|    Eutanasia 
                Solo il letto mi è testimone acuto  
                  della vita mai certa si pur nota  
                  dove confin sospeso e temuto  
                  la morte ritrovo fedele sposa.  
                Bianco limitar dello spazio stanco  
                  lenzuolo marino fra mille pieghe  
                  girar passato e presente sul fianco  
                  difficile trovare sia breve quiete.  
                Aspettar domani questo tempo  
                  sicuro del prima più del poi  
                  l’impossibilità qualsiasi evento  
                  libero non come tu vuoi.  
                Son io quel che so l’essenza  
                  fine inizio del bacio mortale  
                  ben oltre una mera esistenza  
                  fuggevole dal talamo nuziale.  
                Stoica dolce morte fiera  
                  raggiungi una vita intera  
                  oltre l’oscurità…si spera.  
                  
                  Jules Èlysard 
                
  
                  
                Rifiuto di 
                  consumare 
                Francuccio Gesualdi e il Centro nuovo modello di sviluppo sono 
                  noti soprattutto per la Guida al consumo critico, diffusissimo 
                  manuale sulle malefatte di aziende e multinazionali: è 
                  un vademecum per il “consumatore consapevole” che 
                  si addentra nei supermercati con l’intento di non collaborare, 
                  attraverso l’acquisto, a quei misfatti. Il punto di partenza 
                  è l’idea che “il sistema”, con tutte 
                  le ingiustizie che infligge a gran parte dell’umanità, 
                  si regge sul consenso dei consumatori del Nord del mondo. Un 
                  consenso che non si esprime con un voto, né con un’adesione 
                  fideistica o ideale, ma con banali atti d’acquisto. Il 
                  primo gesto di ribellione all’iniquità globale 
                  è dunque il rifiuto di consumare certi prodotti, perché 
                  ottenuti sfruttando il lavoro, danneggiando l’ambiente, 
                  attraverso la complicità con regimi oppressivi. Il consumo 
                  critico è in espansione. Dieci anni fa le tesi e le proposte 
                  del Centro nuovo modello di sviluppo erano patrimonio di gruppi 
                  ristretti e venivano considerate con sufficienza dagli attivisti 
                  legati alle tradizioni politiche più consolidate. Oggi 
                  non è più così. Le analisi sul “capitalismo 
                  reale”, sulla globalizzazione, sul ruolo delle organizzazione 
                  sovrannazionali hanno svecchiato il pensiero e a volte anche 
                  l’azione di buona parte della sinistra alternativa. Attorno 
                  agli stili di vita, cioè l’idea che vi debba essere 
                  coerenza fra i propri valori e le scelte quotidiane, si è 
                  formata una nuova capacità di mobilitazione e d’azione 
                  collettiva.  
                  Gesualdi, da buon pioniere, può andare fiero di questo 
                  percorso, ma oggi si spinge più in là, consapevole 
                  che la “ribellione” dei singoli consumatori è 
                  solo il punto di partenza per la costruzione di un altro modello 
                  di società. Il nuovo libro di Francuccio – Sobrietà. 
                  Dallo spreco di pochi ai diritti di tutti, Feltrinelli 
                  2005, 163 pagine, 9,00 euro – è il tentativo di 
                  immaginare un sistema economico nuovo, che cresca all’interno 
                  di quello esistente cominciando ad eroderlo, in modo che possano 
                  forgiarsi nuove relazioni sociali, una nuova cultura. Gesualdi 
                  immagina una società decentrata, a basso impatto energetico, 
                  con un grande ruolo per le economie locali a scapito delle “leggi” 
                  del capitalismo liberista: privatizzazioni, crescita quantitativa, 
