rivista anarchica
anno 35 n. 308
maggio 2005


lettere

 

Falco e falconiere

Qual è la differenza tra un falco e un falconiere? Da un punto di vista grammaticale falco è un nome primitivo e falconiere un nome derivato, nel senso che se non c’è il primo non esiste il secondo.
Inoltre essere falconiere accende la fantasia di tempi antichi, di nobili solitari e sprezzanti che vagano per i boschi e con un fischio richiamano il volatile al loro braccio.
Essere falco vuol dire invece accendere l’occhio rapace del cacciatore, reso onnipotente dal fucile caricato, e che spara non per legittima difesa, ma per semplice e dichiarato “divertimento”. “Go fato caccia!” è l’esclamazione soddisfatta di fronte al cadavere dell’animale appena ucciso.
Così è successo al “mio” falco pellegrino, abbattuto da una serie di pallini “vaganti” e schiantatosi nel bosco, tra carpini, castagni e roverelle. Quando l’ho fotografato si riconosceva chiaramente il becco corto, molto ricurvo e le dita armate di unghie ben sviluppate, la gola bianca e la parte inferiore color cenere con sfumature rossicce a macchie scure. Era “mio” nel senso che l’avevo già incontrato più volte, l’avevo osservato da lontano mentre volteggiava lento, si precipitava in picchiata per poi ritornare a veleggiare in alto. È una specie protetta abbastanza rara, dal carattere fiero che talvolta nidifica lungo le coste rocciose dei Berici. Un tempo si trovava anche sulle pareti del Broion di Lumignano, scacciato poi dall’invadenza dei rocciatori.
In questi giorni il Parlamento di questo Paese sta cercando di proporre una legge oscena per allargare ancora di più le specie cacciabili (e l’Europa, che dice?), per ampliare ancora di più il periodo di caccia, in barba ai periodi di nidificazione (“guai a chi tocca i bambini” dicono i saggi, riferendosi a tutti i bambini del mondo) e ai periodi di migrazione (“il viandante è il benvenuto” dicono i saggi, riferendosi a tutti i viandanti del mondo), per rendere più vasti i territori dove esercitare la nobile arte dello “Sparare a vista su qualsiasi cosa si muova in cielo e in terra”, aprendola anche nei Parchi e nelle zone protette.
La contrarietà alla caccia è della quasi totalità del popolo italiano, ma forze oscure e potenti hanno sempre più il sopravvento, portando a scelte concrete sempre più permissive e distruttive della biodiversità e dell’habitat naturale, già minacciati dai cambiamenti climatici e dal “progresso” industriale e chimico.
Di fronte alle dichiarazioni baldanzose di rappresentanti governativi e di associazioni venatorie ripenso tristemente alla povera ballerina bianca che correva con un’ala spezzata, incapace di sollevarsi dal campo arato e destinata a morire per avvelenamento da piombo, al fringuellino colorato lasciato cadavere lungo il sentiero in montagna e che ho raccolto tra le mani per deporlo tra i rami di un grande albero, al mio falco pellegrino abbattuto a tradimento nel cielo vicino a S. Pancrazio, luogo di spiritualità violata.

Elena Barbieri
Movimento UNA - Uomo/Natura/Animali
(Nanto)

 

