rivista anarchica
anno 36 n. 317
maggio 2006


globalizzazione

Elefantiasi patologia mortale
di Antonio Cardella

 

Se vogliamo venire a capo di almeno qualcuno dei mille dilemmi che ci affliggono, dobbiamo ripartire dall'uomo.

 

Abbiamo più volte sottolineato, anche nelle pagine di questa rivista, che, a parte le diversità di cultura politica, di stile, attraverso le quali il disagio si manifesta, i problemi che emergono in tutto l'Occidente industrializzato sono della stessa natura e appaiono difficilmente risolvibili in un contesto di economia di mercato. E sono problemi indissolubilmente collegati gli uni agli altri, investendo i temi della politica e dell'economia, del governo del territorio e del mantenimento di uno stato sociale ai livelli di non rottura, la quale rottura, ove dovesse verificarsi, renderebbe il contesto non più governabile.
Si prenda il tema della flessibilità del lavoro. Esso, intanto, prescinde dal colore politico dei governi che si trovano a doverlo affrontare; poi è del tutto evidente che, si vogliano o meno attuare ammortizzatori sociali a garanzia dei lavoratori precari, è la logica d'impresa che pretende comunque di avere un mercato del lavoro a basso costo e svincolato da una normativa a protezione del lavoro. La richiesta di avere mano libera nel gestire l'occupazione non nasce o, per lo meno, non nasce soltanto dall'istinto predatorio, dall'immagine stereotipata del capitano d'industria vorace e crudele, del padrone o padroncino che si avverte arbitro dei destini del lavoratore che assume, ma da uno scenario complesso di un mercato globalizzato dove operano condizioni di sviluppo e tradizioni giuridiche profondamente diverse che non è possibile armonizzare senza rimeditare profondamente le logiche del mercato e dell'accumulazione capitalistica. Senza considerare, poi, che, alle porte dei paesi ricchi, premono masse di diseredati del terzo e quarto mondo, per i quali un piatto di pasta e un tetto comunque elevato a protezione dalle intemperie e del sonno quotidiano sono remunerazioni adeguate a fronte di un lavoro per quanto gravoso esso sia.

La punta dell'iceberg

La rivolta del mondo del lavoro francese che caratterizza questo inizio di primavera è la punta di un iceberg che copre un intero continente e dal quale, al di là delle dichiarazioni di principio che lasciano il tempo che trovano, non si sa come emergere. Il governo di de Villepin ha rozzamente tentato di imporre una legge che, come è stato detto, condanna una generazione, quella dei ventenni, all'usa e getta: sbagliato ovviamente il metodo di non interpellare preventivamente lavoratori e sindacati e di fare apparire la norma proposta punitiva nei riguardi di chi ha in qualche misura goduto di una qualche protezione sociale, ma è chiaro che, se chiamati attorno ad un tavolo, i sindacati francesi avrebbero per primi accettato di discutere, come del resto è avvenuto in Germania, in Inghilterra e nella stessa nostra feroce Italia con la legge Biagi, che dicono tutti di voler modificare ma nessuno pretende di abolire. L'evidenza è che una nuova legislazione sul lavoro che tenga conto delle mutate condizioni dei mercati è auspicata da tutti gli apparati politico-sindacali dell'Occidente, con maggiori o minori accentuazioni su questo o quell'aspetto del problema.
Il fatto è che, accettando le regole del mercato (sia esso regolato o privo di vincoli) e considerando le dinamiche demografiche, i fattori della produzione e del profitto, si è creata una matassa impossibile da dipanare ed è una matassa che in un futuro non tanto remoto scatenerà una rovinosa catena di conflitti per la sopravvivenza il cui esito finale è imprevedibile.
Un processo simile si rileva nella distribuzione della ricchezza.

