rivista anarchica
anno 36 n. 322
dicembre 2006 - gennaio 2007


lettere

 

Botta... / Un conflitto “lontano”

È triste e deprimente sentire dalla bocca di un libertario (io non conosco personalmente Francesco Berti, ma mi fido del nome che porta) le malevole e parziali interpretazioni che sul conflitto mediorientale ripropongono quotidianamente i neocon americani e la parte più retriva ed oltranzista del Likud. Triste e deprimente perché, per sostenere l’ovvio diritto alla sopravvivenza dello stato d’Israele, basterebbe amplificare le voci e le argomentazioni di quegli israeliani (e sono molti) che sono stufi di un conflitto che sembra non debba finir mai e che ritengono sbagliato, oltre che velleitario, innalzare muri – ideologici e in calcestruzzo – che servono soltanto a segnare la separatezza e a cristallizzare il conflitto. Parlo, ripeto, di una fetta non indifferente dell’opinione pubblica israeliana e non di bieca propaganda palestinese.
Così non serve all’economia di un discorso serio liberarsi degli ultimi eventi libanesi chiamando gli hezbollah una banda di fascisti (come fanno appunto Bush e il suo omologo israeliano), foraggiati ed armati dalla Siria. Tralasciando, infatti, la non documentata infamia di fascismo lanciata contro una parte del popolo libanese, questa dell’aiuto bellico è una bella argomentazione che potrei condividere, a condizione che uguale indignazione sia riservata alla parte avversa, la quale è da una vita che riceve armi assai più potenti dall’America. A meno che il mio amabile interlocutore non distingua tra armi buone e benedette (quelle fornite dagli americani, armi potenti, costruite per provocare eccidi indiscriminati come testimoniano le cronache quotidiane di questa guerra infame), e armi perverse, quelle siriane, segnate dal maligno, che, sin qui, hanno provocato solo danni assai limitati e, deprecabilmente, qualche vittima tra la popolazione civile. Nella dura e inoppugnabile realtà delle cose, il bilancio è sotto gli occhi di tutti: le armi americane, quelle a frammentazione multipla soprattutto, hanno contribuito a provocare migliaia di vittime innocenti, spesso lontanissime dal fronte di guerra, oltre a devastare l’intero territorio libanese che con gli hezbollah aveva poco a che vedere. Poi Berti afferma che non significa nulla che gli hezbollah abbiano vinto libere elezioni e godano del favore della popolazione, perché anche Hitler vinse delle elezioni, così come tanti altri dittatori. È vero. Tralasciando, però, la considerazione preliminare consolidata dall’esperienza storica che, di norma, i dittatori promuovono plebisciti e si guardano bene dall’organizzare elezioni se non sono sicuri di vincerle, resta il fatto che, se si tratta di libere elezioni, come quelle vinte dagli hezbollah (e da Hamas), esse hanno almeno la stessa legittimità di quelle tenutesi in Israele. Possiamo non condividerne gli esiti, ma dobbiamo ingoiare il rospo, come quando nella liberissima e democraticissima America Bush vinse il primo mandato presidenziale (si disse con dolo, ma non vorrei traumatizzare troppo il mio interlocutore, estimatore delle democrazie liberali).
Poi c’è la chicca delle guerre giuste e di quelle ingiuste. Vorrei ricordare al mio giovane amico, che presumo non abbia vissuto quel periodo, che la seconda guerra mondiale fu innescata dai nazi-fascisti per ragioni di dominio e solo subita dagli alleati, che, per fortuna, si opposero validamente e con successo al disegno esplicito di nazifascistizzare l’Europa (come inizio). Quindi, quel conflitto ebbe come protagonisti attivi quelli che un tempo si chiamavano guerrafondai (come sempre nella storia del mondo), mentre la parte avversa si dispose solo a resistere, dopo che la politica dei Chamberlain e dei Daladier, come testimoniano gli accordi di Monaco del 1938, non riuscì ad intuire l’imminenza del pericolo e a scongiurarlo (il fallimento clamoroso della politica!). Per concludere questo argomento, quindi, lasciamo ad Oriana Fallaci – che riposi in pace – e a Bush (che di guerre giuste se ne intende, ultimo parto di una nomenclatura che ha contribuito ad insanguinare la seconda metà del XX secolo, sia direttamente, sguainando la spada, sia foraggiando, con l’apporto della CIA, i peggiori criminali del secolo, elevandoli al rango di governanti di popoli ignari e indifesi), lasciamo a questi personaggi la teoria delle “guerre giuste”, anche perché, nella tradizione libertaria, tutte le guerre sono un’offesa all’umanità, originate, come è sempre stato, da istanze di conquista e di dominio.