Lettera aperta al “mio” direttore

Il “mio” direttore, già una volta, a causa di un calendario satirico su Berlusconi mi aveva ristretto l’orario della sala computer e ritirato la stampante e lo scanner. Poi il “mio” direttore, per fortuna, andò via e con il nuovo direttore tutto ritornò come prima. Ora il “mio” direttore è ritornato, nel luogo del delitto, e alla prima occasione, per avere criticato le strutture penitenziarie, per tentare di migliorarne la qualità, mi aveva trattenuto due lettere, (il magistrato di sorveglianza ne ha ordinato subito l’inoltro), mi ha di nuovo ridotto l’orario della sala computer/lettura, con il ritiro della stampante e scanner. Come se questo non bastasse mi ha spostato l’orario della sala computer con quello del passeggio e in questa maniera sono ricattato fra studiare o andare all’aria, ovviamente sto scegliendo di studiare ed è circa un mese e mezzo che non vado al passeggio. Nonostante che il precedente direttore mi ha autorizzato, tramite l’articolo 51 del regolamento di esecuzione, di poter svolgere con il mio computer attività intellettuali, artigianali ed artistiche il “mio” direttore mi sta proibendo di stampare poesie, un bigliettino di auguri per il compleanno di mia figlia, un disegnino per San Valentino per la mia compagna, immagini creative, ecc. Come se non bastasse mi ha negato persino di stampare una istanza al Magistrato di sorveglianza, probabilmente per motivi di sicurezza… ma che pericolo c’è in un disegno o in una poesia? Posso solo utilizzare stampante e scanner su richiesta, tramite censura preventiva e controllato dall’agente a vista, solo esclusivamente per appunti di studio ogni 15 giorni, quindi se devo stampare una piccola modifica, anche una semplice virgola alla tesi che sto elaborando, devo fare la domandina, aspettare che sia approvata e aspettare ancora che l’agente sia libero, ecc. Infatti, dal 22 gennaio, quindi circa un mese e mezzo fa, ho potuto stampare solo tre volte. Ho fatto presente al “mio” direttore che negli altri istituti (persino qui nel carcere di Nuoro con altri direttori) queste restrizioni sulla stampante e scanner non ci sono, lui mi ha risposto “gli altri direttori sbagliano”, io ovviamente ho risposto che stava offendendo la maggioranza dei suoi colleghi…
Chi sono: sono Carmelo Musumeci, da molti anni in carcere. Per dare un senso alla mia vita e alla mia pena ho iniziato a studiare da autodidatta e così per me studiare ha rappresentato soffio di vita e di speranza. L’istruzione serve anche per dare gli strumenti per ragionare, per sapere rispondere a delle domande ed anche per imparare a porre domande. Dalla quinta elementare di partenza sono riuscito a diplomarmi e quest’anno mi laureo in Scienze giuridiche. Partecipo con passione e assiduità a varie attività per curare i miei interessi umani e sociali, investo il mio tempo, l’unica cosa che mi è rimasta, ed energie per migliorare la qualità della mia esistenza.
