesse a ciascuno e non “al pubblico”. Fu una rivoluzione: i piccoli cabaret che non avrebbero mai potuto permettersi grandi masse o mezzi sonori e potenti riflettori, aprirono le loro porte a questi nuovi menestrelli che sorsero dal profondo della storia della poesia con una nuova forma di poesia.
Arrivò presto Brassens e poi Guy Beart, Annie Sylvestre, Pierre Perret... ma il primo fu Felix Leclerc.
Qualche anno di sudore sparso di teatro in teatro, poi, al suo sguardo bisognoso di spazio, le nostre affollate città vennero a noia, così la sua carriera si alternò, per oltre trent’anni, fra lunghe pause, rintanato a scrivere libri e pièces teatrali, e tanti concerti in Francia e Québec, ogni volta presentando, affianco ai suoi classici Le petit bonheur o Moi mes souliers, nuove creazioni:

Si cresce come alberi, ci si indurisce come marmo
Poi ci si sporca un po’, poi si passa nel fuoco.
Ci si avvicina come alghe, si affonda poco a poco
E al di sopra dell’onda sempre il silenzio blu.(...)

Siamo come le alghe alla deriva nella notte
Sul dorso dell’onda senza scopo, senza fine, senza rumore.

Una coscienza, come la sua, sveglia, all’erta, qualche turbolenza emotiva, la fine di un matrimonio e un nuovo amore, l’incontro con la generazione del maggio ’68, senza distogliere Felix dal suo approccio filosofico, lo posero di fronte al mondo degli uomini che gli parve non meno interessante della natura e della solitudine che aveva cantato fino ad allora. Nacque in lui una nuova consapevolezza e nacquero nuove canzoni

Cinquant’anni di spinte, di stop, di marce ancora
A mietere per gli altri senza aver diritto al grano
Difendere il paese che ruba ciò che è tuo
costruire case e poi dormire fuori.
Suonare le campane per festeggiare sconosciuti
Intrecciargli corone e non esser riconosciuti
Tracciare ferrovie, senza mai prendere il treno. (...)

Ho arricchito gente che ne ha profittato
E cosa mi resta dopo tante battaglie?
Resti tu bambino mio, mio respiro, mia estate
Che proteggo nascosto in fondo al ventre.
E se prenderanno anche te saranno loro a cadere:
niente più canti, niente più ponti... tornerai ferito, ma ripartiremo
per la centesima volta a fare nuove canzoni.

Cresciuto com’era in un ambiente molto cattolico, profondamente credente e osservante, fu costretto a riconoscere, fra la gente che sfrutta e disprezza il prossimo, anche coloro che della religione facevano mestiere

C’è una razza di gente che vive tagliata fuori dal mondo e non lo vede mai
Che disprezza il mondo da dietro le finestre scolpite dei palazzi
Niente donne lì, né bambini, né nonni, né problemi di coppia
Vive di spirito... e chi è che la nutre? La povera gente, amore mio.

C’è una razza di gente, quella delle strade del mondo e che non ne esce
Che deve correre per il pane, per coprirsi, per penare, per il treno quotidiano
Schiacciata dagli ingranaggi, dalle ruote, dal lavoro, dal baccano della città
La notte disgustata di ascoltare, di parlare non riposa che da morta

C’è una razza di gente che vive alle spalle del mondo, lo segue come un cane
Lo deruba quando dorme, gli rigira le tasche e l’oro lo porta lontano
Una razza di sciacalli, invisibile e dannosa, al mattino sparisce
Non ha nome né rango, il suo indirizzo è il vento, cattiva, distante, assente.

La peggio razza di gente, l’ultima razza al mondo è quella che guida il mondo
A gran colpi di firme, a gran colpi di cannone, di giuramenti e di leggi
Il paradiso, amore, è possibile qui, in ogni paese
Ma l’ha distrutto proprio in nome dell’ordine... e ho detto abbastanza.

In questa condizione aperta e critica si trovò Leclerc, ormai sessantenne, quando il suo paese, il suo Québec, cominciò a trovare la forza e le parole per pronunciare ad alta voce le proprie verità. Queste parole il Québec le trovò spesso nelle canzoni, anche perché a dieci anni dall’esordio di Felix – che col suo successo aveva stimolato molti giovani artisti canadesi a seguire le sue orme – s’era sviluppato un movimento (detto dei Bozo, in omaggio alla sua canzone che abbiamo citato più sopra) di cantanti autori di altissimo livello: Vigneault, Ferland, Léveillé, Pauline Julienne, ecc... a loro si volgevano le orecchie affamate di parole di un popolo affamato di libertà, a loro si volgevano gli occhi del potere centrale, che arrivò a censurare una canzone di Vigneault Le gens de mon pais.
Caposcuola suo malgrado, Felix colse questo momento per tornare a stabilirsi definitivamente nel suo paese, per riportare a casa le sue vecchie poesie e il suo nuovo impegno con lo stile raffinato, profondo e inquieto che gli era proprio.

