rivista anarchica
anno 36 n. 314
febbraio 2006


guerra

Dio è con noi!
di Jean Bacon

 

Una breve storia della guerra, e di chi la fa, in un libro edito da Elèuthera.

Jean Bacon

Si sente dire in continuazione: «Come volete che non esista la guerra fra gli esseri umani? Si trova ovunque in natura». È vero. Salta agli occhi. Prendete una selce. Le particelle che la compongono non sono forse in uno stato di perenne e invisibile agitazione? Non è forse questa la prova che si dedicano a una guerra senza quartiere? I corpi, ci dice Newton, mantengono l’equilibrio solo grazie al gioco di due forze opposte, l’attrazione e la repulsione: ancora la guerra.
Un filosofo ha scritto senza scherzare che questa «lotta sorda e costante... è una delle forme più significative e più importanti della guerra, e addirittura, in senso metafisico, la guerra per eccellenza». Si dice comunemente che la ruggine attacca il metallo, che il più è l’opposto del meno, il dritto del rovescio, il concavo del convesso, e il poeta dichiara che «il giorno sorge dalla notte come una vittoria». Sempre guerra.
Passiamo ai vegetali. Un cespo d’insalata, un fagiolino, un mazzolino di cerfoglio non hanno, a prima vista, un carattere eminentemente bellicoso. Ma le inesauribili potenzialità della lingua vengono in nostro aiuto. La pratolina e la piantaggine, che stendono sul terreno un collarino protettivo, desiderano proteggersi dai loro vicini per mezzo di fortificazioni adeguate. Le conifere sono delle imperialiste che tollerano nei loro paraggi solamente costellazioni di funghi inoffensivi. L’edera è un agente della quinta colonna che soffoca chi l’ha accolta senza sospetti. Le piante carnivore si lanciano sotto ogni profilo nella guerra offensiva: cattura d’insetti effettuata con i tentacoli dalla drosera delle paludi, effetto sorpresa delle mascelle folgoranti della dionea acchiappamosche, utilizzazione di neurotossine nel caso della nephenta e della sarracenia.
E possiamo, in perfetta buona fede, parlare delle daghe dell’acacia, delle frecce avvelenate dell’ortica, delle lance dei cactus, dei pugnali delle rose, delle baionette dell’aloe e delle spade delle foglie d’agave.

