rivista anarchica
anno 37 n. 325
aprile 2007


movimenti

Vicenza e oltre
di Andrea Papi
foto di Paolo Poce

 

Nella città veneta una consistente fetta della popolazione si è autoorganizzata in modo autonomo, perché è contraria all’ampliamento della base militare americana.
Il ruolo degli antimilitaristi e degli anarchici.

 

A Vicenza è successo qualcosa di straordinario, verrebbe da dire sia nonostante sia proprio per i tempi che corrono, come era già successo, con caratteristiche un po’ diverse, in Val di Susa. In verità, pur con situazioni meno visibili mediaticamente, da qualche anno in qua sta succedendo la stessa cosa in diverse parti della penisola e del mondo. Moltissimi uomini e donne, giovani e anziani e di diversa estrazione sociale e diverse culture politiche, si sono ritrovati spontaneamente insieme per provare a cominciare a decidere direttamente del loro destino, ad occuparsi in prima persona di ciò che li riguarda. Sono i primi segnali di un bisogno di gestione dal basso, che sta nascendo in opposizione alla gestione politica autoritaria dei governi e delle forze politiche istituzionali in quanto tali, siano esse di destra di sinistra o di centro, perché le loro decisioni e le giustificazioni addotte del loro governare, quasi sempre ambigue e mistificatorie, soddisfano sempre meno.
A Vicenza una consistente fetta della popolazione in loco si è autoorganizzata in modo autonomo perché è contraria alla costruzione dell’ampliamento di una base militare americana, come invece è stato deciso in sordina dall’asse governativo Prodi/D’Alema/Parisi con l’assenso complice della giunta comunale vicentina di centro-destra. Fra l’altro, se fosse costruita così com’è stata prospettata, a spese della comunità locale succhierebbe un sacco di energia, di risorse e di acqua alla città, oltre ad immettere quotidianamente un aumento spropositato del volume di traffico con conseguente aumento dell’inquinamento dell’aria, già di per sé sufficientemente inquinata. Alla faccia del risparmio energetico e della lotta all’inquinamento e all’effetto serra, di cui questo governo di centrosinistra si era fatto portavoce privilegiato durante la campagna elettorale.
Come succede quasi inevitabilmente ogni volta che si forma qualcosa che fa scalpore e mette in crisi le scelte di chi ha l’onere di governarci, subito i marpioni politicanti si gettano con vigore, per appropriarsi della cosa quando riesce, o per limitarla inquinarla e confonderla a fini propri. Così, all’interno di questo neonato movimento popolare ci si sono buttate con forza le formazioni più a sinistra della coalizione di centrosinistra, investendolo dei loro problemi di dover combinare capra e cavoli, di dover cioè sostenere il governo che vuole imporre la base contestata e di dover render credibili le loro dichiarazioni di esser dalla parte del basso che invece non la vuole. Del resto era impensabile un’assenza di tentativo di recupero: troppo alta la posta in gioco, con le implicazioni connesse delle forze armate, della politica estera e del gioco internazionale delle alleanze di stato.