Felix Leclerc

La chiamano la rivoluzione tranquilla quel movimento che si coagulò nei primi anni ’70 in Québec e che ebbe una grandiosa celebrazione nel concerto che unì, il 13 agosto del ’74, i tre cantanti più rappresentativi delle tre rispettive generazioni – Leclerc, Vigneault e Charlebois – per un concerto davanti a decine di migliaia di spettatori, nelle Pianure d’Abramo, il luogo fortemente simbolico in cui i francesi erano stati massacrati dagli inglesi nel 1759. Registrato su disco, questo concerto, oltre all’altissimà qualità artistica, ha il valore aggiunto di testimoniare l’impegno di una canzone che si è fatta portatrice delle istanze di riscatto e di rivendicazione di un popolo.

Leclerc, negli ultimi anni della sua attività pubblica, volle accompagnare con le sue canzoni quella rivoluzione tranquilla che lo aveva completamente conquistato alla sua causa, finché, fiaccato dall’asma e stufo di dover violentare la sua natura riservata per questo mestiere esibizionista, si chiuse nella casa che si era costruita con le proprie mani sull’Isola d’Orléans per dieci anni. La morte lo colse nel sonno l’8 agosto del 1988.

Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it

Il pupazzo e la bambina

Il pupazzo ha guardato la neve a lungo
poi ha guardato il cielo a lungo
poi è rimasto piantato lì, contento
la sognatrice è andata via piangendo
ha passato la manica sulle ciglia pesanti
e ha dormito cent’anni.

Quand’è ritornata
ha visto il cappello sotto il sole nudo
il suo pupazzo di neve s’era sciolto.
Un’ altra illusione perduta,
una ragione di pianto

rieccola sola nella strada.

1965

Altrove

Distruggo tutto ciò che ho
più ricevo e meno do
ricco come la foresta d’ autunno
non aiuto nessuno.
La felicità mi intristisce e mi annoia
non sono fatto per questo paese
coi lupi mi sento al riparo...
Chiarezza che sfuggi e tu che danzi
l’amore non è sotto le tue lenzuola bianche
in fondo al cielo dove senza fatica
il vento...
Mattino che gioca sull’oceano
serata di gala piena di bimbi...
Altrove, caro amore, mi stanno aspettando
bisogna che anche tu ci sia
se no non uscirò da qui
cento volte meglio morire fra le tue braccia
che vivere laggiù senza di te.
Te l’ho detto a gennaio...
Te lo dirò ad agosto...

1964

La piccola felicità

Era una piccola felicità
che avevo raccolto
annegava di pianti
sul bordo di un fossato
quando mi ha visto passare
si è messa a gridare
Signore prendimi con te
portami a casa tua!

I miei fratelli mi hanno dimenticata sono caduta sono malata
se non mi raccogli morirò, che passeggiata!
Mi farò piccola, tenera e sottomessa, te lo giuro!
Signore, ti prego, liberami dalla tortura!

Presi la piccola felicità
l’avvolsi fra i miei stracci
le dissi “non morirai
vieni pure a star da me”
Allora la piccola felicità
iniziò la guarigione
sul bordo del mio cuore
giaceva una canzone.

I miei giorni, le mie notti, le mie pene, i miei lutti, il mio male, tutto scordato
la mia vita di “buono a nulla”, mi disgustava solo al ricordo.
Quando fuori pioveva o i miei amici mi facevano pena
prendevo la mia piccola felicità e le dicevo “tu sei la mia regina”

La mia felicità fiorì
mise le sue gemme
era il paradiso
brillava sulla mia fronte.
Poi un bel mattino
che fischiavo quest’arietta
la mia felicità è partita
senza manco darmi la mano.

Ebbi un bel supplicarla, carezzarla, farle scenate
mostrarle il grande vuoto che mi lasciava nel cuore
se ne andò comunque, la testa alta, senza gioia, senz’odio
come se non potesse più vedere il sole a casa mia.

Ho pensato di morire
di tristezza e di noia
avevo finito di ridere,
era sempre notte.
Mi restava l’oblio
mi restava il disprezzo
in fin dei conti, mi son detto,
mi resta la vita.

Ripresi il mio bastone, i miei lutti, le mie pene, i miei stracci
e adesso batto i tacchi nel paese dei disgraziati
ma quando vedo una fontana o una ragazza
faccio il giro largo, oppure chiudo gli occhi...

