rivista anarchica
anno 36 n. 319
estate 2006


diritti negati

Dentro/contro i CPT
di Marco Rovelli

 

Un libro/denuncia, pubblicato dalla BUR, scritto da un componente de “Les anarchistes”, gruppo musicale impegnato anche sul piano sociale. Pubblichiamo la testimonianza di un detenuto nei CPT e gli scritti di Erri De Luca e Moni Ovadia compresi nel libro.

Jihad è nato in Palestina.
Ha vissuto in un campo profughi in Libano.
Ha fatto ventun anni di galera a Rebibbia.
Però dice: Trovarmi in un CPT è stata l'esperienza forse più traumatica di tutto il mio percorso di vita.

Non solo per le botte. C'è di peggio quanto a traumi. Però intanto partiamo da quelle. Te ne racconto una.

Quando è l'ora della conta, alla sera, vengono chiusi tutti i passaggi tra i settori, inferriate alte e fitte, vere e proprie reti di gabbia, sormontate da rostri ricurvi. Vengono contati tutti quelli che stanno nel cortile di una cella, per verificare che ci siano tutti. Non un controllo nominativo, questi non hanno un nome. Una conta pura e semplice. Può capitare che venga a trovarsi qualcuno di un'altra cella, in un cortile: prima della conta i passaggi sono aperti e ci si può liberamente spostare da un cortile all'altro.
Un tunisino entra spesso nel cortile della cella di Jihad. Ha fatto amicizia con un cinese, passano il tempo a giocare con il telefonino. Fanno le gare. Anche adesso fanno le loro gare, mica sanno che ieri sono scoppiate quattro bombe a Londra. Del resto, anche se lo sapessero, continuerebbero a giocare lo stesso.
Il tunisino è seduto per terra, appoggiato al muro, gioca. L'ispettore ha chiuso il cancello. Lo vede.
– Di quale cella sei?
Il tunisino alza la testa dal telefonino, lo guarda sorpreso, impaurito.
– Della cella qui accanto.
Il tunisino è piccolo, non pesa più di cinquanta chili, e accovacciato sembra ancora più piccolo. È un bersaglio perfetto. L'ispettore – E allora che cazzo ci fai qui! – lo centra con un calcio d'avvertimento.
Lui è piccolo, sì, ma non sa incassare in silenzio.
– Che cazzo vuoi?
Non ha ancora capito che la parola, qui dentro, è severamente punita. Che qui dentro si pratica l'addestramento al silenzio.
– E mi rispondi pure?
L'ispettore è offeso dalla reazione del tunisino. Gli tocca colpirlo con un pugno, adesso. E dietro a quel pugno, come a un grido di battaglia, scattano i sette poliziotti che stanno lì, ai suoi ordini, e il tunisino diventa un bersaglio collettivo.
Lui è sempre lì accovacciato, non può reagire, nessuno reagisce nel cortile, la forza è dalla loro parte, oltre che il diritto, se di diritto qui dentro si potesse parlare, e non vigesse solo il diritto della forza. L'unico modo di reagire, allora, è rovesciare la forza su di sé, il tunisino tira fuori una lametta da una tasca e comincia a tagliarsi sul braccio.
No, non hai capito, la forza non devi proprio usarla, nemmeno su di te. Ti è consentito unicamente subire. Così può essere tradotto il gesto dell'ispettore, che lo solleva da terra, lo tiene fermo insieme a un'altra guardia, e comincia a dare ordini sulle modalità di esecuzione:
– Dagli un calcio in bocca!
– Sullo stomaco!
– Dai!
Il cortile è costretto a guardare, e lo fa in silenzio. Unica si fa sentire la voce di Jihad, che più degli altri ha la parola, e non accetta di farsela togliere in questo modo. Lo sanno anche le guardie che Jihad è diverso dagli altri, che non è un corpo muto come gli altri, che il suo passato non è stato possibile cancellarlo e dunque la sua parola può venire ascoltata, fuori dal campo.
– Vi denuncio! – urla Jihad – Lasciatelo stare, come vi permettete!
Jihad parla l'italiano perfettamente, sa quali sono i suoi diritti, e fuori ha una fitta rete di persone che lo sostengono. Le guardie smettono di picchiare il tunisino, ma smettono solo di picchiarlo lì, davanti a tutti, perché se lo portano via, fuori dal cortile, e adesso che non si vedono più, ancora si sentono le urla del tunisino. Finché si risentono le voci delle guardie nel cortile. Rientrano, sono più di prima, agli ordini dell'ispettore. Vogliono perquisire la cella del tunisino, aveva una lametta, e avere una lametta in un campo è severamente proibito. L'ispettore è rabbioso, anche se fa mostra di trattenersi. E si rivolge a tutti. A chi ha orecchie da intendere.
– Guardatevi, come vi comportate! E io che mi sforzo di trattarvi come esseri umani!
Jihad intende. Ha orecchie che capiscono bene l'italiano. D'altra parte che considera questi ragazzi come animali, l'ispettore non era necessario che lo dicesse a parole. Lo si capiva benissimo dai fatti.
Un applauso. A queste parole ci vuole un applauso. Jihad batte le mani, Bravissimo, dice, Si vede che il suo sforzo è proprio enorme…