E non è affatto pertinente il riferimento all’intervento NATO che sollecitò la partecipazione italiana per impedire la prosecuzione di un conflitto etnico tra serbi e albanesi, alimentato ed esaltato dagli esiti provocatori (benedetti, guarda caso, da un certo Kissinger) dei così detti accordi di Rambouillet. In ogni caso, l’operato della NATO fu poi implicitamente ratificato dalla risoluzione n. 1244 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (1999) che decise la costituzione di un governo provvisorio del Kosovo, sotto il protettorato UNMIK-NATO. Come si vede questa vicenda richiamata da Berti non ha alcuna attinenza con le guerre “giuste”: da parte di organismi internazionali si volle solo porre termine ad un genocidio, anche se, a giudicare da eventi dei giorni nostri, senza molto successo..
Inoltre, la leggenda metropolitana su Camp David. E qui, scusandomene in anticipo, sarò didascalico, perché tutti parlano di questi mancati accordi, ma pochi ne conoscono effettivamente i termini.
Intanto, di Camp David ce ne sono stati due, il primo, tenutosi nel settembre del 1978 che vedeva come protagonisti il Presidente egiziano Sadat, quello israeliano Begin e, a mediare, il Presidente americano Jimmy Carter. L’ordine del giorno recitava:
punto 1: Schema di pace per il Medio Oriente;
punto 2: schema per la conclusione di un trattato di pace tra Egitto ed Israele.
Lasciamo da parte il secondo punto, che si concluse felicemente il 26 gennaio 1980, e occupiamoci del primo.
Si trattava, in buona sostanza, di realizzare un protocollo procedurale per attuare accordi che si basassero sulle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU nn. 242 e 338, le quali, in estrema sintesi, recitano tra l’altro: “…Per realizzare una relazione di pace nello spirito dell’art. 2 della Carta delle Nazioni Unite, delle negoziazioni future tra Israele e qualsiasi vicino…sono necessari (applicare) provvedimenti e principi delle Decisioni 242 e 338. La pace richiede rispetto per la sovranità, integrità territoriale e indipendenza politica di ogni stato nell’area e il loro diritto di vivere in pace entro confini sicuri e riconosciuti, liberi da minacce e da atti di forza. …La sicurezza viene aumentata da una relazione di pace e di cooperazione tra nazioni che godono di relazioni normali…” (il corsivo è mio). Il resto del preambolo e il dettaglio delle procedure non aggiunge nulla di essenziale all’economia del discorso che qui si intende fare. Del resto, chi avesse la curiosità di controllare, può farlo consultando gli atti ufficiali. Come si comprende facilmente dal testo riproposto, la deliberazione insiste sul termine nazione e non a caso, perché è del tutto evidente che un accordo, per avere validità intrinseca ed internazionale, non si può che stipulare tra stati indipendenti e sovrani. Ma da questo orecchio Israele non ci sente: era disposta ad accordare ai territori occupati una sorta di autonomia amministrativa, ma quanto al riconoscimento di uno stato palestinese indipendente, non se ne parlava nemmeno. Con questa posizione pregiudiziale era chiaro che non si poteva andare lontano, anche perché, pressoché contemporaneamente allo svolgimento dei lavori, Israele unilateralmente confermava lo statuto di Gerusalemme quale capitale dello Stato, e ampliava e moltiplicava i suoi insediamenti in Cisgiordania. L’incontro, quindi, fallì e rimasero lettera morta tutti i punti del protocollo che, in cinque anni, avrebbe dovuto portare la pace in Medioriente.
La seconda sessione di Camp David si tenne nel luglio del 2000. Dai commentatori più accreditati, anche se, in alcuni casi, a posteriori, Camp David 2 fu giudicato, più che un serio tentativo di risolvere almeno qualcuno dei problemi più spinosi del conflitto israeliano-palestinese, uno spot elettorale, di Clinton, che avrebbe voluto concludere il suo secondo mandato presidenziale con l’“accordo del secolo”, e da Barak, la cui parabola politica discendente gli aveva già fatto perdere la maggioranza in parlamento e che si apprestava ad affrontare una difficilissima campagna elettorale per le elezioni previste nel gennaio 2001. E questo giudizio era anche suffragato dalla fretta con cui il vertice venne preparato: i preliminari si svolsero a Stoccolma solo nell’aprile e, in quella sede, si registrò che la distanza tra le due parti sui nodi più complessi del conflitto era irriducibile: Arafat fu trascinato a Camp David per i capelli da Clinton, perfettamente conscio dell’inutilità dell’incontro.