1948

Preghiera bohemienne

A tutti questi bohemiens, queste bohemiennes della mia via
che non sono musicisti, né viaggiatori, né clowns,
né ballerini, né cantanti, né niente
che si recano ogni giorno, puliti, tranquilli
nei loro cappottini
sotto i loro cappelli
a guadagnarsi il pane quotidiano dell‘impiegato.

Che sorridono al vicino
senza averne voglia
che han preso l’abitudine di sperare
senza mai vedere oro nell’alba o nelle tasche
questi bravi bohemiens senza roulottes né cani,
silenziosi funzionari dagli occhi stanchi.

Porgo i miei omaggi commossi,
speranze di città sconosciute,
l’ingresso ai paradisi perduti
da continenti mai visti,
perché son loro che sono i più eroici
e a cui la morte porta via tutto.

Davanti a questi bohemiens, queste bohemiennes della mia via
che non partono più che di notte,
sul veliero blu della loro giovinezza in fuga,
gloriosi dimenticati,
talenti abbandonati
come valige cadute lungo l’autostrada

che si alzano al mattino
crudelmente felici di dover attraversare
giornate soleggiate, usurate,
in cui non arriverà altro che altri imbarazzi
altre perdite
lungo ogni stagione.

Ho il cappello basso in mano
davanti ai miei fratelli bohemiens.

1955

Nonno Pan-Pan
(dedicata a de Gaulle)

A mezzanotte nel bosco
quattro fra fratellini e sorelline
muoiono di paura
in una capanna di legno.
Nonno ma è il vento
che fa gemere la porta?
No, non è lui, aspetta
è il lupo, bambini.
A me il fucile, ora esco
pan-pan, l’ho ucciso
dormite pure ora
io blocco il chiavistello.

Mezz’ora dopo
il maggiore sussurra:
nonno è la grandine
che cade sulle tegole?
No, è un rumore di catene
dev’essere un fantasma
vado l’ammazzo e torno.
Sì era proprio un fantasma
con la sua anima in pena
che voleva preghiere
ho ucciso quello scemo
vedrete che non tornerà.

Cos’è questo baluginio?
Si direbbe un fanale
dietro il canale
nonno, è normale?
Non è ancora giorno
fermi bimbi miei
ritorno fuori
col mio grande pan-pan.
Era un fuoco fatuo
mi arrivava al polpaccio.
Dormite l’ho ricacciato
sul fondo della notte.

Nonno c’è un grillo
vicino alla brocca del vino.
Niente paura ragazzo mio
pan-pan era un folletto.
Con le cartucce, il fucile
gli stivali accanto al letto
dormite tranquilli
ci sono io che veglio.
Il nonno più potente
del grande Manitù
a gran colpi di pan-pan
aggiusta tutto-tutto.

Quando fu morto e sepolto
andammo a guardar fuori
non c’erano spiriti
né magia, né banditi.
C’era il vento, la grandine
le gocce di rugiada
e il fragile insetto
che s’illumina la notte.
Così insieme alla pan-pan-paura
è morta la stregoneria
e lo sterile terrore
che ci teneva nascosta la vita.

1969

La drave

(La drave è una parola intraducibile del gergo boscaiolo canadese: rappresenta l’atto del far scorrere le centinaia di tronchi tagliati e sfrondati sul fiume per trasportarli fino al luogo di raccolta. Spesso, durante tale trasporto, i tronchi s’incagliano in qualche ansa più stretta ed allora è necessario smuoverli con la dinamite; l’uso dell’esplosivo e l’altissima instabilità del tappeto di tronchi rende la drave un vero e proprio cimitero di boscaioli)

Incomincia in fondo al lago bruciato
intorno all’otto o dieci maggio.

La morte dalle lunghe maniche
vestita di schiume bianche
sradica i tronchi
per far crollare Silvio,
gli lancia contro perle
pezzi d’arcobaleno
per abbagliargli gli occhi
per spezzarlo in due.

Silvio danza e sgambetta
come di domenica, le sere di fortuna
vortici che urlano, pavimenti che rullano
profumi che inebriano, e resta in piedi!

Thavette, Silvio Morin
Ephèe, i due Mainguy
Swemy, Quevillon il grosso
Vincent, papà Cousineau
Morel e Ladouceur
e anche Albert Lebreun
Dupras e poi Larocque
Lefebvre e Charbonneau
tutti con Ed Mc Millan
MacPherson e Seguin
Madouin, Aurele Brière
Tourmalin e Miclaisse
tre pulci e poi Morel
e poi Camille Rivard
Elibien e il Cook
che qui non si vede.