Jihad ha una competenza linguistica che lo tiene lontano dalle ritorsioni. E poi, fuori, ci sono un sacco di persone che lo sostengono. Perché Jihad non viene dal nulla, con lui non si può fare come con gli altri, trattarli come nessuno e nel nulla farli scomparire.

Sono anni – da quando ha avuto la semilibertà – che Jihad ha dato forma alla sua vita a Roma. Lì vive, lavora, studia, convive con una ragazza. Fa una vita normale, che si confonderebbe con quella degli altri. Solo che, il giorno in cui è finita la pena di ventun anni, e la libertà era tornata a essere totale, lo hanno preso e rinchiuso in un centro.
In carcere Jihad c'è stato ventun anni. Condannato per un attentato a un diplomatico arabo, uno di quegli arabi che, dai militanti rivoluzionari di Fatah Consiglio Rivoluzionario, il gruppo di Abu Nidal, venivano considerati traditori della causa palestinese. Aveva ventidue anni, allora, già gli era accaduto di dover lasciare la sua città in Palestina, e veniva da un campo profughi libanese. Non vedeva altra via d'uscita, allora. Fu condannato a trent'anni. Tra indulto e liberazione anticipata per aver scontato la pena in modo esemplare, Jihad è uscito dopo ventun anni. Ventun anni passati nella sezione comuni di Rebibbia, non esattamente un hotel a cinque stelle.
Eppure Jihad dice, Il CPT è peggio del carcere.

Sono campi pensati per togliere ogni speranza. Per rinserrare il tempo nel petto.

Uno sguardo innaturale

Un giorno, invece che libero nella sua città, Jihad si trova in una grande gabbia, e dentro a questa gabbia altre gabbie più piccole. Un grande recinto metallico, con lo sguardo che non vede il fuori, ma solo metallo: per vedere il fuori occorre essere perfettamente perpendicolari alla grata, occorre una postura forzosa, uno sguardo innaturale.
Chi ha concepito i CPT, dice Jihad, ha la mente un po' perversa. Sono stati pensati per opprimere chi ci sta dentro. Per togliere il respiro, oltre che lo sguardo. Il recinto, in alto, è sormontato da grandi zanne di ferro, che chi sta dentro sente incombere sulla testa, sente che sono come grossi ganci inumani che stanno per piombare su di lui e scaraventarlo via, lontano. Una mente perversa, quella dell'architetto dei CPT, una mente metaforicamente perversa.
E poi muri di metallo tra una cella e l'altra, le singole celle che sono gabbie con sbarre di ferro, sopra la testa non un tetto ma una tettoia. Anche il campo di calcetto ha una rete metallica su cinque lati. Sul sesto, l'asfalto.

Ti assicuro, dice Jihad, Ti assicuro che stare in un CPT è stata l'esperienza forse più traumatica di tutto il mio percorso di vita. Perché ti trovi con delle persone che non hanno un futuro. Chi finisce nel CPT è una persona annullata.
Tu non esisti – è questo ciò che tutto, intorno, ripete fino ad assordare.
Non più esistenza. Non più tempo. Non più dimensioni. Solo un grande vuoto, senza orizzonte, senza prospettiva. E senza la prospettiva, lo sguardo non vede nulla. Si sta nel buio totale, dice Jihad.
Nel buio totale lo sguardo si sforza, ma per quanto si sforzi continua a non veder nulla, l'unico risultato è che i nervi si tendono, e a un certo momento si spezzano.