Si è detto e scritto molto sull’esito del vertice. In Occidente prevalse nei commenti la tesi sostenuta da Clinton, che, ingenerosamente, addossò ad Arafat tutte le responsabilità del fallimento. Nel mio piccolo sostengo che, se Arafat avesse accettato le proposte che gli venivano fatte, difficilmente avrebbe potuto ritornare a casa senza correre il rischio del linciaggio. Vediamo perché. Sul problema dei territori occupati si disse che la delegazione palestinese era stata folle a non accettare il compromesso proposto, cioè la restituzione dell’89% dei territori occupati. La trappola era costituita dal fatto che, come base per la trattativa non si prendeva la già ricordata risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che stabiliva i confini allo status precedente il conflitto del 1967, ma il compromesso di Oslo del 1993, in cui i palestinesi erano stati costretti a rinunciare al 73% dei territori dell’Antica Palestina già occupati dagli israeliani. In pratica, ai palestinesi veniva restituito meno del 20% mentre sarebbero stati mantenuti gli avamposti israeliani di Ariel (al centro della Cisgiordania-West Bank), di Ma-al Adumim (alle spalle di Gerusalemme) e di Gush Etzion al sud, avamposti che compromettevano l’unità territoriale di un futuro stato palestinese. Di Gerusalemme – che fu il nodo non risolto sul quale, si disse, pesò la ragione principale del fallimento – si parlò poco e male: Barak fece proporre a Clinton qualche aggiustamento poco significativo della situazione attuale (la restituzione di alcune periferie della città-simbolo, mentre Israele avrebbe mantenuto il controllo della Spianata delle Moschee); del tutto trascurati il nodo del controllo delle risorse idriche, saldamente in mano agli israeliani, e quello del rientro dei profughi palestinesi, che erano allora poco meno di 200.000, per i quali la delegazione palestinese proponeva un rientro graduale in dieci anni, mentre gli israeliani erano disposti ad ospitarne nei territori occupati solo 40.000. Mi si consenta una parentesi. Mi si stringe il cuore pensare che qualcuno, figuriamoci un libertario!, possa liquidare il dramma della diaspora affermando che non si saprebbe dove stiparli questi disgraziati. Io li ho incrociati centinaia di volte e sotto molte latitudini questi profughi: li riconoscevo subito per la disperazione stampata sui visi degli uomini, la rassegnata sofferenza delle donne, chine sotto il peso delle maternità e delle fatiche quotidiane, la paura negli occhi sgranati dei bambini, prematuramente adulti. Li vedo tuttora i disperati che rischiano la vita attraversando il mare in imbarcazioni incredibili per approdare nelle ritenute terre della speranza, e non mi passerebbe mai per la mente la soluzione di ributtarli a mare perché non saprei dove tenerli. Lascerei ai Fini e ai Calderoli atteggiamenti di questo genere!
Ma per tornare al tema principale, tutte le soluzioni offerte dalla delegazione israeliana a Camp David 2, si possono oggi ritrovare, rafforzate, razionalizzate e perentoriamente espresse nel disegno strategico di Olmert per un assetto dell’area che garantisca la sicurezza di Israele. Ma di questo, non è il caso di parlare in questa sede, anche se ne ritengo indispensabile l’approccio per chi non voglia parlare a vanvera dell’intera questione che, in estrema sintesi, abbiamo adesso affrontata.
Per concludere: io credo che sia un giuoco infantile e senza prospettive cercare di distribuire torti e ragioni di un conflitto che viene da molto lontano: se lo si fa, si riuscirà soltanto a sprecare energie (come quelle da me impiegate per scrivere queste righe), che potrebbero ben più utilmente venire impiegate a trovare soluzioni per il futuro. Sono profondamente convinto che, permanendo lo stato attuale, la guerra in quell’area nevralgica per gli equilibri internazionali, non avrà mai fine con esiti assai incerti, perché, alla lunga, a niente possono la forza delle armi e la velleitaria speranza che, alla fine, ci sarà un vincitore. Sui morti e sulle macerie non si è mai costruito nulla di duraturo.