Scavano un buco
nel punto giusto
mettono l’esplosivo
sotto il ghiaccio
gambe in spalla
che si sbaracca!
Facce contratte
“si salvi chi può!”

Non bisogna esser là quando riparte
vi uccide, vi butta giù, vi morde
vi attraversa di parte in parte
si diverte a spezzare il più forte per primo.
Le bestie di legno
non si muovono
anche il vento
resta rannicchiato,
la stessa montagna
alta nell’ azzurro
si mette una nuvola
sulla faccia.

Perché non bisogna esser là quando parte
vi uccide, vi butta giù, vi morde
vi attraversa di parte in parte
si diverte a spezzare il più forte, per primo.

E tutto è calmo fino a domani mattina...

Nella testa c’ha i tronchi che turbinano
che darebbe per un accordo di chitarra.

Melancon è annegato qui
e questo non deve più accadere;
in piedi, sul fiume
ottanta uomini a guidare.

Per arrivare al mulino
al mulino di Buckingham
c’è da sbloccare il carico
che si blocca un po’ più in là
colpi d’ ascia, calci addosso
dinamite e catene spezzate
sulla fronte acqua ghiacciata
nessuna notizia della fidanzata.

Le ore son lunghe
l’acqua è profonda
in un altro mondo
le donne bionde...

Fra gli uncini e le rapide bisogna affrettarsi
se si vuole arrivare in tempo
in tempo per la primavera.
Sarà pieno di musica
di vicini, di pane fresco
e la birra ed il mattino
a riposare nel giardino.

Tronchi per la carta
tronchi per il cartone
tronchi per scaldarsi
tronchi per la casa
niente tronchi, niente scrittori
niente libri, quindi
forse si starebbe bene uguale
ma può darsi anche di no!

Nella testa niente più tronchi che turbinano
ma la moglie al paese che sferruzza...

Silvio danza e poi sgambetta
come di domenica, le sere di fortuna
vortici che urlano, pavimenti che rullano
profumi che inebriano, resta in piedi!

Litanie del piccolo uomo

E sulla cassettiera
accanto ai tuoi collant
la mia paga, il tabacco

e sotto l’ attizzatoio
un fascio di ciocchi
per illuminare la sera

e dopo tanti anni
il tuo cuore che non dice niente
il mio che parla troppo

l’ascia da affilare
la casa da trovare
quattro mani che hanno lavorato bene

sullo schermo del cinema
il viso che ti piace
il mio, così brutto

l’affitto che aumenta
ti amo più della vita
le bestemmie dette oggi

ho male alla tua schiena
tu hai male ai miei occhi
è vero? è falso? ... tutt’e due!

E questo mazzolino
così fresco fra le tue dita
domani sarà concime, e questo è vero

e siamo soli al mondo
ognuno nel suo corpo
insieme, ognuno sulla sua riva

appuntamento fra mill’ anni
più lontano che in Canada
più lontano che questo paese

1958

I cattivi consigli

Fuggi dal nido
se ci stai bene
trovati il mare
se sei gabbiano
difendi i tuoi diritti, soprattutto il diritto all’errore
sii pure l’acqua che porta il vascello alla deriva.

Diventare grandi
è cadere dal nido
separarsi
è restare uniti:
i separati sanno vivere insieme
costruirsi il nido, per sapersene andare.

Quando si è vecchi
si dice: avrei dovuto
se avessi saputo
dicono i questuanti.
La proprietà ti spacca la schiena
non aver niente, non è così facile.

La conoscenza
la trovi lontano dai libri
il riposo stanca
e la fatica riposa
e quando canti, canta per te innanzi tutto
che l’ignoranza ha il disprezzo facile.

Il verbo amare
pesa tonnellate
non amare
pesa ancor di più.
Ai rumori umani accorrono i figli del buio
i figli della luce si saziano di silenzio.

Prendi sempre nota dei cattivi consigli
il tuo alleato si chiamerà vecchiaia
ama pure la traditrice che si chiama giovinezza
e vivrai cent’anni.

1969

Inviterei l’ infanzia

Inviterei l’infanzia ad attardarsi il tempo che serve
per conservarsi in tasca immagini per le sere d’inverno
per le lunghe lunghe ore dell’adulto
che non finiscono mai di crescere sulla noia.
Due ottoni nella valigia,
un’armonia di flauto
una scatola di legumi, vino,
il sorriso di qualcuno scomparso,
una mappa che porti all’isola perduta
un anello d’oro, una maschera buffa.

Quando l’amore non c’ è e i tuoi fratelli sono morti
quando c’è solo il vuoto e la notte continua
i sogni sono necessari

e i nuovi bambini poseranno
nella mano dell‘uomo solo
le loro, aperte
calde e nude.

1966