Nel vuoto non ci sono riferimenti, certezze, regole. Allora accade che qualcuno, come Jihad, provi a segnare lo spazio, a farlo proprio. Per non disorientarsi del tutto, perché la vertigine non giunga a sopraffarlo. Così ogni mattina Jihad, appena sveglio, fa ginnastica, colazione, e poi, verso le nove, sveglia i sette compagni di cella per fare le pulizie. Ci sono scarafaggi e insetti, nel centro, e la passata del personale della ditta di pulizie non è sufficiente. Jihad si fa dare da loro secchio e strofinacci, inonda la cella d'acqua e sapone. Fa come fosse a casa sua, Jihad. In carcere, del resto, è cosi: lì un futuro ce l'hai, lo spazio che ti è toccato è in qualche misura tuo, e lo curi. In un CPT, invece, in un posto dove si è tutte persone provvisorie, persone provvisoriamente annullate, si tende a lasciarsi andare, e questo non è sano: per questo Jihad pretende che tutti partecipino all'impresa. E gli altri lo seguono. A malincuore, magari. Infatti le mattine in cui Jihad ha lasciato presto la cella per andare all'udienza, nessuno la inonda d'acqua e sapone.

Annullati. Fino al riconoscimento stesso del proprio essere. In carcere, almeno, qualche diritto lo si detiene. Per quanto la pena sia lunga, per quanto il carcere sia un carnaio, non si cessa di essere una persona. Dire che qualcuno è una persona equivale a dire che ha dei diritti. Ma in un CPT, sebbene si sia detenuti peggio che in carcere, non si ha diritto neppure a dirsi detenuti.
Il giudice e la guardia si sentono offesi, se tu dici di essere un detenuto. Non sei un detenuto, ti dicono, sei un ospite. Tienilo bene a mente, tu sei un ospite. Qui sei trattenuto, non sei ristretto.
Non è possibile essere presi, catturati, vinti più di così. Privati perfino del riconoscimento della cattura.
Durante l'udienza di convalida l'avvocato ha detto che Jihad è stato arrestato e portato al CPT. Allora il giudice si è scosso, è uscito dal silenzio, quaranta minuti che non aveva aperto bocca, ma questa parola, Arrestato, lo ha fatto sobbalzare, Nessuno è stato arrestato, dice il giudice, Qui non ci sono carcerati, Qui ci sono solo ospiti trattenuti temporaneamente, Non dica così avvocato, Non può permettersi di parlare di arresto.
Jihad la conosce, la lingua italiana, e conosce i suoi diritti, quelli che ha e quelli che non ha, quelli che aveva e che adesso non ha più. Così quando gli dicono, Tu sei un ospite, lui capisce bene che stanno giocando con lui. A dirgli che è un ospite sono soprattutto quelli della croce rossa, quelli che Jihad dice essere gli ammortizzatori tra detenuti e guardie, il cuscinetto della situazione. Quelli della croce rossa rifiutano di essere dei carcerieri, non sono preparati per essere carcerieri, non vogliono esserlo. Ma lo sono. E Jihad non si fa giocare. Voi siete i nostri carcerieri, dice, È inutile che rifiutate. Io sono stato in carcere ventun anni, so quel che dico, qui sono più carcerato che là. (…).

Il sostantivo potere dev'essere sempre seguito da un complemento di specificazione: che si specifichi delle guardie, o del giudice, l'importante è specificare uno o più complementi.
Se il potere esige specificazione, resta però il fatto che potere è declinazione all'infinito. Ed è quest'azione, il verbo infinito del potere, che l'oppresso non cessa di riconoscere ovunque, a prescindere dell'agente.
Come quel rumeno, che ha passato anni di galera in Romania, quando ancora il muro non era caduto, le fosse di Timisoara non erano state inventate dallo spettacolo che avrebbe preso il posto del comunismo reale, e i coniugi Ceausescu non erano caduti ai piedi di un muro. Jihad se lo ricorda bene, e ancora ride ripensando a quel ragazzo che chiede una medicina all'infermeria del CPT, e nessuno gli risponde, e alla fine lui grida, Comunisti, amici di Ceausescu!
Ceausescu è morto ai piedi di un muro, Elena è morta con lui, ma gli agenti del potere sono legati da una solida, incorruttibile catena d'amicizia. E gli amici, come già scriveva Aristotele, sono sempre fuori legge.

Amici fuorilegge

Nei CPT, nel concentramento di questi campi, il disciplinamento non avviene solo in senso verticale. Non c'è solo lo stimolo-risposta, il comando della guardia che deve suscitare l'obbedienza dell'ospite. C'è un disciplinamento orizzontale, che divide gli ospiti in segmenti tra loro ostili. Gli ospiti non sono senza parola solo verso il potere; sono senza parole, spesso, anche tra di loro.
La maggior parte dei detenuti non parla l'italiano, e così si trovano a raggrupparsi per nazionalità, senza rapporti trasversali.
Nell'assenza di comunicazione reciproca diffidenze, sospetti, tensioni, si cumulano, e attizzano diffidenze antiche. Gabbia, qui, fa rima baciata con rabbia. Dove regnano incertezza e paura, violenza e ostilità hanno lo spazio per dispiegarsi. Non ti parli, ti guardi in tralice – nell'umano, troppo umano cagnesco. (…).