Gli umani come gli insetti

Passando al regno animale, raggiungiamo il colmo. La guerra la fa da padrona. Nelle foreste, fra le erbe, nella profondità delle acque, nei cieli, dappertutto vi sono persecuzioni, assalti, uccisioni.
Dobbiamo però annotare due piccoli particolari.
Innanzi tutto, gli animali si uccidono solo fra specie differenti, e principalmente per nutrirsi. È la cosiddetta catena alimentare. D’altra parte, noi presenziamo volentieri a questi banchetti universali, come testimoniano i mucchi di maiali, agnelli, montoni, conigli, polli, faraone e altre bestiole a vocazione culinaria, di cui ci rimpinziamo in ore felici, disposti a essere a nostra volta mangiati da quei più-piccoli-di-noi di cui abbiamo spesso bisogno per i compiti più infimi.
La guerra interna alle specie esiste solamente presso alcuni insetti sociali: formiche, api, termiti, ovvero presso esseri viventi che, come l’essere umano, conoscono il lavoro, il risparmio e la proprietà.
Al di fuori di queste categorie molto ristrette, la guerra animale sostanzialmente assume la forma del combattimento individuale per la ricerca delle femmine o la difesa del territorio. Oltretutto, questi duelli sono spesso più spettacolari che cruenti. A parte qualche morso alle orecchie o qualche graffio, si tratta soprattutto di grida, ruggiti, petti gonfiati, sguardi di sfida, rivolti in primo luogo alle attente spettatrici che sanno perfettamente che questa messa in scena è destinata a loro.
Se nonostante questo il proliferare dei combattimenti rischiasse di mettere in pericolo l’esistenza della specie, esistono – è il secondo punto da mettere in risalto – dei meccanismi inibitori, una sorta di «dispositivi di inceppamento, volti a impedire che il consimile subisca danni». Il combattente che si rende conto che non ha più alcuna possibilità di vittoria assume una postura di sottomissione o di calma: presenta al vincitore le parti più vulnerabili del proprio corpo, ed elimina tutto ciò che potrebbe essere percepito come provocazione.
Il lupo che ammette la propria sconfitta offre al rivale la gola gonfia per il combattimento, estremamente delicata, oppure si accuccia sul dorso urinando un poco. Quest’ultimo gesto, che fra gli esseri umani apparirebbe una rara insolenza, calma immediatamente il nemico che cessa le ostilità. Il pesce che domanda grazia, invece di far mostra del proprio vestito di gala che suscita gelosie, lo nasconde, si fa discreto. Il gallo sottrae agli sguardi la sua cresta rossa, e il ridente gabbiano maschera il rosso granata del becco e il bruno scuro della maschera lasciando intravedere solo il bianco del piumaggio.
L’essere umano non è così timido. Nei confronti sessuali o nelle dispute territoriali, ignora superbamente i meccanismi inibitori e punta direttamente all’uccisione. Sembra addirittura che si voltoli con delizia nel sangue dei propri simili, al punto che la guerra è diventata una seconda natura, affermandosi come una delle sue più solide istituzioni. Per convincersene, è sufficiente gettare un rapido colpo d’occhio ai 4.680 anni della sua storia.
Tutto è cominciato molto in fretta. Quando la terra, se dobbiamo credere alle Scritture, ospitava in tutto quattro persone – e dunque non si potevano invocare né la pressione demografica né le rivalità territoriali – la guerra scoppia fra due di loro: Caino spezza il filo dei giorni del suo eccellente e unico fratello Abele. Preso lo slancio, il movimento non si arresterà più.
Gli uomini, o quelli che c’erano al posto loro, si massacrano dai tempi della preistoria. In teoria, minacciati com’erano dagli animali selvaggi e alla mercé degli elementi, avrebbero dovuto guardarsi le spalle; ma non se ne fece nulla. I resti ossei rinvenuti sono eloquenti: mutilati, spezzati, arrostiti, rivelano che gli inventori dei primi utensili in pietra se ne servirono, senza perdere un minuto, per sventrare i loro simili, e che il fuoco appena domato non venne utilizzato solamente per far grigliare tranci di bisonte.
Quando affrontiamo il periodo storico, i documenti sostituiscono le ossa. Ma suonano la stessa musica, ed è una fanfara militare. Drammi, epopee, cronache, memorie raccontano sempre e solo la stessa storia: quella delle guerre degli esseri umani contro gli esseri umani. Sono questi i nostri veri punti di riferimento, «i limiti che segnano le grandi svolte degli eventi», i cardini attorno ai quali si articolano le fasi della vita di un popolo.
Al di fuori di questi non c’è nulla, o quasi. Uno storico ha calcolato che, dal 1496 avanti Cristo al 1861 dell’era cristiana, ovvero in 3.358 anni, ci sono stati 3.130 anni di guerra e 277 anni di pace, ovvero tredici anni di guerra per ogni anno di pace. Lo studio degli ultimi centoquarant’anni non cambia fondamentalmente queste cifre. Il che è senz’altro incoraggiante e ci fa ben sperare per l’avvenire. La guerra, nata con l’uomo, con ogni probabilità morirà solo con lui. Lasciamo l’ultima parola a Joseph Prudhomme: «Signore, una parola sola per sconcertarvi. Ci si è sempre combattuti, ci si combatterà sempre».
Questo ragionamento è geniale. È stato invocato da tutti coloro che si sono adattati benissimo alle ingiustizie e alle sofferenze, soprattutto quando sono toccate agli altri, da tutti i rassegnati, i fatalisti, i disfattisti, che hanno trovato naturale che la peste devastasse periodicamente le popolazioni, che due terzi dei bambini morisse in tenera età, o che migliaia di esseri umani fossero venduti come bestiame. Monsieur Prudhomme è il loro portavoce. Rappresenta la Francia profonda, quella dei benpensanti e della maggioranza silenziosa. Ha sicuramente ragione. Ha il buon senso dalla sua. La guerra è eterna.
Ecco perché è utile conoscere meglio le cause di un fenomeno tanto fondamentale, studiarne accuratamente le leggi, scoprirne e apprezzarne le molteplici conseguenze: è quello che cercheremo di fare nelle pagine seguenti.

