rivista anarchica
anno 35 n. 312
novembre 2005


lettere

 

Sentirsi soli

Vivo una realtà triste. Fatta di abusi e soprusi . La violenza legalizzata di uno stato cialtrone incapace di garantire le massime libertà degli individui. Sempre meno cultura, sempre più cinismo e finzioni. Apparire più che essere. Immagini bombardano il nostro cervello ipnotizzandolo e schiavizzandolo. Alienano i nostri pensieri. Sostituiscono la innata voglia di libertà e di autodeterminazione con stereotipi di uomini larva. Un tempo, nei totalitarismi, c’erano persone che preparavano rivoluzioni. La società annichiliva ma le individualità prendevano coscienza di quanto fosse importante la libertà personale.
Oggi la libertà è divenuta, ingiustamente, sinonimo di democrazia, ma così non è. Il sistema attuale è peggiore di qualsiasi altro sistema totalitario perché le persone credono di vivere in massima libertà ma ciò che è colpito e dove si colpisce è nell’inconscio. Ora siamo su una giostra fatta di milioni di luci e colori, chiaramente artificiali, che stordiscono l’istinto e la capacità di ragionamento ma dietro la giostra si nasconde una realtà fatta di annichilimento. Oggi basta un videocitofonino per sentirsi felici e realizzati. Su quella giostra gli uomini stanno annichilendo. Ci danno consigli, tutti ci dicono quale è la migliore cosa da fare e quando farla. Il telegiornale nasconde notizie ma ci rammenta la tavola, il cibo, il calcio e le piccole beghe. L’economia va a braccetto con la politica. E noi povere larve siamo pronti a scendere in piazza solo per girotondi e società calcistiche.
Abbiamo avuto 50 anni di democrazia cristiana, di televisione Pippobaudista. Ora abbiamo una seconda repubblica di banane per noi scimmie da laboratorio. Abbiamo una cultura generalista superficiale di parte, finto buonista e finto terzomondista.
Siamo creditori, e questo è incredibile, rispetto ai popoli del terzo mondo, dopo che abbiamo spazzato via la loro cultura, le loro risorse e la loro dignità di individui. Non basta un altro millennio per ripagare loro dei torti subiti.
L’Italia ha dimenticato di essere stata terra di cultura. Siamo schiavi di multinazionali. Le aziende italiane cercano di divenire, senza avere né l’esperienza necessaria né la storia, multinazionali, tralasciando quello che un tempo era la nostra forza, l’originalità e la passione. Ci stanno imponendo modelli, complici i nostri dittatori. Gruppi di potere economico si danno battaglia per la leadership del paese.
Le prossime elezioni saranno l’ennesima farsa. Un vecchio imprenditore egocentrico e pazzoide al cospetto di un vecchio democristiano manager di azienda pubblica poi svenduta.
A scuola nessuno ci ha insegnato la vera essenza del novecento. La vera essenza dell’individuo. Il novecento poteva essere il secolo in cui si poteva affermare una società anarchica, invece proprio per questo timore non è stata data questa possibilità. Il feto è morto. Ci hanno imposto guerre e xenofobie. Ci hanno inculcato la paura dell’altro, e per altro intendo individuo, cosi da spingerci ad un sistema democratico che ci consentisse di sentirci sicuri. Hanno ucciso uomini di libertà, hanno compiuto stragi di stato, migliaia di vittime. Ci hanno preparato. Ed ora ecco lì tutti pronti a raccogliere i frutti. Io sono un germe degli anni ’80, io ora mi sento un frutto che qualcuno raccoglierà per poter guadagnare con la mia spremitura. Io non ci sto e se proprio devo finire finirò da anarchico.
Basterebbe applicare una semplice regola per vivere liberi. Rispettare il prossimo con le sue diversità. Non esiste più una classe operaia, nessuno si sente operaio. Siamo tutti finto borghesi del cazzo. Tutti aspiriamo alle stesse cose e se non è annichilimento questo!
Oggi si accontentano non più dei famosi 15 minuti di celebrità ma di qualche istante di gloria. Qualche secondo, il tempo per farsi riconoscere, salutare mamma fidanzatine e amichetti gonfiare il petto e raccogliere gli applausi al ritorno nella tribù.
Mi sento solo, lontano da voi amici anarchici, chiuso in quel land desolato e triste che è la Ciociaria, qualcuno mi aiuti ad uscire dall’incubo infinito della mia esistenza.

The man of the moon
freeky@libero.it

 

1/ Un dibattito presunto

Pubblichiamo la replica di Antonio Cardella e Ludovico Fenech all’intervento di Guido Barroero apparso sullo scorso numero della rivista.