Jihad ha occhi bene aperti per vedere quel che accade nel centro, e una buona lingua per parlarne.
La rete che lo sostiene da fuori, che tiene l'apparato sotto pressione, fa sì che per Jihad la legge venga applicata nel modo più stretto. I suoi sessanta giorni scadono domenica 14 agosto, e di solito la domenica gli uffici non lavorano. Ma per Jihad si fa un'eccezione, e l'ispettore dell'ufficio stranieri rientra apposta per lui, perché non gli venga risparmiato nemmeno un giorno nel campo. Anzi, i sessanta giorni scadono a mezzogiorno, e Jihad esce a mezzogiorno e venti.
Mentre scrivo, Jihad ha un ricorso contro il rifiuto della richiesta d'asilo, e un ricorso contro il rifiuto del permesso di soggiorno per motivi umanitari. E aspetta che gli arrivi un documento di identità dall'Autorità nazionale palestinese.

Facciamola finire bene, questa storia. Facciamo che Jihad si sposa. In fondo convive da otto anni, e se fino ad ora non si sono sposati è perché lui ci teneva a fare un matrimonio da persona libera. Ecco, questa storia è già lì. Al matrimonio di Jihad.

Marco Rovelli

Erri De Luca

 

Prefazione di Erri De Luca

Storie di uomini e donne presi a calci e pugni, in molti contro uno, storie di vigliaccherie nostre autorizzate e commesse di nascosto, contro ogni legge prima che contro ogni umanità.
Ecco qui un fascio di racconti e di nomi che non si fanno cancellare. Si imprimono nella fragile superficie delle pagine e da lì sprofondano in chi ha cuore di leggerle.
Mai contare gli esseri umani, mai ridurli a mucchio, sommatoria: sono singole vite, uniche e strapiene di ragioni per affrontare lo sbaraglio di deserti e mari, naufragi e schedature, impronte digitali e pestaggi. A che grado di sbirraglia abbiamo abbassato giovani poliziotti e carabinieri coetanei di una gioventù d'oltremare da schiacciare, scacciare.
Ognuna di queste avventure merita una medaglia al valore, si è meritata invece la detenzione abusiva, il campo di concentramento, la privazione di ogni difesa. Al di sotto delle prigioni stanno i Centri di Permanenza Temporanea (CPT), fogna della coscienza di un paese ammesso tra i civili.
CPT: neanche il minimo coraggio di nominarli per quello che sono. Del resto i nazisti chiamavano distretto abitativo (WOHNUNGBEZIRK) i ghetti in cui insaccavano le vite da distruggere.
Dalle sbarre dei CPT scappare è un diritto. Abbattere questi campi è la prima urgenza per chi ha a cuore il nome di italiani, la faccia del nostro paese.
Siamo diventati all'estero ridicoli per la nostra bizzarria di eleggere a capo del governo il più ricco cittadino, ma stiamo diventando anche aguzzini di viandanti che non hanno commesso alcun reato.
Questi racconti sono la versione moderna della “storia della colonna infame” di A. Manzoni. Allora, al tempo della peste, si svolsero osceni processi contro innocenti accusati di spargere il morbo. Oggi si condannano senza alcun grado giudiziario degli esseri umani a scontare pena in un recinto di appestati. È la nostra storia delle colonne infami e un giorno dei figli chiederanno certo conto ai padri di quello che hanno lasciato fare, permesso, incoraggiato col silenzio.
Verrà una generazione che sputerà in faccia ai persecutori di oppressi ed esalterà i pochi nomi di italiani da salvare dal macero, uno per tutti quello dell'avvocato Alessandra Ballerini di Genova.

Erri De Luca

 

Moni Ovadia

 

