rivista anarchica
anno 36 n. 322
dicembre 2006 - gennaio 2007



a cura di Marco Pandin

 

Tras os montes

Qualche riga per dirvi cose che già sapete in tanti (girate pagina, voi che sapete di sapere già tutto), perché Stefano Giaccone è spesso di passaggio da queste parti. È che è uscito – da ormai qualche mese – un suo nuovo cd, e che non riesco a rimanere in silenzio di fronte a quella che è secondo me la sua opera migliore, nel senso di più ben scritta e pensata, e complessivamente meglio suonata, cantata ed arrangiata.
Più che per la sua produzione da solista (una dozzina tra singoli, dischi e cd), Stefano è conosciuto per aver fatto parte dell’open group Franti, attivo negli anni Ottanta e recalcitrante alle definizioni di stile come alle influenze, riconosciuto come l’espressione più libera ed originale del rock indipendente italiano di allora. Franti ha fatto un bel pezzo di strada ma ad un certo punto è scomparso, pur rimanendo vivo e scalciante in altre formazioni, incroci e collaborazioni che perdurano tutt'oggi. Stefano, che di Franti era una delle teste oltre che voce e sassofonista, dopo una parentesi con gli anarcopunks aostani Kina, ha continuato a percorrere una strada musicale tutta sua, tracciata in grande parte nei territori della canzone d'autore e con una voglia addosso di sperimentare che s'è spesso trasformata in necessità espressiva primaria.
A volte, s'è fermato sul ciglio della strada a raccontare le sue storie personali e, volentieri, a mettere addosso la sua voce e le sue mani a canzoni scritte da altri: ricordo qui, solo di sfuggita, l’incredibile ed eccellente raccolta di interpretazioni “Una canzone senza finale” di un paio d’anni fa realizzata con Mario Congiu, nonché le varie riletture di nomi grandi e ingombranti sempre fatte in questi anni, da Tim Buckley a Luigi Tenco a Dick Gaughan, tutte culturalmente e geograficamente lontane tra loro come stelle su una mappa del cielo, ma collegate da fili rossi come fossero costellazioni.

Stefano Giaccone

“Tras os montes” arriva nella tarda primavera del 2006 con dentro undici canzoni, quasi tutte scritte da lui, registrate l’anno prima e scritte ancor prima (alcune Stefano le offre dal vivo da tempo, ma in versioni piuttosto diverse; e “Quel giorno” stava a chiudere il secondo album degli Orsi Lucille, uscito nel 1992, disco profetico e inarrivabile). Tralascio le tre cover, perché conosco solo di striscio gli originali, per soffermarmi sulle otto canzoni di Giaccone, tutte caratterizzate da quel suo modo di mettere in fila le parole una dietro l'altra facendogli prendere fuoco.
Il mio amico Stefano ha costruito uno stile inconfondibile, fatto di rinunce e pugni chiusi, a coniugare la nebbia nascosta nel nebbiolo con quella che nasconde l’orizzonte. Il suo è un continuo girovagare agitato tra i versi e i suoni, un intermittente sentirsi mal sintonizzato con tutto il mondo intorno, un sentirsi "spostati" e a disagio tra occasioni sprecate e cose che non s'è trovato modo di dire, o che si è arrivati a dire troppo tardi, o troppo male, con le parole sbagliate. Parole sbagliate strette forte in mano e tra i denti fino a raddrizzarle, messe una dietro l’altra in forma di canzoni, canzoni che poi vengono fuori sghembe, tutte storte, in equilibrio sottile tra accordature aperte e rime impossibili, canzoni che si arrampicano nel cielo come rami secchi in autunno, spogliati. Canzoni che si ascoltano restando comunque scomodi – o, ben che vada, spaesati – perchè incapaci a offrire poesia non dico tradizionale ma almeno a portata di mano, o un qualchecosa di sentimentalmente commestibile: traduzione scritta e sonora di immagini reali, specchio che rimanda indietro un quadro complessivo di indecisione e precarietà, di sbagli e meschinità, canzoni che parlano di cose che inevitabilmente succedono e che probabilmente era meglio non fossero successe.

“Tras os montes” è un disco difficile come quei momenti in cui ci si ferma a pensare ad appena ieri e ci si vede lontani. Un disco di dialoghi con gli spettri: da Victor Jara a Carlo Giuliani, da Bea troppo fragile per non spezzarsi al “genovese da Carrara”, all'amico ritrovato all'innamorata forse mai stata davvero tale. “Tras os montes” è un disco di sogni ad occhi aperti, sogni non realizzati né realizzabili che fanno riassaporare il gusto dolceamaro della sconfitta, della frustrazione, della lontananza. Questa sua essenziale fragilità, perchè di questo alla fine si tratta, a volte si veste di aggressività, e allora ecco che Stefano pesta la grancassa e fa la voce grossa, ecco che Stefano scrive usando la penna come una lama tagliente come se avesse sulle spalle tutto il peso del mondo: nella “Canzone con dito medio” c’è Fabrizio De André fotografato di spalle che partiva con del vecchio vinile di Franti sottobraccio, e ti sorprendi di come tutta questa incazzatura e disperazione si trasformino impercettibilmente in una canzone d’amore sconfinata, ma poi ci pensi su e ti accorgi che lo fanno anche onde del mare quando tornano ad accarezzare la riva dopo la burrasca.
“Tras os montes” non sarebbe così bello, complicato, dannato e maledetto se dentro non ci fosse Dylan Fowler: gallese che raccoglie radici a spasso per l’Europa intera, da oriente a occidente, suona la chitarra come se avesse rubato una mano a John Rembourn, un’altra a Michael Hedges e un’altra a Egberto Gismonti.
Il cd è pubblicato da La Locomotiva (distr. Venus). Info su www.la-locomotiva.com (ma il server è orribilmente lento). Cercatelo, consumatelo, mangiatelo vivo pezzo dopo pezzo.

Marco Pandin
stella_nera@tin.it