                  libera circolazione delle merci e dei capitali. Gesualdi cerca 
                  di rispondere all’interrogativo posto da chiunque si avvicini 
                  al progetto di un’economia “verde” che mette 
                  all’ordine del giorno l’idea della “decrescita”, 
                  anziché la logica dell’accumulo e del consumo senza 
                  limiti. L’interrogativo è semplice e decisivo: 
                  come la mettiamo coi posti di lavoro che saltano? Senza crescita, 
                  c’è meno occupazione: è un’ovvietà, 
                  ma richiede una risposta convincente.  
                  Gesualdi suggerisce un radicale cambiamento di prospettiva. 
                  Propone di abbandonare – almeno in parte – l’economia 
                  basata sul denaro e di sostituirla con un’economia basata 
                  sul tempo. Il “reddito” individuale, in un ideale 
                  sistema misto, sarà in parte in denaro e per il resto 
                  in servizi, autogestiti localmente, su scala municipale o addirittura 
                  di quartiere. Le tasse si pagheranno in denaro per la porzione 
                  ancora legata all’economia mercantile, e per il resto 
                  mettendo a disposizione della comunità il proprio tempo. 
                  Naturalmente si dovrà reinventare la produzione, puntare 
                  sulle energie riciclabili e sulla cura dell’ambiente: 
                  l’economia locale sarà il perno di questo sistema, 
                  mentre oggi sono i mercati globali a dettare leggi e comportamenti. 
                  I beni pubblici e la loro gestione condivisa prenderanno il 
                  posto delle società per azioni e dei tecnocrati che negli 
                  ultimi decenni hanno preso il sopravvento, per colpa di un ceto 
                  politico rassegnato allo strapotere del liberismo e dell’ideologia 
                  imprenditoriale.  
                  Quella di Gesualdi è sicuramente un’utopia, che 
                  qui abbiamo appena abbozzato, ma intanto ha il coraggio di affrontare 
                  la questione rifuggita da tutti gli economisti, ossia i limiti 
                  ambientali che rendono senza futuro l’attuale sistema 
                  economico, condannato a un progressivo e mortale consumo delle 
                  risorse. Questa corsa verso il nulla va fermata. L’economia 
                  della sobrietà indicata da Gesualdi offre alcune indicazioni, 
                  delle quali dovrebbero far tesoro tanti attivisti, tanti sindacalisti, 
                  tanti intellettuali che conoscono e denunciano il male assoluto 
                  del capitalismo liberista ma stentano a immaginare delle alternative. 
                  L’economia della sobrietà non è il sogno 
                  solitario di un pioniere del consumo critico: i suoi principi 
                  e le sue aspirazioni si ritrovano in tante esperienze di economia 
                  alternativa e di democrazia di base cresciute in questi anni. 
                  E se andiamo più a fondo, vediamo che il recupero del 
                  concetto di beni comuni, l’insistenza sull’economia 
                  pubblica autogestita, la centralità assegnata alle relazioni 
                  sociali hanno forti assonanze con le “utopie” (e 
                  le pratiche) di un secolo fa. Allora si parlava di mutualismo, 
                  di collettivismo, di una “rivoluzione” economica 
                  da attuare attraverso le cooperative. Questi argomenti, da tempo, 
                  sono tabù anche per la sinistra che si ritiene radicale: 
                  ma nei movimenti, e in particolare nel brulicante mondo dell’economia 
                  alternativa, sono argomenti che non spaventano. In questi ambienti, 
                  lontano dai riti e dai miti della politica più tradizionale, 
                  si parla molto laicamente di “utopie concrete”. 
                 