Antonio Cardella
(Palermo)

 

 

...e risposta / Compromessi dolorosi

Perché Cardella, per dare più forza alle sue tesi, sente il bisogno di ricorrere, per tutto il suo intervento, ad una tecnica consolidata in una certa sinistra, anche se sempre più in disuso, quella di screditare moralmente il proprio interlocutore, facendomi passare, nell’ordine, come un partigiano dei neocon americani, del Likud, della Fallaci, di Fini e di Calderoli? E perché non anche della CIA e del Mossad, già che ci siamo? Si tratta, né più né meno, della vecchia accusa di “reazionario” (“piccolo borghese”, “socialdemocratico”, “socialfascista”), scagliata come un anatema dai custodi dell’ortodossia rivoluzionaria sino a non molti anni fa contro chiunque cercasse di ragionare liberamente, senza gli occhiali deformanti dell’ideologia. Se volessi rimanere su questo piano, potrei ribattere accostando le posizioni di Cardella a quelle di Nashrallah, del Mullah Omar e di Bin Laden, ma non intendo scendere a questo livello, anche perché l’intervento di Cardella è davvero stimolante, lungo e ben argomentato, e contiene tesi e riflessioni che meriterebbero ben più di questa breve replica.
Guerra in Libano. Cardella scrive che, “per sostenere l’ovvio diritto alla sopravvivenza dello stato d’Israele, basterebbe amplificare le voci e le argomentazioni di quegli israeliani (e sono molti) che sono stufi di un conflitto che sembra non debba finir mai e che ritengono sbagliato, oltre che velleitario, innalzare muri – ideologici e in calcestruzzo – che servono soltanto a segnare la separatezza e a cristallizzare il conflitto”. Anzitutto, il diritto all’esistenza di Israele non è affatto ovvio, né in Occidente, soprattutto nella sinistra radicale (oltre che nell’estrema destra), né, tanto meno, in Medio Oriente, come già ricordavo nel mio precedente intervento. Né Hamas né Hezbollah, né l’Iran né la Siria sostengono un tale diritto, anzi affermano il contrario, cioè che Israele deve essere distrutto, e lavorano a tale scopo. Questo è uno dei punti centrali di tutta la questione, e ignorarne la portata mi pare molto grave. In secondo luogo, il muro difensivo approntato da Israele contro i kamikaze palestinesi non c’entra nulla con la guerra del Libano. È vero invece che molti israeliani vi si oppongono – Israele è infatti una democrazia liberale, dove fortunatamente hanno legittimità tesi contrastanti ed opposte –, così come è vero che molti israeliani sono stanchi del conflitto con i palestinesi. Resta il fatto che, nei riguardi della guerra in Libano – e questo è un fatto che dovrebbe far riflettere – la grandissima parte dell’opinione pubblica israeliana, compresa la sinistra e molti dei suoi intellettuali pacifisti (Amos Oz, Abraham Yehoshua, David Grossman) ha appoggiato, almeno inizialmente, la risposta armata di Israele, ritenendo legittima la difesa dall’attacco proditorio degli Hezbollah, che da mesi martellavano con missili il nord del Paese. Non credo poi che sia il numero delle vittime – perlopiù civili innocenti, su questo non c’è dubbio – a determinare la giustezza o l’ingiustizia di un conflitto; semmai, esso ha a che vedere con la giustezza o l’eccesso della reazione. Il “basso” numero dei civili israeliani uccisi dipende solo dal fatto che gli Hezbollah avevano delle armi tecnologicamente inferiori a quelle degli israeliani: se ne avessero avuto di più potenti, non si sarebbero certo fatti scrupolo di usarle.