Pensavamo che il breve scambio epistolare intercorso tramite l’Editrice “Zero in condotta” con Guido Barroero, sarebbe bastato a riportare la discussione sul nostro libro su binari più propri. Purtroppo era una pia illusione e l’articolo di Barroero, apparso sul n. 311 di “A” lo conferma.
Intendiamoci: Barroero è libero di pensare (e di scrivere) sul nostro libro ciò che ritiene, e non saremo certo noi a contestargli tale diritto. Anzi, lo ringraziamo per aver avuto la pazienza di leggerlo e di riconoscere la fatica che ci è costata. L’unico limite a questa indiscussa liceità di critica è però costituito da un livello sia pur minimo di onestà intellettuale (non parliamo di malafede), che, nel caso specifico, manca nel momento in cui Barroero, per esempio, immagina che all’interno della FAI sia esistito, e tuttora esista, un dibattito sul piattaformismo. Dibattito presunto, che serve a Barroero per innescare la polemica che gli serve. La FAI – e questo Barroero dovrebbe se non saperlo, almeno intuirlo – ha chiuso i conti con il piattaformismo sin dall’atto della sua costituzione, nel momento in cui ha fatto propri il Programma Malatestiano ed il Patto Associativo, che segnano il ripudio di alcuni presupposti portanti dell’impianto archinovista, quali la “responsabilità collettiva”, il dirigismo organizzativo e via dicendo, scegliendo, la FAI, il principio federativo.
È vero tuttavia che gruppi e individualità che si ispirarono al piattaformismo hanno ripetutamente, specialmente nel decennio di cui tratta il nostro libro, tentato di stravolgere l’assetto della Federazione, la quale, a nostro giudizio, in alcune occasioni, è stata fin troppo indulgente verso elementi che lo stesso Barroero definisce immaturi politicamente e comportamentalmente, soliti a “far uso spregiudicato di dinamiche organizzative e assembleari… e di un certo settarismo intollerante…” (pag. 58 del numero citato di “A”).
La FAI non ha mai contestato il diritto ai militanti dell’area libertaria di organizzarsi come meglio credessero, e testimonianza di ciò è l’ottimo rapporto che, nel rispetto delle singole peculiarità, c’è sempre stato con i GIA e i GAF. Ma né i GIA né i GAF si sono mai sognati di mettere sotto assedio la Federazione, come spesso è avvenuto ad opera di attivisti del piattaformismo.
Altra affermazione di Barroero, contestata dalla realtà documentale di atti congressuali e dai dibattiti interni alla Federazione, è quella che tende ad assimilare il piattaformismo con la rivisitazione del concetto di classe. Sono temi ben distinti e mi sembra francamente scorretto attribuire alla FAI un atteggiamento “aclassista”, nel senso di una presa di distanza dalle esigenze e dalle lotte dei lavoratori. È vero, viceversa, che la FAI – soprattutto negli anni Settanta – dibatteva su un concetto di classe che riguardasse tutti i lavoratori, gli sfruttati e i diseredati della terra, al contrario della teoria marxista-leninista, che privilegia alcune categorie di lavoratori e ne emargina altre: del resto, anche questo è un argomento trattato in maniera esemplare dallo stesso Malatesta.
Mi sembra infine patetico il tentativo di ammantare di un presunto (quanto inespresso da Barroero) retroterra politico-ideologico l’atto teppistico compiuto da elementi piattaformisti, che portò alla devastazione dei locali del circolo di via Scaldasole a Milano, nel settembre del 1973. Atto che fu stigmatizzato nel Convegno di Carrara su Marini del 7 ottobre e nel successivo Congresso della Federazione.
Infine “l’indiscutibile successo del Convegno dei lavoratori anarchici promosso dall’area piattaformista” a Bologna dall’11 al 15 agosto 1973. Di quel Convegno si occuparono a lungo i compagni della FAI che tentarono di parteciparvi e ai quali fu impedito di parlare: si trovarono di fronte a “conclusioni” prefabbricate e ad un’organizzazione dei lavori degna del peggiore leninismo.
Per concludere: crediamo che il piattaformismo e i gruppi che ad esso si ispirano abbiano piena legittimità di esistere e di organizzarsi come credono, alla sola condizione che analoga libertà garantiscano agli altri, diversi da loro, e dimettano quell’arroganza e quei tentativi di prevaricazione che, per ammissione dello stesso Borroero, ne hanno caratterizzato l’attività, negli anni Settanta e non solo.
Per noi la polemica è chiusa. Pensiamo che il nostro libro abbia molte lacune, che molto resta da indagare e da dire sulla FAI degli anni Settanta. La nostra scelta, però, non è stata mai quella di compiere un’indagine storiografica in senso proprio. Bensì, e molto più semplicemente, ci ha sempre attivato l’intento di fornire un contributo per una storia della FAI che, ci auguriamo, altri più attrezzati e meno coinvolti di noi, vorranno fare a tempo debito.