Postfazione di Moni Ovadia

Il nazismo che è in noi

L'iperbole è una delle forme retoriche preferite del linguaggio sopravvissuto alla morte apparente delle ideologie. La terminologia che definisce le modalità del totalitarismo nazista e dell'universo concentrazionario, pratica estrema e senso ultimo di quel regime, oggi viene mutuata con ridondanza da coloro che vogliono attirare l'attenzione e l'indignazione dell'opinione pubblica verso le forme della violenza, della guerra, del razzismo o della repressione contro popoli, minoranze, ceti sociali marginali. Molto spesso, l'uso di quella terminologia è sensazionalistico, ignora i contesti, le specificità e le differenze, ha il solo scopo di soddisfare il desiderio di schieramento militante a buon mercato da parte di coloro che se ne servono.
Un libro sui CPT dal titolo I lager italiani, sembrava rientrare in questa fattispecie e prima di accingermi alla lettura, ho provato un moto di fastidio per la scelta di quel titolo minaccioso. La mia sensazione di disagio era del tutto immotivata. Il titolo è pienamente legittimo e corrisponde con coerenza ad un'opera che ha un intrinseco valore narrativo e una rilevanza morale indiscutibile. Leggendo questi racconti straordinari e paradigmatici che danno voce e fanno emergere dall'inesistenza uomini a cui l'appellativo infamante di “clandestino” ha tolto persino le dimensioni reali dell'essere vivente, prendiamo coscienza di quanto la nostra pseudodemocrazia consumista, conviva con nonchalance con l'eredità totalitaria nazifascista e capiamo in quale misura, una parte della classe politica che ci governa, sia a proprio agio con i princìpi concettuali che ispirarono quel sistema.
I clandestini rinchiusi nei CPT, non vivono come gli internati dei lager nazisti. Se ci riferiamo alle loro condizioni strettamente materiali, la correlazione è improponibile ed è lo stesso autore a segnalarcelo nel suo acuto saggio conclusivo per non prestare il fianco ad eventuali critiche capziose che mirassero strumentalmente a banalizzare l'intero discorso. Il merito non è quello delle pur ignobili condizioni della mera esistenza dei reclusi, indegne di una qualsivoglia civiltà, bensì le coordinate giuridiche ed ontologiche che definiscono il clandestino e che ne legittimano la reclusione in uno spazio d'eccezione in cui viene spogliato di ogni status e di ogni diritto.
Marco Rovelli, con la forza di una narrazione che trapassa ogni possibile indifferenza o attenuazione di convenienza e con una lucida, appassionata riflessione politico-filosofica nel solco dei fondamentali studi di Hannah Arendt e di Giorgio Agamben, dimostra che i CPT sono dei lager veri e propri e che il ventre che partorisce questo obbrobrio, è il ventre pasciuto della nostra società occidentale.
Ho visitato il CPT di via Corelli a Milano a pochi mesi dalla sua istituzione come inviato del “Corriere della Sera” e in quell'occasione scrissi che quei luoghi erano inaccettabili per un paese che si vuole libero e democratico. In quella circostanza parlando nella loro lingua con alcuni dei reclusi bulgari, avevo percepito la durezza e l'iniquità della loro condizione, ma non nei termini di cui ho letto in queste pagine.
L'ascesa al governo di Berlusconi e della sua coalizione, che annovera fra i suoi più “autorevoli” esponenti gli eredi del fascismo, ha portato alle estreme conseguenze il senso ultimo di ogni istituzione concentrazionaria con la compiaciuta coerenza di un'ignobile cultura nazionalista. La Bossi-Fini ha dato il là alla fascistizzazione dei CPT. Le anime belle dell'eterna retorica “italiani brava gente”, i sedicenti moderati che coltivano la ferocia contro “l'altro” dietro le linde tendine del benpensantismo, non si facciano illusioni, quando questa vergogna emergerà in tutto il suo schifo, la loro infamia sarà evidente.
Dopo Auschwitz, dopo i Gulag, nessuno può essere assolto per avere girato la faccia al fine di non vedere e non sapere.
Il clandestino è l'ebreo di oggi. Egli è ridotto a “sotto uomo” prima dalla sinistra cultura retorica “sicuritaria”, poi una legge fascista lo dichiara criminale per il solo fatto di essere ciò che è, un essere umano che ha fame e cerca futuro per sé e i suoi cari e che per questo viene privato di qualsivoglia status, sottoposto alla violenza della reclusione, sottratto alle tutele minime che spettano ad un essere umano per diritto dei nascita. Una volta sepolto in uno spazio d'eccezione, il clandestino è alla mercè di arbìtrii, percosse, torture, privazioni, abusi sessuali. Il suo “rimpatrio” lo sottopone ad ulteriori brutali abusi e talora al rischio reale di perdere la vita nel modo più atroce.
L'abolizione immediata dei CPT, la ricerca di soluzioni autenticamente democratiche per il problema dei migranti, deve diventare una priorità politica e umana. È urgente denunciare il carattere totalitario di questa vergognosa istituzione e smascherare i politici che fanno i pellegrinaggi della Memoria per rendere omaggio alle vittime della Shoà, calcando gli zucchetti dell'ipocrisia per rifarsi l'immagine, mentre a casa praticano e difendono la logica dei carnefici.

Moni Ovadia