                  
                  Lorenzo Guadagnucci 
                  
                  
                Non ho imparato 
                  a piegarmi 
                Piegarsi vuol dire mentire: è questo il messaggio di 
                  lotta, di non rassegnazione che il poeta anarchico tedesco Erich 
                  Mühsam, impiccato nel campo di concentramento di Oranienburg 
                  nel 1934, ci lascia nella poesia che apre l’omonimo volume 
                  – Autori Vari, Piegarsi vuol dire mentire. Germania: 
                  la resistenza libertaria al nazismo nella Ruhr e in Renania 
                  (1933-1945), Milano 2005, euro 7,00 – pubblicato 
                  di recente da Zero in Condotta.  
                  Il breve opuscolo, raccolta di saggi pubblicati a Parigi nel 
                  2001, vuole offrire una ricostruzione della storia del movimento 
                  anarcosindacalista tedesco e del suo annientamento a partire 
                  dal 1933, anno della presa del potere da parte di Hitler.  
                  Dopo un articolo premonitore di Augustin Souchy, scritto nel 
                  1930, nel quale si prefigura tutto il percorso che porterà 
                  i nazisti alla presa del potere per via parlamentare, ci viene 
                  proposto il racconto delle vicende della FAUD, Freie Arbeiter 
                  Union Deutschlands.  
                  L’organizzazione, che sin dal suo congresso costitutivo 
                  nel 1919 adotta nella sua dichiarazione di principio il rifiuto 
                  dello stato e del parlamentarismo, e che nel 1923 si dichiarò 
                  anarcosindacalista, ebbe un rapido sviluppo: al suo apogeo conterà 
                  duecentomila iscritti ed un intensa attività di diffusione 
                  di periodici e testi del movimento anarchico, svolgendo così 
                  un’importante attività di educazione e propaganda. 
                 
                  
                Germania 
                  1933 – Oranienburg: il primo della lunga, e triste, sequenza 
                  di lager e di campi di sterminio nazisti 
                 Dopo la presa del potere da parte dei nazisti, la FAUD fu 
                  costretta ad entrare in clandestinità e numerosi suoi 
                  militanti furono deportati negli appena costituiti campi di 
                  concentramento.  
                  Inizia così il racconto della difficoltà di resistenza 
                  all’urto dell’apparato repressivo nazista, di una 
                  quotidianità scandita da attività di solidarietà 
                  internazionale, dai difficili tentativi di coordinamento dei 
                  gruppi clandestini, e di diffusione interna ed esterna di opuscoli 
                  di propaganda antinazista, fino alla distruzione definitiva 
                  della rete nel 1937.  
                  Dove però finisce la storia collettiva della FAUD, comincia 
                  quella individuale dei singoli militanti, della loro vita nei 
                  campi di concentramento: il volume riporta così, per 
                  la prima volta in italiano, quattro testimonianze di lavoratori, 
                  membri della FAUD.  
                  Racconti privi di ogni retorica, in cui dominano si il dolore 
                  e lo spavento ma anche le lacrime di rabbia di chi è 
                  malmenato e non può reagire, di chi abituato a lottare 
                  non vuole smettere di farlo.  
                  La resistenza nel lager è quella dei piccoli gesti, del 
                  tentativo di mantenere vivi quei rapporti di solidarietà 
                  umana che l’istituzione concentrazionaria mirava ad annientare. 
                   
                  Un universo totalizzante in cui anche il linguaggio stesso dei 
                  prigionieri subisce modificazioni semantiche e si viene definiti 
                  cretini perché agli occhi dei più si è 
                  colpevoli di non avere accettato di migliorare la propria posizione 
                  a spese dei propri compagni.  
                  Il saggio finale di Marco Rossi Asociali e renitenti al lavoro 
                  nella Germania nazista analizza il fenomeno della cannibalizzazione 
                  da parte del regime nazionalsocialista di simboli, culture e 
                  parole d’ordine del movimento operaio.  
                  Una volta preso il potere, la celebrazione della centralità 
                  del lavoro come virtù collettiva servì a giustificare 
                  l’esclusione e la repressione di tutti i soggetti emarginati, 
                  i disoccupati e i ribelli del lavoro, tutti definiti asociali. 
                  Ogni forma di conflittualità sociale e di classe sarebbe 
                  stata annientata di li a poco.  
                  La creazione dei “campi di lavoro” si rese necessaria 
                  al fine di garantire la sicurezza e l’ordine: asociali 
                  (i cosiddetti triangoli neri) e oppositori politici furono i 
                  primi soggetti da “rieducare” al lavoro. Vennero 
                  poi ebrei, zingari, prigionieri russi e polacchi, lavoratori 
                  stranieri dei territori occupati. Ogni volta un nuovo diverso 
                  dal quale proteggere la società e da sfruttare fino alla 
                  morte.  
                  Appropriazione indebita di un linguaggio rivoluzionario, annientamento 
                  politico e fisico degli oppositori, creazione continua di “diversi” 
                  e “devianti” contro cui canalizzare le tensioni 
                  sociali: cosi sì diede vita al più feroce sistema 
                  di annientamento e sfruttamento che l’umanità ricordi. 
                 