Tintoretto. Caino e Abele

Dai muscoli alla legge

L’uomo primitivo, avendo scoperto che i suoi bicipiti sono più grossi di quelli della sua compagna, ne approfitta per terrorizzare lei e i suoi bambini. Non appena percepisce una resistenza alla sua volontà, la colpisce: vengono così poste le basi del diritto familiare. Su questo principio si fonderanno gli altri diritti che reggeranno la tribù e poi la nazione: semplici ramificazioni del diritto fondamentale, quello dei muscoli.
Lo stesso si dica per il diritto internazionale. Quando scoppia un conflitto fra due Stati, è necessaria la forza per sedarlo. Discussioni, negoziati, compromessi non conducono a nulla. Solo la guerra consente di testare, alla fiamma della battaglia, il valore delle nazioni. Si tratta dell’unico giudizio legale che non tiene conto di alcun precedente, legittimità o privilegio.
Questo tribunale inesorabile è la forma più elevata di giustizia, perché non ammette alcuna possibilità di bustarelle, mercanteggiamenti o pressioni. «È una giurisdizione incorruttibile, senza magistrati, senza testimoni, senza giuria, senza uditorio, nella quale gli arresti sono senza appello».
La guerra, giudizio della forza, ha reso il suo verdetto: designando il vincitore, ha indicato dove si trova il diritto. Nessuna contestazione è più possibile. È stata fornita una risposta chiara. I ribelli di ieri, che nel corso delle ostilità erano divenuti il governo in esilio, quindi il governo provvisorio, sono diventati oggi il governo legittimo. Se avessero perso, sarebbero stati fucilati.
Ma hanno vinto: perché erano dalla parte giusta, quella del più forte, che è contemporaneamente la parte migliore. Il giudizio della guerra ha infatti questo aspetto ammirevole: concede la vittoria ai Paesi che ne sono più degni. Trionfa proprio chi doveva trionfare. «Come l’essere più perfetto esce vincitore dalle lotte individuali, così la nazione più perfetta esce vincitrice dalle lotte internazionali». Qualcuno farà allora notare che tale modello di virtù è opportunamente munito di armi efficaci: è vero.
Ma godiamoci il ragionamento dei filosofi: queste armi sono state concepite dagli ingegneri di quella nazione, realizzate dai suoi tecnici e dai suoi operai, e sono dunque il frutto del genio della nazione. E quand’anche fosse stato necessario acquistarle all’estero, la moneta con cui sono state pagate è il risultato della ricchezza nazionale, ovvero ancora una volta del genio di coloro che possiedono il petrolio, l’uranio, lo stagno.
Al contrario, il vinto è sempre colui che merita di esserlo, anche nel caso di un attacco a tradimento, o quando soccombe di fronte alla coalizione di parecchi Stati ambiziosi e senza scrupoli.
La sconfitta è la stigmate della corruzione, della pigrizia, dell’immoralità. La Germania fa la guerra alla piccola Danimarca e naturalmente la schiaccia: il che significa che i danesi sono inferiori ai tedeschi per intelligenza, coraggio, lealtà, sapienza.
Bisogna dunque ammettere che il Caso non ha alcun ruolo nella guerra? Ciò sarebbe contrario agli insegnamenti del grande Clausewitz, che gli attribuisce un posto importante nello svolgimento dei combattimenti. Ma cos’è in fondo il Caso, se non la Provvidenza, la Fortuna? E, come si sa, la Fortuna sorride agli audaci, cioè ai forti.
Se l’umanità è stata costretta a ricorrere ad un mezzo tanto radicale come la guerra per risolvere i conflitti non è stato senza aver prima tentato numerose soluzioni alternative.
Alcuni hanno immaginato di sostituire alla guerra una competizione sportiva, nella quale i belligeranti si farebbero rappresentare da campioni. Il procedimento non è nuovo, è stato utilizzato a più riprese in passato – l’esempio più celebre è quello degli Orazi e dei Curiazi.
Tuttavia, questo comporta serie difficoltà. In guerra, in effetti, i pochi regolamenti in vigore possono essere agevolmente violati, poiché non vi sono giudici né sanzioni.
Viceversa è ben difficile ipotizzare una gara nella quale i giocatori non tengano in alcuna considerazione i fischi dell’arbitro e facciano di testa loro ignorando sistematicamente i rigori, le punizioni, i falli laterali, i fuorigioco.
Oltretutto, potrebbe sembrare insolito che una squadra metta in campo il triplo o il quadruplo dei giocatori dell’altra: il suo capitano, se risultasse vincitore, rischierebbe di farsi fischiare dalla folla. Nulla di tutto ciò in un conflitto militare. Il generale che si arrangia in modo da avere più carne da cannone, più aerei, più bombe del suo avversario, che si batte tre contro uno e che, come è ovvio, incassa la vittoria, viene portato in trionfo. Nessuno grida all’infamia. In guerra, il disonore non esiste, se non per i vinti.
Un’altra alternativa alla guerra è stata ricercata nell’elaborazione di piani di pace. Sarebbe troppo lungo passarli in rassegna, sono numerosissimi. La loro lettura lascia d’altra parte un’angosciosa impressione: sembra che tutti gli esaltati, i sognatori, i costruttori di castelli di sabbia abbiano sfogato qui i loro fantasmi in un inaudito coacervo di assurdità e infantilismo.
Il più bel fiore di questa corona è senza dubbio il Patto Kellogg. Stop alla guerra! La guerra è fuorilegge! Un po’ come dire: stop ai cicloni! I terremoti sono fuorilegge!

