rivista anarchica
anno 36 n. 317
maggio 2006



a cura di Marco Pandin

 

Elia

Più che la segnalazione dell'uscita del nuovo cd di Lalli, vorrei intendere questa come un'occasione per fermarsi un momento sul ciglio della strada e riflettere, riprendere respiro, volgere per un attimo soltanto lo sguardo indietro e misurare un cammino che dura da vent'anni e più. Cammino che, per alcuni tratti, Lalli e noi abbiamo percorso assieme: non abbiamo dimenticato, “noi” di A, i suoi concerti a sostegno del giornale, né la generosità con cui continua da sempre a regalarci o procurarci sottocosto numerose copie dei suoi album.
Le sue vecchie storie le conoscete bene, se frequentate questo giornale: dopo aver dato voce a Franti, la più significativa e singolare formazione indipendente degli anni Ottanta, e a grande parte del disordine sperimentale del dopo-Franti, Lalli ha deciso di proporre le proprie canzoni a proprio nome. Era il settembre del 1998, e il suo debutto solista “Tempo di vento” spiazzava chiunque si aspettasse una qualche rifrittura di avanzi: certo la voce era quella, bella e magica da far accapponare la pelle (ma ancora più leggera, capace di colori e personalità che prima restavano un po' in ombra, intrecciati ai contributi degli altri suoi compagni), ma sono le canzoni invece che segnano un voltar pagina importante.
Lalli cambia vestito e dallo street style folk/punk nero e fiero e barricadiero prende a mettersi addosso piccole poesie luccicanti come pietre preziose, universi privati disegnati sulla pelle come in punta di henné, veli e sete come segreti da condividere, parole di ricami bianchi su bianco come speranze a mezza voce.

La copertina del cd “Elia”

Impossibile non restare affascinati dal risultato, e infatti: miglior disco dell'anno per Rockerilla e in vetta alle preferenze per il Mucchio ed altri importanti giornali musicali, migliaia e migliaia di copie vendute (direi più di Franti e compagni messi assieme nei quindici anni precedenti). Una grande soddisfazione, ingigantita dalla consapevolezza che “Tempo di vento” non è un'opera compromissoria. Il bello è che Lalli non si fa schiacciare dal rumore che le si viene a raccogliere tutt'attorno, e soprattutto non si ferma: pubblica di lì a poco un'opera breve, “Tra le dune di qui”, che stilisticamente è quasi un passo indietro per riabbracciare Franti, e che le vale il premio intitolato a Piero Ciampi (è tornata sullo stesso palco, giusto l'anno scorso, a cantare quella che è stata ritenuta la migliore versione di un'opera del poeta livornese).
E Lalli, sulla sua strada artistica, è tornata più volte a guardare indietro e a fare un passo o due indietro, sempre con un sorriso consapevole e sincero nel cuore, con immutata passione ed immutata inquietudine a dare striature infuocate alle vecchie canzoni cantate ancora e ancora, testardamente, infilate nella sua collana di cose nuove come perle d'un altro colore. Così come ha continuato a condividere il palco con l'argentino Miguel Angel Acosta per regalare un controcanto profondissimo, ha continuato ad accendere fuochi con i vecchi compagni di strada e di agitazione, a regalare la sua voce d'oro al ritornello precario di piccole autoproduzioni.
L'incontro artistico di Lalli con Pietro Salizzoni, chitarrista e autore torinese, porta a “Testa storta”, una canzone scritta per l'amico Mimmo Calopresti (e che accompagna alcune scene del suo film “Preferisco il rumore del mare”, lo stesso Mimmo Calopresti che vent'anni prima aveva catturato su video la rabbia e la poesia di Franti) e poi inclusa nel cd “All'improvviso nella mia stanza” del 2003. Un album – questo – d'una profondità e ricchezza stilistica impressionanti: fatto innanzitutto di storie di donne, storie che durano sì solo quei tre-quattro minuti di una canzone, ma che racchiudono tra la prima e l'ultima nota tutta una vita, sguardi in fuga, giorni e giorni e giorni di amarezze, delusioni e voli alti. Canzoni con dentro protagoniste invisibili alla cultura dominante: mamme, bambine, ragazzine come piante in fiore strappate alla terra e ripiantate altrove in un vaso troppo piccolo, oppure lasciate senz'acqua, usate, sprecate e gettate via. Canzoni che, miracolosamente, riverberano in testa ben oltre l'ultima nota: canzoni che innescano ricordi, punti di vista che sciolgono in gola suggestioni anche amare, che ti lasciano lì a riflettere su un gesto non fatto, su una parola non detta. Su quei due spiccioli tenuti in tasca con rancore, su di un'attesa durata troppo, su una carezza ipocrita e un bacio mai dato. Canzoni che restano nascoste: nonostante l'applaudita partecipazione al “controfestival” di Mantova, i numerosi concerti anche in situazioni grosse e gli apprezzamenti di “gente autorevole” come Dori Ghezzi e Franco Fabbri, Lalli rimane esclusa dai giri importanti. Non so, onestamente, se sia un male: secondo me Lalli ha mantenuto un'integrità indiscutibile, si è circondata di amici e complici più che di collaboratori e produttori, e pur guardando a domani non ha mai dimenticato che cos'era ieri.