Fascisti. Cardella si indigna per il fatto che ho chiamato “fascisti” gli Hezbollah, ritenendo non documentata questa accusa. Devo dire che trovo quanto meno sconcertante il fatto che la sinistra radicale, che nei decenni passati e in questo stesso periodo storico, ha usato ed abusato di questo termine – utilizzandolo non solo per richiamare l’attenzione su vere, e in alcuni casi presunte, se non del tutto esagerate, derive autoritarie delle società occidentali, ma anche per infamare chiunque la pensasse in maniera eterodossa – quando si affaccia sulla storia un vero pericolo neo-fascista – e tale è, a mio pare, l’integralismo islamico, che predica e semina morte e distruzione, in primo luogo tra gli stessi islamici, e che si presenta, come già il nazi-fascismo e il comunismo, come un movimento di reazione totalitaria alla modernizzazione della società – invece che stare nello schieramento antifascista, per odio anti-americano si chiama fuori, quando non parteggia esplicitamente per i neo-fascisti. Cardella poi cade nella fallacia epistemologica di ritenere giusto o sbagliato un termine a seconda di chi lo pronunci, quando tra le due cose non c’è invece logicamente alcuna relazione. Un epiteto è giusto se corrisponde alla natura della cosa, non se chi lo formula è simpatico o fa parte del nostro stesso schieramento politico. Il fatto che Bush abbia utilizzato in questo contesto tale espressione non significa di per sé che tale utilizzo sia sbagliato – a meno che non si voglia cadere nel pregiudizio di considerare sbagliato tutto quello che dice Bush, per il fatto che è presidente degli USA, o un teo-neo-con. Dunque non è vero che il termine fascista, in riferimento all’islamismo radicale, è sbagliato perché l’ha detto Bush; piuttosto, potrebbe essere giusto nonostante l’abbia pronunciato Bush.
Guerra giusta. Osservo che, relativamente a questo punto, Cardella sembra darmi ragione, perché mi pare consideri giuste alcune guerre, come per esempio quella combattuta contro i nazifascisti e quella più recente nella Serbia. Per aggirare il problema della “guerra giusta”, Cardella evita di chiamare questi conflitti “guerre”, ma la sostanza rimane la stessa. La “resistenza” – come la chiama Cardella – degli alleati al nazifascismo fu una guerra, così come una guerra fu l’intervento NATO in Serbia. Allo stesso modo, fu guerra quella combattuta dai partigiani contro i nazi-fascisti, o quella combattuta dai repubblicani spagnoli contro i franchisti. Sarebbe bene chiamare le cose col loro vero nome, evitando gli eufemismi del politicamente corretto. Nel momento in cui afferma di considerare legittima la resistenza al nazifascismo da parte degli Alleati, Cardella, forse senza saperlo, ragiona nei termini della “guerra giusta”, che egli pare peraltro far scorrettamente coincidere con la “guerra preventiva” dell’amministrazione Bush. Eppure, il dibattito sulla guerra giusta è antico di secoli, ed ha coinvolto tanto intellettuali reazionari o conservatori quanto esponenti del pensiero progressista. Cardella ricorderà sicuramente che le colonne di questo stesso giornale, in occasione della prima guerra del Golfo, ospitarono un vivace dibattito in cui intervennero numerose figure di rilievo dell’anarchismo italiano, alcune delle quali favorevoli alla guerra. Così come è noto che il tema della guerra giusta ha stimolato l’intervento appassionato di intellettuali di sinistra del calibro di Norberto Bobbio e Michael Walzer, entrambi i quali hanno preso posizione a favore di alcuni degli interventi militari degli ultimi anni. È certo che, come scrive Cardella, tutte le guerre sono un’offesa all’umanità, e questo vale tanto di più per le guerre moderne, nelle quali le vittime civili sono di gran lunga più numerose di quelle militari. Resta tuttavia il fatto che forse, in alcuni casi, è un’offesa maggiore all’umanità il non farle, dal momento che, come noto, spesso, nella vita di tutti i giorni, come in quella politica, si è costretti a scegliere non tra il Bene e il Male, ma tra due mali relativi di cui uno maggiore e uno minore, o tra due beni relativi, di cui uno maggiore e uno minore. Si tratta in poche parole di capire se, usando la nota distinzione di Weber, l’etica della convinzione possa e debba, in alcuni casi, cedere il passo all’etica della responsabilità. Chi vive sperando e muore cantando si indigna giustamente per i milioni di morti innocenti sotto i bombardamenti alleati; nondimeno, se è sano di mente, si augura che Hitler perda la guerra.