Una sensazione gratificante

Si è così arrivati alla manifestazione di livello nazionale del 17 febbraio scorso a Vicenza che, riuscitissima, ha mostrato tutta la forza potenziale di questo movimento. Un’imponente presenza tra le centocinquanta e le duecentomila persone, un evidente collante tra i partecipanti e i comitati cittadini promotori, una ricca varietà di associazioni, gruppi e movimenti, una comune volontà dichiarata di non volere la costruzione della base militare americana al Dal Molin. Chi vi ha partecipato testimonia con entusiasmo del clima di solidarietà condivisa che vi si è respirato, corroborato dall’assenza di scontri tra forze dell’ordine e manifestanti. Nonostante tutta questa stupenda evidenza, però in un certo senso ci ha lasciato l’amaro in bocca. La manifestazione aveva il fiato sul collo della pressione dei marpioni politicanti, ben determinati a condizionarla e strumentalizzarla. È vero! Tutti hanno potuto godere dell’esserci e sfilare democraticamente e in buon ordine. Troppo in ordine! Aggiungo provocatoriamente.
Intendiamoci bene. Il fatto di poter sfilare tranquillamente con donne, bambini piccoli e persone anziane, che festosamente urlano i loro slogan antigovernativi, è a tutti gli effetti una sensazione davvero gratificante. Non è certo auspicabile, da nessun punto di vista sensato, lo spettacolo stereotipato alla Genova luglio 2001, con feriti e morti, odore acre dei fumogeni di regime, botte da orbi e grida di gente che corre spaventata in ogni dove. Queste situazioni di violenza di piazza, in cui il potere dominante impone la propria ragione con la forza delle bastonate, quando va bene, servono solo al potere dominante. Lasciano irrimediabilmente strascichi di denunce, repressioni postume, condanne, isolamento politico e culturale. Difficilmente fanno bene a chi desidera opporsi al di là del consentito, mentre costringono solo a difendersi e a non potersi manifestare come si vorrebbe.
Il troppo ordine cui mi riferisco è un ordine precostituito d’irregimentazione della protesta, dove tutto era stato pensato con lo scopo d’incanalarlo e controllarlo all’interno di confini predefiniti, che, nelle intenzioni, non dovevano avere la possibilità di essere minimamente travalicati. Tutti troppo presi, giustamente, dal bisogno di nullificare l’attacco di preventivo terrorismo psicologico mediatico, che prima della manifestazione aveva creato un clima secondo cui, lì a Vicenza, si sarebbe corso il pericolo che, come fu a Genova, ci sarebbe scappato il morto. Era una trappola e ad essa si è reagito nell’unico modo che è venuto in mente, quello di blindare la manifestazione. Oltre ai classici ben forniti vari servizi d’ordine degli apparati di controllo, limitazione di slogan e bandiere, assegnazione di spezzoni a compartimenti stagni in modo che ognuno fosse ben inquadrato, e tutti e tutto sotto controllo preventivo, in modo da non avere sorprese. A livello di fruizione mediatica e di veicolazione del consenso, ho avuto l’impressione che, invece di dibattere a fondo le idee che stanno a monte della cosa in questione, si sia dibattuto soprattutto del come affrontare il modo di manifestare “liberamente”. Si è scelta così la libertà vigilata, dove a vigilare non c’era l’eterocontrollo del sistema dominante, ma l’autocontrollo autogestito. Risultato? Un’imponente manifestazione di opposizione con pochissima forza politica di idee innovatrici.