La mia esperienza in questo istituto è l’impotenza, qui nessuno ha voglia di ascoltarti, a parte alcune persone dell’area educativa. La legge, il buon senso, la buona amministrazione è come se fossero aria fritta. Con tutta la buona volontà, anche inventandosi un trattamento personalizzato, non è possibile cogliere le opportunità che il carcere dovrebbe offrire. Spesso il colpevole silenzio e l’ostilità della direzione su richieste legittime ci mortifica e ci umilia. In questo istituto non si sconta la sola privazione della libertà, già di per sé terribilmente brutta, ma si sconta la reclusione in un ambiente difficile e ostile, angusto e malsano dove le condizioni igieniche sono terribili (si pensi solo che bisogna andare in bagno davanti ai propri compagni), dove mancano educatori, insegnanti, assistenti sociali in numero sufficiente, dove le strutture sono fatiscenti, la promiscuità è la regola; i rapporti con l’amministrazione sono difficoltosi e discrezionali, le opportunità di lavoro sono scarse per non dire nulle, un ambiente dove non esiste alcun presidio di tutela dei diritti. In questi tre anni nell’istituto di Nuoro ho sempre reclamato, lottato spesso da solo ma anche in compagnia senza mai deformare la realtà per rivendicare giustizia, diritti e rispetto delle regole e norme penitenziarie e per superare l’indifferenza e l’illegalità di questo carcere. Ho lottato per avere la possibilità per me ed i miei compagni, di vivere realmente in modo civile e dignitoso per consentirci di mantenere la propria individualità di esseri coscienti e responsabili. Alle ingiustizie bisogna ribellarsi soprattutto quando esse vengono inflitte in nome della giustizia perché il detenuto che non si ribella è peggio del suo aguzzino. A lungo andare questo comportamento mi ha creato antipatie ma non importa preferisco essere considerato “cattivo” che pusillanime, servitore e leccapiedi. Il cittadino prigioniero è impotente di fronte ad un direttore che ha sempre ragione se non usa anche la stessa legge per tentare di correggere le ingiustizie di costui. In carcere si possono tollerare tante cose ma non la cattiveria gratuita come di proibire di stampare un fiore una poesia alla propria figlia, o alla propria compagna che si ama, con il proprio computer e stampante… è umiliante per il “mio” direttore non trovare riscontri positivi a richieste cosi semplici. Inoltre, signor direttore, le sue nuove restrizioni mi rendono più difficile il mio diritto allo studio. Le sue restrizione sono cattive, repressive, capziose e per ultimo capricciose. Signor direttore, mi permetta lei sa solo comandare, vietare ma non sa ubbidire alle leggi, ai regolamenti e soprattutto al buon senso. Proibire di stampare un fiore è violare le regole della logica che costituisce un limite giuridico all’esercizio di ogni attività discrezionale prive di ogni carattere di ragionevolezza. La nostra vita è fatta anche di cose “inutili” senza le quali però la stessa esistenza non avrebbe senso.