Camp David II. Per Cardella su questo incontro circolerebbe una “leggenda metropolitana”, essendosi infatti trattato per lui solamente di uno “spot elettorale” di Bill Clinton. Io rimango dell’avviso, per quel che ho letto, che tale non è stato, e porto a suffragio di questa tesi il fatto che alcuni negoziatori palestinesi – Abu Mazen e Abu Ala – erano inizialmente favorevoli ad un accordo, o quanto meno ad un vero negoziato, che implicava necessariamente alcuni compromessi ed alcune concessioni rispetto alla posizione di partenza della delegazione palestinese. Mi risulta che la controparte israeliana si dimostrò, nei corso dei colloqui, molto flessibile, pur di arrivare all’accordo, mentre Arafat fece propria una linea del tutto intransigente, non ammettendo nessuna concessione rispetto alla sua piattaforma iniziale, evitando di fare qualunque contro-proposta rispetto alle offerte israeliane e americane. Eppure, la base di ogni accordo di pace tra parti ostili si fonda proprio sull’arte del compromesso, tanto più necessario in una circostanza come questa, dove si fronteggiano, a mio modo di vedere, due diritti altrettanto legittimi: quello palestinese di autogovernarsi e quello israeliano di vivere in sicurezza. Per motivi di spazio evito di entrare nei dettagli di questo negoziato, su cui si sofferma il mio interlocutore. Osservo solo – tanto per fare un esempio – che non mi pare che, dalle proposte fatte, Israele avrebbe mantenuto il controllo della spianate delle Moschee: mi risulta, al contrario, che quest’ultima sarebbe invece ricaduta sotto la piena giurisdizione palestinese, mentre Israele avrebbe continuato ad avere la sovranità della parte sottostante, dove stanno, o si presume che stiano, le rovine del Tempio ebraico.
Profughi. Rispetto a questo punto non ho mai scritto di considerare irrilevante il dramma dei profughi palestinesi, verso i quali va invece la mia massima comprensione umana ed anche politica. Io penso in definitiva che non sia del tutto sbagliato sostenere che i palestinesi abbiano pagato un prezzo altissimo per una colpa non loro – l’Olocausto – anche se non credo affatto che la responsabilità della diaspora palestinese debba ricadere unicamente sugli ebrei israeliani. Bisognerebbe infatti ricordare che essa fu uno dei risultati della guerra fatta scoppiare dagli arabi come risposta al piano di ripartizione ONU del novembre 1947 che prevedeva la creazione di due Stati, uno ebraico e uno arabo. Io ho solo inteso sostenere – e lo ribadisco – che non mi pare realisticamente possibile il ritorno di tutti i profughi palestinesi nello Stato israeliano, e che sia del tutto demagogico e irresponsabile agitare questa bandiera.
Quale che sia la mia opinione in merito, non ha alcun valore, Cardella stia pur certo di questa cosa: quando finalmente palestinesi e israeliani arriveranno ad un accordo duraturo, che farà nascere lo Stato palestinese, come è nell’auspicio di tutte le persone che hanno a cuore i legittimi diritti di entrambi i popoli, i palestinesi saranno costretti a compromessi molto più dolorosi di quelli a cui sarebbero scesi a Camp David nel 2000, così come questi risultavano assolutamente più rilevanti rispetto a quelli del 1947. Da parte palestinese e da parte di tutti gli Stati arabi – e lo dico non certo con soddisfazione, ma con sincera amarezza – si rimpiangerà per secoli, e ci si mangerà inutilmente le mani, di non aver accettato la votazione svoltasi all’ONU il 29 novembre del 1947.