                  
                  Ugo Tramontano 
                Il 
                  prigioniero  
                  (Der Gefangene, 1919)*  
                Non 
                  ho imparato per tutta la mia vita  
                  a piegarmi ad una costrizione estranea.  
                  Adesso mi hanno incarcerato  
                  allontanato da moglie e opera.  
                  Ma anche se mi ammazzano:  
                  Piegarsi vuol dire  
                  mentire!  
                Io 
                  dovrei? Io devo? – ma non voglio  
                  seguire i piaceri di quei signori.  
                  Non faccio ciò che dice un maggiordomo.  
                  Ribelli conoscono un dovere migliore  
                  che piegarsi sotto il giogo.  
                  Piegarsi vuol dire  
                  mentire!  
                Lo 
                  stato, che mi tolse la libertà,  
                  che continua a fregarmi  
                  nel carcere e senza pudore.  
                  Dovrei piegarmi ai paragrafi anche  
                  in catene.  
                  Piegarsi vuol dire  
                  mentire!  
                Allora 
                  mettete l’empio al muro!  
                  Così siete contenti.  
                  Perché prima si secchi la mia mano  
                  che io mi pieghi alla frusta  
                  nell’ignoranza di uno schiavo.  
                  Piegarsi vuol dire  
                  mentire!  
                Ma 
                  se un giorno la catena si spezzerà  
                  posso a pieni polmoni respirare il sole – tirannia!  
                  Lo griderò in mezzo al popolo: Sii libero!  
                  Disimpara a piegarti!  
                  Piegarsi vuol dire  
                  mentire!  
                Erich 
                  Mühsam  
                * 
                  Scritta nel carcere-fortezza di Ansbach, pubblicata nel 1920 
                  in: Brennende Erde – Verse eines Kämpiers 
                  (Terra che brucia – versi di un combattente) traduzione 
                  di Leonhard Schäfer.  
                  