Signor direttore spesso coloro che sono in posizione di autorità non si curano affatto del bene o del male, da ciò che è giusto e di ciò che non lo è: la loro unica preoccupazione è di tiranneggiare i sottoposti. Spesso in carcere ci si trova dinanzi ad un potere smisurato e cattivo dove non si può fare nulla per cambiare il corso delle cose e chi non accetta le regole del potere non può fare altro che soffrire ma è pur sempre meglio di non fare nulla… Spesso accade che il detenuto ha ragione ma ha torto in quanto detenuto ed il custode ha torto ma ha ragione in quanto aguzzino. Spesso si vuole che il detenuto, in quanto prigioniero, deve accettare di essere punito ingiustamente, si vuole che il detenuto sia sempre e soltanto ciò che il carcere lo farà essere. Spesso al detenuto conviene non avere mai un pensiero autonomo, conviene essere sempre d’accordo con il suo carnefice. Invece, spesso, il detenuto ha tanto da trasmettere e comunicare: si può ed è possibile reagire all’emarginazione del carcere. In carcere convivono dolore, prostrazione, fede, abbandono, odio, pentimento, talvolta brutalità, ma c’è anche un senso infinito di umanità e dove una vita può anche rinascere… In carcere non bisogna adattarsi né rassegnarsi perché sono convinto che più ti adatti alla realtà della detenzione, alle sue leggi negative, maggiore difficoltà troverai all’esterno. Lei direttore non capisce, ma sarebbe meglio dire fa finta di non capire, che protestare pacificamente e lottare per i propri diritti riconosciuti con il metodo della non violenza è profondamente giusto e serve, tra l’altro, a scontare la propria pena migliorando interiormente. Quando reclami può sembrare terribilmente inutile ma è terribilmente importante che uno lo faccia, infatti, una cosa che distingue i detenuti gli uni dagli altri è la forza di protestare: il detenuto che non reclama perde la sua libertà proprio nel momento che spera di ottenerla non reclamando.
Ricordo al “mio” direttore che il carcere non dovrebbe essere solo un luogo di punizione, ma dovrebbe anche essere un’occasione di recupero, dovrebbe rieducare e aiutare chi ha sbagliato a reinserirsi nella società, invece il carcere è il luogo dove più di qualsiasi altro posto non viene rispettata la legge. Ricordo che quando il detenuto si vede esposto ad una sofferenza che la legge non ha ordinato e neppure previsto entra in uno stato di collera abituale, e non crede più di essere stato colpevole ma accusa la giustizia stessa. Ricordo che rinunciare al diritto e obbligo a reclamare significa rinunciare alla propria qualità di uomo e ai propri doveri e non c’è nessun compenso possibile per chi rinunci a questo. Se si protesta ad alta voce, anche in modo pacifico, la spiegazione che si dà solitamente è che il detenuto sia un ribelle, quando va bene, ed irrecuperabile, quando va male. Non si va a cercare la causa perché uno protesta ma si condanna la sola protesta Le ricordo che il rispetto della dignità dei detenuti non è la debolezza, ma la forza di una istituzione e, tra l’altro, un dovere preciso di un direttore. Le ricordo che è terribilmente sbagliato sprecare il carcere solo per espiare la pena, coniugare controlli, sicurezza, trattamento ed inserimento non è difficile, invece lei preferisce vigilare e reprimere, così è molto più facile che non lavorare per far crescere una coscienza critica e responsabile del prigioniero. Signor direttore mi permetta di ricordarle che spesso negare i diritti ai detenuti si viola sia la logica che il diritto e viene fatto di pensare che spesso più che rapporti di giustizia, si tratta di rapporti di forza e questo assicura il dominio, non la giustizia. Con lei i diritti dei detenuti sono eventuali ed inesigibili mentre i doveri e le sanzioni sono certe ed inevitabili, lei mi proibisce di fatto di valorizzare le mie energie, la poca intelligenza che ho, capacità e disponibilità. Le ricordo che la differenza tra noi e “le persone per bene” sta più in ciò che facciamo che in ciò che siamo. Ma come posso migliorare e fare qualcosa se lei mi tiene chiuso in cella 21 ore senza fare nulla e 3 ore all’aria che sembra una voliera? Le ricordo che nella maggioranza dei casi il detenuto è ciò che apprende dai suoi eventuali educatori. Le ricordo che spesso i detenuti sono migliori (non è il caso mio) di chi li governa. Le ingiustizie consumate all’insaputa di tutti sono più dolorose, bisogna trasmettere quello che accade in carcere affinché la gente si accorga delle ingiustizie e possa riconoscere i torti e sviluppare un sentimento di comune offesa alla dignità umana. Chissà per quali insondabili e burocratiche cattiverie lei mi sta facendo questo, tutte le cose insensate in carcere hanno una logica perversa e stringente. A volte punitiva, altre semplicemente di assurda burocrazia cioè vessazione, cattiveria allo stato puro, insomma, sadica burocrazia carceraria. Viviamo in condizioni illegali di sovraffollamento, ozio forzato, mancanza di igiene e cure e spazi disponibili, e lei mi proibisce di stampare una poesia, un cuoricino… Di queste restrizioni non si capisce il senso visto che non sono motivabili con ragioni di sicurezza, se non spiegabili in una logica punitiva fine a se stessa.
Dottore lei mi appare più prigioniero di me perché è prigioniero della sua infelicità, tristezza e cattiveria e mi fa molta pena. Per educazione la saluto e non scrivo il suo nome per non rischiare di essere denunciato.