Francesco Berti
(Bassano del Grappa)

 

 

Libertà e privilegio

Cari/e compagni/e,
i nostri corpi sono “archivi emotivi”, rubando l’espressione a un caro amico, Marco Pustianaz, che a sua volta la fa risalire ai testi e al lavoro di Judith Halberstam e Ann Cvetkovich.
Sono, questi corpi, un discorso che può, per necessità a volte e a volte solo in modo momentaneo, inscriversi in una narrazione, ma altrettanto spesso sfuggire a tutte le narrazioni diventando in se stesso un margine, una terra di frontiera . I corpi delle lesbiche, dei gay, dei transgender e dei transessuali sono memorie che mettono a fuoco le politiche di genere e cambiano le mappe della vita rifiutando con la socializzazione normativa anche i discorsi che i poteri producono su questa materialità eccentrica, non canonica.
Lo scopo di questa lettera è farvi presente quanto, da un po’ di tempo, è sotto gli occhi di tutti.
Infatti è in atto un massiccio attacco, capofila la chiesa cattolica, ai diversi/e, ma anche (e come potrebbe essere altrimenti) alle donne e ai loro diritti. Innescata dall’imperversare dei fondamentalismi di ogni religione, l’offensiva cattolica sembra avere abbandonato i toni e i colori tenui e impugnando una modernità dal sapore vecchio, eppure profondamente moderna, usa la bio-politica, usa il bio-potere per governare tutto quello che eccede e che è pratica disturbante.
Possiamo vedere tutti i cattivi segnali che questo procedere ci consegna, non solo nei politici di tutti i partiti subdoli nelle parole e proni ad assecondare le ratzingeriane pretese, ma a livello di società, quando riscontriamo l’aumento di violenze fino allo stupro e all’omicidio su lesbiche, gay e trans.
L’estate del 2005 si aprì con l’omicidio efferato di Paolo Seganti a Roma reo di essere gay e gentile fino a coltivare piantine in un parco pubblico. È proseguita con aggressioni e violenze in famiglia e fuori, spesso denunciate e apparse su riviste e giornali e con il proliferare di scritte antigay in vari luoghi. Di fronte all’aggressione e alle botte a due compagni gay a Bologna, la curia della città non ha stigmatizzato le violenze, ma i comportamenti dei due che avrebbero innescato la ritorsione. Lo stupro di Paola, la ragazza lesbica di Viareggio, stuprata punitivamente perché lesbica e l’ultimo episodio di pochi giorni fa che ha visto due ragazze di Brescia subire una incursione in casa propria con devastazione di effetti personali, disegni di svastiche e altro, compongono un quadro inquietante. Siamo diventati bersagli. Parlo di noi: gay, lesbiche e trans, ma so che voi capite cosa vi sto dicendo. Le parole assurde di un Ratzinger e dei suoi prodromi Biffi, Ruini ma non meno dei catto-fascisti del politicantese d’Italia, hanno portato in breve tempo a un amaro raccolto, di odio, di non ascolto, di incomprensione voluta.
L’odio, lo sappiamo, è incapacità. I personaggi pubblici sopra elencati non sono però degli incapaci, se non emotivamente, sono invece i custodi di un ordine che dai neocons americani passa per l’Opus Dei, le varie P2 (o come oggi si chiamano), i capitali, la militarizzazione e i trafficanti di corpi a vari scopi e ad ogni latitudine. Mentre ci impongono i loro parametri e ci dicono come dobbiamo essere, spendono parole sulla pace (per loro solo pacificazione), sulla tolleranza (a senso unico e a loro favore) e creano connessioni oblique con uomini d’affari e/o diplomatici appartenenti ad altre religioni perché siano gli unici portavoce di collettività di immigrati da irrigimentare in moschee e veli.
Il liberismo passeggia in pieno accordo con i fondamentalismi. Il disegno perverso e atto a confondere che hanno tessuto è, ed è stato, un boomerang per i movimenti che non avendo a pieno colto la portata di cosa era in questione, sono adesso in un vuoto di risposta. Non basta infatti una manifestazione contro per dire che c’è reattività. La complessità delle nostre vite non ha ancora trovato elaborazioni all’altezza di questi nuovi scenari. La nostra fragilità, che è in primis quella di corpi vivi e pensanti, è sospinta nelle solitudini e nelle pastoie della sopravvivenza. Le leggi che frantumano il mondo del lavoro e ci obbligano a rincorrere bassi, risicati stipendi nella precarietà, fanno parte a pieno titolo, a mio vedere, della bio-politica, come della bio-politica fanno parte i Cpt, gli stupri ad hoc, il proliferare di parole che dicono una cosa intendendo altro. Orwell, forse, ci darebbe oggi non un “1984” (rozzo parametro di vecchi totalitarismi), ma un racconto del dispiegarsi di una idea dell’umano che ricongiunge i roghi delle streghe e dei diversi all’uso del satellitare in chiave poliziesca planetaria. Del resto la caccia alle streghe aprì l’epoca moderna e l’estrema razionalità omicida del nazismo ha scritto con il sangue di molti stermini alcuni anni di storia che ancora pesano su tutti noi.
Una semplice domanda si impone e chiede risposta. Cosa vogliono i potenti del mondo?
Quello che hanno sempre voluto e avuto: i privilegi e l’esclusione di chi è altro.
Il fatto che alcuni, pochi, diritti siano stati ottenuti e/o concessi a donne, gay e lesbiche, ha scatenato egoismi atavici e patriarcali in misura abnorme.
È un’ovvietà, ma i diritti per essere tali devono essere sulla persona e non sulle categorie. I diritti concessi a un gruppo e non a un altro sono privilegi e sono lì a ricordare a tutti un accesso alla cittadinanza, alla socialità, al buon vivere, negato a chi non appartiene a certe categorie per nascita, censo, sesso, nazione. La libertà in senso puramente astratto è un ideale solo per chi usufruisce già di molti privilegi che magari non ritiene necessari per altri/e. Chiudere gli occhi sulla mancanza di diritti di altri/e è favorire il nuovo proliferare dei fascismi, la segregazione dei migranti, le nuove sudditanze chieste a corpi che sono questi “ archivi emotivi” che a tutti ricordano quanto non coincidano i discorsi della norma con le nostre vite.

Nadia Agustoni
(Bergamo)

 

 