“L’aggressore è sempre l’altro”

Bisogna riconoscere che definire l’aggressione è un compito arduo. Le divergenze d’opinione sono molteplici.[...].
Bisogna allora disperare, come fanno in molti, ormai convinti che è umanamente impossibile definire una nozione di questo tipo?
Noi non lo crediamo. Al contrario, alla luce di quanto detto, crediamo in tutta modestia di aver trovato una definizione che aggira gli ostacoli appena evocati e risponde a tutte le obiezioni. In effetti, essa è abbastanza semplice per essere universalmente compresa, ha il merito della brevità, è assai generale ma concreta, è totalmente esaustiva e rende inutili i sottili distinguo inglobandoli.
Questa definizione, che ci permettiamo di proporre agli organismi internazionali affinché divenga il principio fondante della diplomazia contemporanea, è la seguente: «L’aggressore è sempre l’altro». Ne deriva che ciascuno degli avversari si trova sistematicamente in stato di legittima difesa e che dunque il suo buon diritto non può essere contestato. Possiamo allora tirarne la logica conseguenza affermando che «la guerra è sempre giusta dalle due parti». [...].
Per illustrare la nostra idea abbiamo raccolto le dichiarazioni di moltissimi capi di Stato e capi militari di tutte le risme e ne abbiamo tratto un discorso coerente, una sorta di prototipo universale dell’«appello alle armi». Il fatto che non sussistano contraddizioni interne prova che gli avversari, avanzando i medesimi argomenti, riconoscono implicitamente che la guerra è giusta contemporaneamente dalle due parti.

Discorso tipo cui si ricorre all’inizio delle ostilità (composto esclusivamente con brani tratti dai più grandi condottieri, generali, capi di stato, da Napoleone a Hitler, da Stalin a Churchill, da Guglielmo II a Charles De Gaulle).