Carmelo Musumeci
(Carcere di Nuoro, marzo/2005)

 

In morte di Oupa Diniso

Ho appreso con sincera commozione della morte improvvisa (marzo 2005) di Oupa Diniso, uno dei “Sei di Sharpeville”.
Sharpeville, città martire, era già nella mente e nel cuore di chi, anche nella vecchia Europa, colpevole di tante ingiustizie nei confronti dei popoli di Africa, Asia, America Latina…(colonialismo, sfruttamento…) si mobilitava contro il regime dell’apartheid. Manifestando davanti a consolati e ambasciate e anche contro le fabbriche di armi e le banche (molte, purtroppo, anche italiane) che rifornivano e finanziavano il governo razzista, sapevamo di lottare anche per la nostra libertà e dignità di fronte al dispotismo.
Negli anni sessanta il massacro di Sharpeville (marzo 1960) era diventato un richiamo costante, una pietra di paragone di fronte ad altre stragi del potere contro popolazioni indifese e inermi. Da “Piazza delle Tre Culture” a Città del Messico alla “Domenica di sangue” di Derry (chiamata la “Sharpeville irlandese”); dal massacro operato dai colonnelli fascisti in Grecia contro gli studenti del “Politecnico” al “Settembre Nero” del 1970 contro il popolo palestinese…E intanto dal Sudafrica giungevano fino a noi l’eco di altre lotte e altre orribili repressioni…I nomi di alcuni militanti come Steve Biko, Nelson Mandela, Ruth First…e della rivolta di Soweto (con l’immagine della prima vittima, Hector Peterson ) in qualche modo sedimentavano anche nella nostra mente e nel nostro cuore.
Ma solo negli anni ottanta cominciammo ad assistere ad un consistente movimento di opposizione all’apartheid in Europa, un movimento che principalmente denunciava le mille complicità dei nostri governi, a parole democratici ma ottimi soci in affari con i razzisti di Botha & C.
Imparammo a conoscere il nome di tanti altri martiri; Victoria Mxenge, Benjamin Moloise, i “Tre di Moroka”…In questo scenario la vicenda dei “Sei di Sharpeville” divenne emblematica, sia per il nome della città (ricordata anche nella “Giornata mondiale contro il razzismo”) che per l’assurda condanna all’impiccagione senza prove, al solo scopo di punire l’intera comunità in rivolta contro l’apartheid. La loro salvezza (l’esecuzione venne sospesa un paio di giorni prima, grazie anche alla mobilitazione internazionale), anche se non poteva certo risarcire pienamente i “Sei” delle sofferenze patite in carcere, in qualche modo lasciava intravedere una possibile fuoriuscita dall’apartheid, un preludio di quelle prime elezioni democratiche del 1994.
Rileggendo la storia di quel periodo dal punto di vista dell’Europa, mi sono ulteriormente reso conto dell’importanza che le iniziative antiapartheid (manifestazioni, azioni di picchettaggio e boicottaggio si svolsero un po’ ovunque: da Parigi a Dublino, da Milano a Bilbao…), hanno avuto nel mantenere più alto sia il livello di consapevolezza politica e sociale che la vitalità di movimenti e associazioni democratiche europee.
Le iniziative antiapartheid hanno sicuramente rappresentato in Europa (e in Italia in particolare) uno dei più importanti momenti di confronto, di scambio di esperienze, di coagulo tra i “vecchi” militanti degli anni sessanta e settanta e nuove leve di giovani disposti a impegnarsi contro la guerra, il razzismo e le ingiustizie planetarie.
Anche le nuove forme di lotta nate in quegli anni ( boicottaggio di prodotti derivati dallo sfruttamento, commercio equo e solidale, azione diretta non-violenta…) si sono poi sviluppate fino ai nostri giorni.
Penso che in quel periodo abbia cominciato a germogliare anche quel movimento “No-global” che da Seattle a Praga, da Porto Alegre a Cancun, da Genova a Firenze ha rimesso in discussione la legittimità dei privilegi dei potenti.
Sicuramente le lotte dei Neri in Sudafrica contro il regime di Pretoria hanno fatto molto di più per la consapevolezza sociale, politica degli Europei (in materia di diritti umani e diritti dei popoli, nel pacifismo e contro lo sfruttamento del “Sud” del mondo), di quanto la nostra solidarietà possa aver contribuito a liberare le vittime del razzismo istituzionalizzato.
Con la morte di Oupa (così come, qualche anno fa, con quella di Francis Mokhesi) è anche un pezzo della nostra storia che ci lascia. Esprimo ai suoi familiari, ai suoi amici e a tutti quelli che in qualche modo condivisero il suo impegno e le sue sofferenze la mia solidarietà e la mia riconoscenza.