Aspetti sconcertanti

Il libro (Indro Montanelli, Morire in piedi, Rizzoli 2006) ci interessa perché sostanzialmente è la storia dei 40 attentati, dal ’38 al ’44 – tutti falliti, organizzati dalla casta militare prussiana, – contro Hitler, comandante supremo delle forze armate tedesche, congiure e attentati che hanno implicato in sette anni cinquemila persone, senza mai arrivare a buon fine per diverse ragioni: l’ineludibile amore, la costante soggezione, l’adolescenziale devozione dei germanici all’Autorità, quale che sia, comunque agisca, alla quale si sentono legati da un giuramento di fedeltà, anche se stereotipo.
Questo implica la necessità di un allontanamento dall’oggetto amato/odiato mediante la creazione e l’interposizione di una serie di strumenti psichici e fisici, umani e non, senza limiti e scrupoli; sino all’uso, da parte di un padre, del figlio imbottito di esplosivo per un’udienza con il Führer, “naturalmente” rimandata (20 febbraio 1944).
Altre ragioni dei pervicaci insuccessi sono state: la necessaria lunghezza della preparazione, dell’organizzazione e la meticolosità di ogni tentativo; la valutazione positiva, da parte dei congiurati, di molte realizzazioni del nazismo, dalla pace interna alla piena occupazione, dalle conquiste ad occidente a quelle ad oriente, dalla tacitazione delle chiese alla pulizia etnica:
Conclusione? Ucciderlo sì, ma possibilmente... a metà o meno, magari riuscendo a superare la tacita o esplicita opposizione dei familiari.
L’aspetto sconcertante, persino risibile, delle macchinazioni di questi congiurati aristocratici – tutti dei “von” – arriva all’ingenuità di rivolgersi ai nemici per accattivarsene il sostegno, il consenso, il beneplacito, nell’intento di conservare alla Germania una parte delle conquiste militari hitleriane; non capendo – dal punto di vista del loro provinciale imperfetto nazionalcapitalismo – che al genuino capitalismo, come quello degli alleati, ciò che maggiormente importava era la macchina del profitto, quindi più la guerra fosse durata, meglio sarebbe stato. (Esemplare lo scacchiere italiano: sbarco in Sicilia, per risalire lentamente la penisola anziché, per esempio, a Mestre, tagliando subito in due la macchina bellica tedesca.)
Conclusione. Fra tutti quei congiurati, amanti della patria e dissenzienti da Hitler, non ce n’è stato uno che – presentandosi a lui per ragioni di servizio, quindi normalmente armato – abbia avuto il coraggio di freddarlo, assumendosene la responsabilità e accettandone le conseguenze.
Diversamente Gaetano Bresci, sbarcato in Italia nel giugno del 1900, il 29 luglio aveva compiuto la sua missione, richiesta dalla necessità sociale, di eliminare il tiranno, come emerge dalla storia della nostra civiltà. Uno a uno, senza danni collaterali.

Virgilio Galassi
(Milano)

 

 

 

I nostri fondi neri

Sottoscrizioni.
Aurora e Paolo (Milano) ricordando Elio Xerri, 500,00; Massimo Serafini (Albano Laziale – Rm), 15,00; Roberto Palladini (Nettuno – Rm) 20,00; Antonio Gei (Piovene Rocchette – Vi) 20,00; Roberto Colombo (Boffalora Ticino – Mi) 4,00; Santi Rosa (Novara) 20,00; Fulvio Fiorio (Aymavilles – Ao) 3,00; Enrico Calandri (Roma), 200,00; Arcangelo Piciullo (San Giovanni Dosso – Mn) 4,00.
Totale euro 786,00.

Sottoscrizioni specifiche per sostenere il 2Dvd sullo sterminio nazista degli Zingari.
Giulio Abraham (Trento) 6,00; Gianni Pasqualotto (Crespano del Grappa – Vi) 136,00; Gianpiero Landi (Castelbolognese – Ra) 18,00; Giordana Garavini (Castelbolognese – Ra) 18,00; Franco Franzoni (Pianoro Nuova – Bo) 20,00; Roberto Pietrella (Roma) 30,00; Tommaso Bressan (Forlì) 32,00; Adriana e Roberto Bassani (Milano) 50,00; Giovanni Cortopassi (Cerveteri – Rm) 18,00; Luigi Luzzatti (Genova) 50,00; Giancarlo Gioia (Grottammare – Ap) 50,00; Roberto Malnati (Malnate – Va) 9,00; Andrea Papi (Forlì) 6,00; Fabio Conti (Ragusa) 25,00; Gianfranco Marelli (Ischia) 18,00; Francesco Zappia (Gioiosa Marea – Me) 100,00; Gesino Torres (Santo Spirito – Ba) 20,00; Biblioteca Comunale (Sarcedo – Vi) 4,00.
Totale euro 610,00.

Totale complessivo delle sottoscrizioni: euro 1.396,00.

Abbonamenti sostenitori (quando non altrimenti specificato, trattasi di 100,00 euro).
Franco Cappellacci (Marotta di Fano – Pu); Gianni Pasqualotto (Crespano del Grappa – Vi); Giulio Zen (Gualdo Tadino – Pg); Lucia Sacco (Milano).
Totale euro 400,00.