L’ora della battaglia è suonata. Inviamo alle nostre forze marittime, aeree e terrestri, che ai loro posti di combattimento sono pronte a entrare in azione, un messaggio fraterno. Che ciascuno accetti il proprio sacrificio, che ciascuno serva il proprio rango secondo i propri mezzi: arriverà per tutti il proprio momento, anche il più debole avrà la sua parte di gloria.
La popolazione civile compia anch’essa il proprio dovere per intero. Fermezza d’animo, disciplina, speranza, ecco cosa la anima dal profondo. La nazione affronta il pericolo a testa alta, con la coscienza limpida. Fedele all’antica divisa, essa è irreprensibile. Essa non ha paura.
Quale consolazione è per noi oggi poter ricordare tutti gli sforzi compiuti a favore della pace! Siamo coinvolti in una guerra che non abbiamo voluto. Abbiamo fatto e detto tutto il possibile per evitarla. Questa guerra ci è stata imposta.
Non v’è alcun dubbio: siamo dalla parte del diritto. Siamo entrati in guerra per aiutare la giustizia a trionfare. Oggi noi dobbiamo combattere per l’esistenza stessa del nostro popolo, per la sua vita, per la sua indipendenza. I nostri soldati in questo momento proteggono tutto ciò che possediamo.
Combattono per la difesa della nazione, dell’arte e dello spirito, per la salvaguardia della nostra integrità territoriale e del nostro onore nazionale. Sì, noi combattiamo per l’integrità e l’onore del nostro Paese!
Mai le ragioni per combattere sono state tanto evidenti quanto ora. Sentiamo di batterci non solo per la salvaguardia, per la libertà e l’indipendenza della nostra patria, ma anche per tutti gli uomini, sia quelli della nostra generazione, sia quelli di tutte le generazioni a venire. La nostra causa è la causa della giustizia, della prosperità, del progresso e della pace per l’intera comunità umana.
Abbiamo la fortuna di combattere affinché regni, un giorno, la pace nel mondo, una pace giusta e durevole. Il nostro obiettivo fondamentale è lavorare per un mondo equo e pacifico, per una lunga pace futura.
Siamo calmi e risoluti. Non dubitiamo un solo istante della nostra vittoria. Essa sarà la ricompensa della nostra forza morale e della nostra perseveranza. La sconfitta definitiva del nemico è il solo obiettivo verso il quale devono convergere tutte le nostre energie. Il dovere, è la guerra; l’avvenire, è la vittoria.
Confidiamo nell’Onnipotente e nell’Eterno. Dio è con noi, con la nostra giusta causa. Che Egli benedica le nostre armate! Che Egli ci protegga e diriga il successo delle nostre armi! Che Egli conceda ai nostri soldati la forza di compiere con perseveranza e valore ciò che sarà necessario per conservare la nostra libertà! Dobbiamo essere uniti, dobbiamo essere intrepidi, dobbiamo essere inflessibili, possiamo vincere, dobbiamo vincere e vinceremo.

Jean Bacon

Jean Bacon

Signori macellai
Breve storia della guerra e di chi la fa

traduzione di Carlo Milani
240 pp. / 2005 / 18 euro

L’opera
Più che rifare la storia della guerra e delle guerre, Bacon si propone di demolire, con brillante umorismo nero, tutta una speciosa letteratura che ci è sta somministrata per venti secoli allo scopo di nasconderci quello che confusamente ognuno di noi sa ma preferisce tacere. E cioè che tutti, tutte le religioni, tutte le nazioni, tutti gli industriali (mercanti di cannoni, naturalmente, ma non solo) amano furiosamente la guerra, che essa è l’unica droga di cui la razza umana non è riuscita a fare a meno.

L’autore
Jean Bacon è stato corrispondente francese della BBC per una decina d’anni, poi addetto stampa di un grande gruppo industriale, poi ancora direttore di una scuola di lingue e occasionalmente anche drammaturgo... Si fa storico con questo Signori macellai lungamente meditato.