Gianni Sartori
Lega per i diritti e la liberazione dei popoli
(Nanto)

 

Impoverimento della cultura democratica

La verità è che siamo in una fase di controriforme. Il silenzio dei democratici sui molti interventi legislativi che sarebbero necessari sul fronte delle libertà civili, è il risultato dell’impoverimento della cultura democratica e della sua rassegnazione. Le battaglie non combattute in questi anni, la passività osservata di fronte alla rinascita dell’autoritarismo, l’abbandono di missioni storiche della sinistra come la difesa dei gruppi più deboli e la lotta per l’estensione universale dei diritti, hanno cambiato il senso comune diffuso nel paese. Sono venuti meno quegli anticorpi necessari ad espellere le tossine immesse nel sistema da un modello di società imperniato sulla dittatura del mercato, sul culto dei consumi, su una cultura popolare involgarita dalle tivù commerciali e dalle semplificazioni dell’ideologia berlusconiana.
Per risalire la china servirebbe una decisa inversione di tendenza: il rifiuto totale del senso comune neo autoritario, il rilancio di tutte le ambizioni della tradizione democratica e progressista, il rigetto del berlusconismo, che in questi anni è dilagato ben oltre i confini del consenso politico raccolto da Forza Italia.

Chiedere il possibile

Marco Revelli, in un’intervista al settimanale “Carta” del gennaio 2005, si è domandato che cosa sia possibile chiedere al sistema politico affinché cominci un “nuovo corso” attorno alle questioni chiave del nostro tempo, dal pericolo della guerra permanente alla tutela delle risorse naturali. Su questi argomenti la comunità scientifica, gruppi sempre più estesi della società civile organizzata, la stessa opinione pubblica mondiale hanno posizioni e consapevolezze che invece stentano a far breccia nella cittadella della politica.
Revelli prende l’esempio del concetto di sviluppo. “Bisognerebbe avere il coraggio – sostiene – di urlare che il nostro obiettivo non è l’aumento del Pil ma la sua diminuzione. (…). Ma sarebbe come se nel Cinquecento avessimo detto che non esiste il demonio, o che la terra gira attorno al sole: finiremmo sul rogo. Eresia! In tutto l’universo politico questo discorso è scandaloso. Dal politico, dunque, non mi aspetterei questo, che è un compito nostro, un risultato che si può raggiungere controllando i consumi, con uno stile di vita sobrio. Al leader politico non chiederei di darsi fuoco in piazza Montecitorio, di fare il monaco buddista. Gli chiedo però di mettere in atto politiche compatibili”. Revelli fa qualche esempio: “La politica può ridurre il danno della politica. Non pretendiamo di dettare il profilo di una nuova identità. Non siamo integralisti. Si chiede una percentuale minima delle risorse: non di abolire l’esercito, ma il 5% del suo bilancio, non la scuola come la vorremmo noi, ma un 10% destinato a ricerche non vincolate a criteri di efficienza di mercato…”
Le “politiche compatibili” sui diritti civili non sono una chimera, se non per l’insipienza di un ceto politico distratto e conformista. In questi anni, nonostante il vento contrario, non sono mancati i progetti di riforma, le scelte concrete di alcuni enti locali, le pragmatiche proposte di gruppi e associazioni. Esiste già, sotto traccia, un “programma minimo” sui diritti civili che una coalizione democratica dotata di coraggio potrebbe fare proprio per impegnarsi in una lotta politica e culturale alla seduzione autoritaria.
Prendiamo la guerra e il militarismo. In questi anni in Italia sono cresciute le spese belliche, è rifiorita la cultura militare e c’è stata un’ondata di patriottismo e nazionalismo sull’onda degli “eroi di Nassiriya”, o dei “morti nelle foibe vittime della barbarie slavo-comunista contro gli italiani”, in un crescendo di retorica e semplificazione storica. Ma nello stesso tempo si è radicata una forte opposizione alle imprese belliche, con una grande partecipazione popolare, mentre campagne come Sbilanciamoci! e il movimento della cooperazione internazionale hanno messo a fuoco le alternative possibili, ossia una politica estera che non passi per gli eserciti e la minaccia militare, ma s’impegni per la collaborazione internazionale, allargando i progetti di cooperazione e la diplomazia dal basso per un’autentica prevenzione dei conflitti.
La lotta agli squilibri di potere fra Nord e Sud del mondo, l’insistenza per una giustizia economica e sociale che abbia una scala planetaria, non sono più i sogni di piccole minoranze, ma progetti politici da perseguire attraverso scelte concrete, come l’abolizione del debito estero dei paesi più poveri, la tassazione delle transazioni finanziarie speculative, la democratizzazione dell’ONU, la riforma degli organismi sovrannazionali, il riconoscimento dei diritti dei migranti…