Lalli e Pietro Salizzoni “Elia”

In un'idealistica strada da percorrere, il nuovo cd “Elia” prosegue diritto sulla scia del lavoro precedente (stavolta Pietro Salizzoni ne è esplicito coprotagonista in copertina), riuscendo a essere addirittura più profondo, più completo e – se possibile – complessivamente più riuscito e perfetto.
Mi colpisce l'abilità “fotografica” di Lalli nel fermare le emozioni in una strofa: usa le parole come pietre. I sampietrini lanciati dalla mano di Franti, le perle di vetro di Lalli: si sono accumulate, strana e imprevedibile mistura, nella profondità del lago che ci teniamo dentro e ne fanno tremare d'insicurezza il contorno.
A livello sonicamente superficiale, in “All'improvviso nella mia stanza” ed in “Elia” (li metto assieme, perché il giro di musicisti è praticamente lo stesso, ed è innegabile la continuità stilistica di questi lavori) si assaggia una musica di cento sapori: briciole di jazz dalla temperatura irraccontabile, melodie popolari provenienti da chissà quali lontananze, refoli d'ispirazione alla migliore canzone d'autore, la passione del tango e l'infinita tristezza del silenzio tenute assieme in una trama sottile. Un bilanciamento di preferenze e ascolti che porta a un suono finale molto caratterizzato, riconoscibile.
Anche queste canzoni scavano a fondo, cerchi dentro a cerchi sulla superficie dell'acqua, storie e facce che ritornano come dentro un sogno, come sotto la pioggia battente. Nessuna rassegnazione, nessuna voglia di fuggire, di andare via.
“Elia” si apre con una versione solare – direi divertente – di “The cats will know” di Cesare Pavese messa in musica da Claudio Burdese (chitarrista, era in compagnia di Stefano Giaccone in “Tutto quello che vediamo è qualcos'altro”). Curioso è che il testo, nelle “Poesie del disamore” si trovi appena una pagina prima di “Last blues”, vestita di musica dai primi acerbi Franti all'alba degli anni Ottanta…
Desidero soffermarmi ancora un momento sulle musiche e gli arrangiamenti: il gruppo attorno a Lalli si è consolidato, è diventato “gruppo” nel senso che più che sull'alternarsi di vetrine d'abilità soliste gli arrangiamenti puntano sull'intreccio, l'interazione, l'amalgamarsi degli strumenti. Un pregio, secondo me, è che finalmente il suono che esce dal disco assomigli davvero a quello delle belle prove offerte recentemente dal vivo, ed ancora arricchito di grinta, coesione e significato.
Notavo adesso, rileggendo il testo, quante volte ho scritto il nome di Franti in questa pagina: certo, il collegamento diretto a quel fuoco mi viene spontaneo e naturale, ma va riconosciuto a Lalli il grande merito di aver costruito qualcosa di grande ed importante tutto da sola, dimostrando sempre più di saper camminare (volare, meglio) con le proprie forze, senza rinnegare l'agitarsi caotico e rabbioso di un passato così ingombrante e importante, ma irrimediabilmente lontano.

Lalli e Pietro Salizzoni “Elia” (ed. il Manifesto, 2006).

Marco Pandin
stella_nera@tin.it

stella*nera, 2006
enhanced cd (15 tracce audio + 1 traccia video)

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