Antonio Cardella
Ludovico Fenech

(Palermo)

 

2/ La meglio gioventù

Per ragioni di lavoro mi occupo di formazione storica e mi capita spesso di dover ricordare (ai docenti più che agli studenti) che ogni ricostruzione di fatti, figure e periodi del passato rinvenibili su manuali o su testi storiografici specialistici va sempre presa come una delle ricostruzioni possibili, dal momento che mai dovrebbe interrompersi la ricerca di fonti utili ad arricchire il bagaglio delle conoscenze necessarie all’attività storiografica per rivisitare conclusioni rivelatesi parziali o mettere a confronto interpretazioni diverse. Saperne di più su un periodo storico o su fatti del passato non significa quindi approssimarsi alla “verità” fattuale, ma più laicamente offrire – tramite apposite pubblicazioni – una ricostruzione temporale il più ampiamente documentata ed eventualmente una propria (dell’autore) interpretazione dei fatti, quale esito di un processo di ipotesi, problematizzazione e spiegazione. In genere la tesi interpretativa viene dichiarata nella prefazione dall’autore/storico o da altri. La ricerca della verità appartiene invece all’editoria religiosa.
Se l’oggetto del lavoro euristico dello storico coincide poi con la sua esperienza personale, se si tratta di fatti, persone, periodi che ha conosciuto per diretta esperienza individuale o collettiva, occorre aggiungere una variabile tutt’altro che trascurabile e che introduce il “fattore soggettività” dell’autore: si tratta della “percezione” che l’autore aveva degli eventi che viveva all’epoca in cui accadevano e della “percezione” che egli/ella esprime nel momento in cui si mette a ricostruire/scrivere quegli eventi. Nel campo della “percezione” possono entrare diversi elementi quali le emozioni, le passioni, le relazioni personali, i propri convincimenti mentre accadevano le cose, la condivisione/opposizione di idee con altri protagonisti delle stesse vicende e così via. Tutti questi elementi sono ben noti a chi ha lavorato e lavora sulle fonti orali come sulla microstoria (termine affatto detrattivo) relativa agli ultimi decenni. Sono elementi inevitabili e non criticabili, costitutivi dell’esperienza dell’autore/protagonista degli eventi oggetto del lavoro euristico, ma di cui tenere conto in sede comparativa. Al pari dei contributi offerti dalle fonti orali, quindi, non siamo in presenza della “storia” come probabilmente è andata, bensì della testimonianza, pur documentata da fonti scritte – anche loro tutt’altro che neutrali, di un attore di quelle vicende.
Ecco, il libro di Antonio Cardella e Ludovico Fenech, Anni senza tregua. Per una storia della Federazione Anarchica Italiana dal 1970 al 1980, Edizioni Zero in Condotta, Milano 2005, mi sembra rientri in questa tipologia di lavoro storico. Se il committente coincide poi con l’organizzazione politica a cui appartengono gli autori, si tratta di un fenomeno frequente nella promozione di questo tipo di storiografia dal basso.
Ora che disponiamo di questo lavoro, c’è da sperare che qualche giovane ricercatore sia interessato ad intervistare quanti più protagonisti possibile di quegli “anni tumultuosi” come li definisce argutamente Guido Barroero. Infatti, più attori raccontano, più percezioni dei fatti si rendono disponibili, più è possibile ricomporre un telaio fattuale e tematico, emozionale e intellettuale, che ci aiuti a dare significato ai fatti e ad avanzare e confrontare più ipotesi interpretative.
Lo stesso contributo di Barroero è già un dare voce ad altre “percezioni”; sono tuttora agenti infatti gli esiti storicamente figli di quel decennio, snodo di esperienze politiche ed organizzative dell’anarchismo di classe fatte di donne ed uomini, compagne e compagni, che hanno messo in gioco la loro meglio gioventù, per l’anarchia e per il comunismo.

Donato Romito
(Fano)

 

 

I nostri fondi neri

Sottoscrizioni.
Jean-Pierre Nuenlist (Riva San Vitale – Svizzera) 13,40; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Alfonso Failla, 500,00; Giuseppe Gessa (Gorgonzola) 15,00; Andrea Silvestri (Vada) 10,00; Milena e Paolo Soldati (Clermond-Ferrand – Francia) ricordando Fiorenzo Laffranchi e Marina Soldati, 100,00; Carmelo Fais (Ardauli) 50,00; Eugenio Bertolani (San Possidonio) 86,00; Gianni Forlano (Milano) ricordando Alfonso Failla e Ulisse Finzi, 20,00; Giacomo Ajmone (Milano) 20,00; Mario Perego (Carnate) 50,00; Gesino Torres (Santo Spirito di Bari) 20,00; Pierangelo Bargiggia (Domaso) 9,00; Luca Giudici (Novara) 40,00; Peter Sheldon (Sydney – Australia) 106,00.
Totale euro 1.039,40.

Abbonamenti sostenitori.
Roberto Petrella (Roma Vitinia) 100,00; a/m Giorgio Barberis, Alessandriacolori (Alessandria) 100,00.
Totale euro 200,00.