Che fare

Chi di recente ha scoperto la nonviolenza, tanto per fare un esempio, potrebbe dare un seguito concreto alla sua svolta, battendosi per obiettivi possibili, o come direbbe Revelli “compatibili”: la riduzione del bilancio della difesa, magari con la rinuncia a qualche aereo da guerra in costruzione, a favore della cooperazione internazionale (quasi azzerata dai tagli decisi dal governo Berlusconi); l’istituzione, almeno a livello sperimentale, dei “corpi civili di pace”, ossia di quelle strutture d’intermediazione nonviolenta che il parlamento europeo ha caldeggiato con una risoluzione rimasta lettera morta; la definitiva cancellazione dei crediti vantati dall’Italia verso paesi del Sud del mondo. Non si tratterebbe, per i nostri politici, di “darsi fuoco in piazza Montecitorio”, ma di portare sul proscenio alcune idee finora relegate dietro le quinte.
Si potrebbe anche fare di più: ad esempio sostenere gli sforzi solitari del presidente sardo Renato Soru, un imprenditore prestato alla politica e subìto, più che scelto, come leader del centrosinistra nell’isola. Soru è stato il primo uomo politico ad avere il coraggio di sfidare – su sollecitazione di comitati e gruppi di base – lo strapotere dell’esercito statunitense, che gestisce la sua base militare alla Maddalena con arroganza pari al servilismo mostrato da tutti i governi italiani del dopo guerra. Nel paese che ha subìto l’umiliazione della sentenza d’assoluzione per gli aviatori statunitensi “giocherelloni” responsabili della strage sul Cermis (venti morti nel febbraio 1998 per un cavo della funivia tranciato da un aereo militare), Soru si è opposto all’estensione della base utilizzata dai sottomarini nucleari e ha rivendicato il diritto ad avere informazioni dettagliate su un misterioso incidente avvenuto davanti alla Maddalena.

Lorenzo Guadagnucci
(Firenze)

 

I nostri fondi neri

Sottoscrizioni.
Silvio Gori (Bergamo) in ricordo di Egisto e Maria Gori, 30,00; Aurora e Paolo (Milano) in ricordo di Alfonso Failla, 500,00; Fabio Rosana (Fossano) 10,00; Associazione culturale libertaria “A. Bortolotti”, 3.195,70; Gianni Pasqualotto (Crespano del Grappa) 100,00; a/m Massimo Ortalli, Antonio La Gioia (Roma) 40,00; Francesco Lupis (Aspra) 8,00; Marcella Caravaglios (Messina) 20,00; Riccardo Allegrini (Colleferro) 5,00; Antonio Tarasconi (Montescudo) 50,00; Salvatore Pappalardo (Venezia-Mestre) 10,00; Marco della Libreria Voltapagina (Genova-Sampierdarena) 54,00; Paolo Mauri (Milano) 10,00; AB (Milano) 16,00. Totale euro 4.058,70.
Totale euro 4.058,70.

Abbonamenti sostenitori.
Maurizio Guastini (Carrara), 250,00.
Totale euro 250,00.