Confronto chiaro e aperto

Già! Le idee. Cerchiamo di vedere dove sono finite, ora che i sovversivi hanno dimostrato di essere ogni tanto anche dei bravi ragazzi.
Quanti significati ci sono dietro l’opposizione alla costruzione della base americana? C’è l’idea che sarebbe un peso insopportabile per la vita e l’economia locali per le risorse che sottrarrebbe, senza essere però contrari alla base in sé. C’è l’idea che costringere il governo a contrattare per costruirla con modalità differenti da quelle proposte, o da un’altra parte, sarebbe già una grossa vittoria politica. C’è l’idea di non volerla per cominciare a lottare per una diminuzione dell’impatto delle servitù militari, quindi per una diminuzione delle presenze militari straniere. C’è l’idea che da un punto di vista pacifista bisogna lottare sempre per un non intervento e non aumento della presenza e delle spese militari, senza però mettere in discussione l’esistenza stessa della struttura militare. C’è l’idea, specifica degli anarchici e degli antimilitaristi, che bisogna rifiutare e combattere a fondo sia il principio sia il concetto stesso del militarismo e della logica che lo sottende, per cui l’opposizione alla base è proposta e considerata parte di questo percorso.
Queste idee differenti sono state messe a confronto fra loro in modo chiaro e aperto, in modo da innestare un dibattito virtuoso che faccia fare un salto di qualità alla coscienza politica collettiva, capace di portare a fare proposte e scelte di lotta consapevoli e coerenti? Temo che così non sia. Temo che i vari attori esterni intervenuti per dare man forte e solidarietà agli attori locali che hanno suscitato la protesta, siano intervenuti col classico bagaglio culturale dell’intervento politico, cui da troppo tempo siamo avvezzi. Cioè di soffiare sul fuoco e coccolare chi è sul posto in prima linea, per incentivare le cose ad andare verso gli obbiettivi che ogni parrocchia del movimento si è precedentemente prefisso. In altre parole con celati intenti di mistificante strumentalizzazione.
Così abbiamo assistito allo spettacolo mediatico del post-riuscita-manifestazione. Gli attori esterni, in particolare le forze della cosiddetta sinistra radicale presenti in modo massiccio, si sono autoassunti il compito di mediatori tra le istanze spontanee di base e il governo di cui fanno parte. Date le condizioni vigenti dei rapporti di forza istituzionali, un tale operare non poteva che trasformarsi in una contrattazione tra la richiesta esplicita e netta del no alla base e il farla in modo diverso. Si tratta insomma di una mediazione imposta, mistificante i contenuti originari, senza un mandato esplicito del movimento spontaneo. Ma questo a loro non interessa, perché destinano qualsiasi scelta alla gestione dei rapporti di forza interni alla maggioranza. Era nei loro piani ed avrebbero portato avanti con forza questa mediazione se cinque giorni dopo non fosse successo il patatrac al senato, quando è caduto il governo in seguito alla bocciatura di D’Alema sulle scelte strategiche della politica estera.
Questa azione paraistituzionale toglie chiarezza alle istanze originarie e rischia di precipitarle nel buio edulcorato dei giochetti di potere. Tutto il problema posto da Diliberto e Giordano è quello di spingere il governo amico, si fa per dire, di cui sono parte, ad ascoltare il popolo e contrattare con esso per una soluzione accettabile. Sarebbe questa la differenza tra radicali e riformisti, tra destra e sinistra? In realtà non c’è differenza sostanziale. Seppur in modo diverso e con motivazioni ideologiche differenti, alla fine portano avanti la stessa cosa: la costruzione della base. Ma dov’è la presunta radicalità continuamente sbandierata? Qui bisognerebbe al contrario mettere in seria discussione il pesante principio delle servitù militari e porre in campo un pacifismo seriamente antimilitarista, non solo antibellicista, che dovrebbe tendere allo smantellamento degli eserciti e al ripudio del principio militarista sorreggentesi sulla preponderanza della forza delle armi e del comando gerarchico. Invece i marpioni politicanti tendono a creare consenso di popolo ai piani dei mistificatori della pace, che dichiarano e credono di agire per essa continuando con l’assurdità delle guerre umanitarie. Il loro agire non è né radicale né massimalista, come da più parti si è sentito ultimamente. Al massimo si può definire un conato di minimalismo.

Militarismo incombente

L’azione dei libertari e degli antimilitaristi convinti, al contrario, dovrebbe trovare il modo di dare una spinta veramente radicale e universale alle istanze di base che sorgono spontaneamente nei territori. Bisogna respingere con la forza di un pensiero chiaro e comprensibile e di proposte e comportamenti coerenti le pressioni delle alchimie politiche e del machiavellismo di maniera con cui si sono proposti finora gli attori esterni. Bisogna aver ben chiaro e propagandare che la pace viene come conseguenza di scelte che agiscono alla radice dei problemi, come il ripudio delle logiche militari, e non può essere conseguenza di una politica comunque segnata dalla continuità degli equilibri internazionali ora in atto, che invece si reggono su equilibri di guerra.
Si tratta di agire per ricomporre la protesta spontanea all’idea di carattere generale che i disagi di una singola situazione sono la conseguenza di un disagio molto più grande, che è la politica militarista degli stati e la conseguente logica della guerra come soluzione dei conflitti. Se la protesta territoriale rimane localizzata, nelle tematiche e nelle proposizioni, è destinata ad esaurirsi non appena il problema locale troverà una soluzione all’apparenza accettabile, lasciando però intatte tutte le non soluzioni generate dal sistema di dominio. L’opposizione contro la base ha grosse potenzialità antimilitariste, perché sorge come denuncia di un disagio generato dal militarismo incombente. Ma se non si riesce ad intervenire nel senso sopra detto, pur se continuerà ad essere autogestita, che già è comunque un segnale d’innovazione molto interessante, difficilmente si riuscirà a fare il salto di qualità indispensabile per pervenire ad una consapevolezza di emancipazione che vada oltre il localismo.

Andrea Papi