                  
                Un prete da 
                  marciapiede 
                Quattro anni fa, l’11 giugno 2001, noi di “A” 
                  organizzammo la presentazione alla stampa del nostro Cd+libretto 
                  di De André “ed avevamo gli occhi troppo belli” 
                  in un campo rom alla periferia Nord-Est di Milano e invitammo 
                  tra altri “testimonial” don Andrea Gallo, fondatore 
                  della Comunità San Benedetto di Genova, amico di Fabrizio 
                  e Dori, da sempre al fianco degli emarginati e in particolare 
                  degli zingari. Fu in quell’occasione che lo conobbi, ne 
                  apprezzai le parole, ci ripromettemmo di ritrovarci per approfondire 
                  la conoscenza.  
                  Alcuni compagni storsero il naso. Dov’era finito il sano 
                  anticlericalismo degli anarchici? Trovammo anche un messaggio 
                  anonimo nella segreteria telefonica: “Vergognatevi! Chiamare 
                  un prete per far più soldi. Mi fate schifo!”  
                  Noi, evidentemente, la pensavamo (e la pensiamo) in modo differente. 
                  Il problema, al caso, era di Andrea, il prete, non nostro.  
                  E pensare che pochi giorni prima lo stesso don Gallo si era 
                  unito al corteo promosso dagli anarchici a Genova, in vista 
                  della contestazione del G8 che avrebbe avuto luogo nel successivo 
                  mese di luglio. Era stato fotografato e all’indomani era 
                  apparso nella cronaca cittadina dei quotidiani locali, con dichiarazioni 
                  di simpatia per gli anarchici e il loro corteo.  
                  A quel corteo, così come nel campo rom e in tutte le 
                  altre occasioni in cui poi l’ho incontrato, don Andrea 
                  Gallo era vestito da prete, non travestito in incognito. Perché 
                  lui è indiscutibilmente, vorrei dire orgogliosamente, 
                  un prete – anche se molto, molto particolare. Un prete 
                  da marciapiede, un prete che va in giro di notte a distribuire 
                  generi di conforto e preservativi alle prostitute, un prete 
                  che ha portato delle donne violentate ad abortire il frutto 
                  di quella violenza. Un prete angelicamente anarchico, 
                  come si intitola la sua autobiografia recentemente uscita (Mondadori 
                  2005, pagg. 213, euro 14,00, prefazione di Vasco Rossi) e come 
                  ama definirsi lui stesso.  
                  La chiesa era stracolma. C’ero anch’io, commosso. 
                  Ma non dietro l’altare, fra vescovo e arcipreti. Ero nella 
                  piazza, insieme agli anarchici, con un fazzoletto rosso al collo 
                  e sotto la loro bandiera nera. Così si apre il capitoletto 
                  dedicato al Vangelo secondo De André: con questa immagine 
                  dei funerali del cantautore genovese, nostro comune amico. Fabrizio 
                  – scrive più avanti – è stato 
                  semplicemente un anarchico, perché l’anarchia, 
                  prima ancora che un’appartenenza politica, è un 
                  modo di essere. Basta scorrere il canzoniere di De André: 
                  donne, prostitute, suicidi, ultimi, zingari. Come nel Vangelo: 
                  “I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel Regno 
                  di Dio”. La scelta di Fabrizio non accetta etichette, 
                  non è mai ideologica. Chi sceglie un’ideologia 
                  può anche sbagliare; chi sceglie i poveracci, i senza 
                  voce, i fragili, non sbaglia mai.  
                  Questo libro si legge in un attimo, diviso com’è 
                  in tanti capitoletti. Vi si intrecciano i mille incontri di 
                  questo vecchio ragazzino (sulla soglia degli 80 anni) con l’analisi, 
                  veloce sempre ma centrata, dei contesti sociali che favoriscono 
                  l’emarginazione: il carcere, la repressione sociale e 
                  poliziesca, il mercato della droga, i miti berlusconiani. Al 
                  centro della sua riflessione, l’ottavo peccato capitale, 
                  quello che secondo lui caratterizza in negativo la nostra epoca: 
                  l’indifferenza.  
                  Giovanissimo disertore dalla leva repubblichina, staffetta partigiana 
                  prima ancora di farsi prete, don Gallo ha scelto di stare dalla 
                  stessa parte che abbiamo scelto noi. Certo, è stato ed 
                  è un prete, dentro una struttura – la Chiesa cattolica 
                  – che noi contestiamo e che lui stesso per tanti aspetti 
                  critica.  
                  
                 Conversando una volta con lui in un bar di Carrara, mi raccontò 
                  che un nostro caro compagno genovese, Adriano Bosi, rimasto 
                  solo, trascorse gli ultimi tempi della sua esistenza nella sua 
                  comunità.  
                  E in varie occasioni, tra cui il primo maggio, nella comunità 
                  del prete don Andrea, l’anarchico Adriano tirava fuori 
                  il leggio e commemorava i Martiri di Chicago e declamava le 
                  sue poesie anarchiche in genovese.  
                  Anche Adriano era stato partigiano. Quando lo conobbi, nei primi 
                  anni ’70, gestiva una bancarella nei mercati genovesi. 
                  Vendeva cravatte, mi pare, ma proponeva anche le cassette con 
                  le sue poesie sociali in vernacolo. Frequentava il circolo “Pietro 
                  Gori” a Genova-Certosa, con Giuseppe Pasticcio e altri 
                  compagni. Una gran brava persona, Adriano. Anche lui era, forse, 
                  angelicamente anarchico.  
                  
                  Paolo Finzi 
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