Sacrosante aspirazioni

La ricchezza prodotta dal lavoro e dalla produzione di beni e servizi è di per sé una ricchezza redistributiva. In un sistema che produce seguendo un criterio finalizzato ai reali bisogni delle popolazioni (che non sono statici ma si evolvono con l'evoluzione del complessivo contesto economico), la base dei redditi da lavoro si amplia progressivamente in armonia con la graduale crescita della domanda: è normale che una famiglia progressivamente voglia accedere a migliori condizioni di vita, che voglia abitare una casa più ampia e confortevole, che allarghi la sfera dei suoi consumi, ma queste sacrosante aspirazioni debbono essere compatibili con un contesto che segue le medesime logiche, che scandisca le tappe del suo sviluppo in modo che di questo sviluppo possa godere la comunità nel suo insieme, senza divaricare la forbice che renderebbe insostenibili le differenti categorie di reddito. Voglio dire che quella per una società regolata dalla produzione di beni necessari senza che si inneschino dinamiche parassitarie (quale quella del denaro che, sottratto alla sua vocazione originaria di semplificazione dei rapporti commerciali e di sviluppo delle tecnologie di produzione, produca di per sé altro denaro), è la via difficile ma ineludibile capace di arginare conflitti e dinamiche di sfruttamento.
Voi direte che veleggio nel mondo dei sogni, che la realtà è ben diversa e che è difficile, se non impossibile, che cambi rotta. Il dato più evidente della condizione in cui vive il capitalismo del terzo millennio è che, a prescindere dalle devastazioni che provoca, non riesce ormai più a controllare le sue dinamiche. Basti osservare quale sia il grado di impellenza, da tutti avvertito, di reperire regole che valgano per aree territoriali sempre più vaste e il fallimento cui vanno incontro i tentativi di marciare in questa direzione. I danni provocati dalle così dette istituzioni mondiali, quali il Fondo Monetario Internazionale, il WTO, la Banca Mondiale e via dicendo, sono sotto gli occhi di tutti e travalicano di gran lunga i difetti genetici di strutture create a protezione di interessi particolari di dimensioni planetarie. Abbiamo più volte insistito sul ruolo perverso del FMI nelle crisi rovinose dell'Argentina e del Sud Est Asiatico, con danni alla comunità internazionale dovuti più che alla volontà di sciacallaggio dell'Occidente opulento, alla carenza di strumenti di analisi per realtà così diverse dalle realtà economico-finanziarie in cui si muove il capitalismo maturo in Occidente.
L'onda lunga di quelle recessioni improvvise e devastanti ha investito tutti, con crolli borsistici e rovinose dissipazioni di ricchezze.
Se guardiamo, più vicino a noi, la Comunità Europea, le sue istituzioni politiche ed economiche non riescono a fare un solo passo avanti nella soluzione dei problemi strutturali di una geografia così complessa come quella rappresentata dai 25 Paesi membri. L'aver realizzato l'introduzione di una moneta unica non è stato un passo significativo nella direzione di uno sviluppo graduale e sostenibile se tale moneta non fosse riuscita – come non è riuscita – a rappresentare una sintesi significativa e non conflittuale tra le diverse tradizioni politiche, economiche e sociali dei diversi componenti della comunità.
I nodi, infatti, vengono al pettine nel momento in cui bisogna mettere mano alle normative che debbono regolare i rapporti interni ed esterni degli Stati, sino a quando non ne sarà sancita la decadenza. Ma, soprattutto, perché una comunità abbia senso occorre che gli individui che la compongono, nel loro insieme, consolidino una propria identità comune e stabiliscano quale ruolo intendono svolgere nello scenario internazionale.
Identità e ruolo che non possono essere identificati a posteriori, che debbono viceversa costruirsi giorno per giorno, e giorno per giorno verificando la compatibilità delle iniziative con l'intero contesto che si intende coinvolgere nel determinarle e condurle. I no incassati nei referendum di quei Paesi che li hanno proposti ed il sottrarsi a tale verifica decisa da molti altri governi, al di là di ogni specifica contestazione, dimostrano come i cittadini di questa comunità non capiscono o non condividono le finalità e, a turno, si sentono penalizzati delle iniziative che si tenta di prendere.

Logica non modificabile

Nella visione anarchica, questo tipo di aggregazioni non funziona perché si tratta di aggregazioni artificiali, costruite senza il contributo dei popoli e a difesa di assetti che cristallizzano interessi spesso inconfessabili, forme di sfruttamento insopportabili, modelli di sviluppo che non portano da nessuna parte se non ad una dinamica che reperisce nello scontro l'unico strumento di regolazione della civile convivenza.
Ovviamente non basta evidenziare la trave che c'è nell'occhio dell'avversario per sentirsi a posto con la propria coscienza di combattente per l'avvento di un mondo nuovo. Occorre avviare percorsi di analisi e di azione che rendano comprensibile il nostro disagio di vivere in una società che non ci piace ma con la quale quotidianamente dobbiamo fare i conti. E, a mio giudizio, la prima operazione da compiere è quella di affermare costantemente che le istituzioni esistenti non forniscono strumenti validi per avviare un processo che modifichi sostanzialmente l'esistente. Non è quindi modificabile la logica economica del capitalismo, come non lo sono le norme che regolano la democrazia realizzata; non sono compatibili con la nostra visione del lavoro e della produzione le intermediazioni sindacali; pertanto sono energie sprecate quelle che tendono a riprodurre il modello, sostenendo che sia possibile un organismo di base che sia, per le nostre finalità, meno incompatibile di quello tradizionale: dobbiamo rapidamente convincerci e convincere che, radicalizzata com'è la questione del lavoro e del suo conflitto col capitale, o l'intero mondo degli sfruttati riuscirà a modificare strutturalmente e senza intermediazioni il modello di sviluppo, oppure si ricadrà sistematicamente in una contrattazione sterile, in cui i più deboli avranno sempre la peggio, e, per di più, senza minimamente intaccare lo scenario all'interno del quale il conflitto si svolge.
Occorre inoltre recuperare la cadenza del tempo umano. Non mi chiedete come si possa fare, perché sarei un mostro se lo sapessi. So per certo, però, che, se non rendiamo compatibile l'accelerazione dei processi che sono in atto nella nostra società tecnologica con la capacità dell'uomo di comprenderne appieno gli esiti, andremo inevitabilmente verso una società schizofrenica che, alla lunga, non assicurerà il progresso e lacererà irreversibilmente l'uomo. Probabilmente il bandolo della matassa può essere reperito nel riancoraggio dell'uomo al suo habitat, nel renderlo meno esposto ai venti che impetuosi tendono a snaturarne la natura costringendolo a frequentare pascoli che non sono geneticamente i suoi. Oggi qualunque processo è elevato a potenza: sono elevati a potenza i processi economici, ma anche quelli urbanistici; sono elevati a potenza i pericoli di conflitti planetari per la proliferazione e la perfezione degli strumenti di sterminio di massa, ma anche quelli razziali e religiosi. L'elefantiasi è una patologia mortale per qualunque organismo vivente. Io non so, qui su due piedi, come si possa uscire da una spirale tanto perversa, ma so che, se vogliamo venire a capo di almeno qualcuno dei mille dilemmi che ci affliggono, dobbiamo ripartire dalle creature che abitano questo nostro mondo, a principiare dall'uomo, creatura industriosa ma potenzialmente pericolosissima per se stesso e per la natura che lo accoglie.

Antonio Cardella