rivista anarchica
anno 35 n. 308
maggio 2005


anniversari

Chicago 1886: il nostro maggio
di Claudia Baldoli e Filippo Benfante

 

Da un omicidio di Stato le radici della giornata del Primo Maggio. La ricostruzione in un libro pubblicato dalle Edizioni Spartaco.


Primo maggio 1886: in tutti gli Stati Uniti si sciopera per la giornata lavorativa di otto ore. A Chicago le manifestazioni proseguono: il 3 maggio la polizia apre il fuoco contro gli scioperanti, ammazzandone due, ferendone altri. La sera dopo, i leader socialisti e anarchici organizzano una manifestazione di protesta in piazza Haymarket; la polizia è presente in forze e proprio mentre sta intervenendo per disperdere la folla pacifica che assisteva al comizio finale, una bomba scoppia tra gli agenti: uno muore, altri riportano ferite, che per sette uomini saranno mortali. Il giorno dopo, vengono arrestati otto leader anarchici, accusati di omicidio; si trattava di Albert Parsons, americano, di George Fielden, immigrato inglese, di Oscar Neebe, nato in America da genitori tedeschi, e di cinque immigrati dalla Germania: Adolph Fischer, August Spies, Louis Lingg, Michael Schwab e George Engel. Il processo cominciò a luglio; malgrado gli sforzi degli avvocati della difesa, l’accusa, appoggiata dal giudice, portò la discussione su un livello puramente ideologico: fu un processo all’anarchismo, al socialismo e al movimento operaio. Non esisteva nessuna prova del fatto che fossero state quelle otto persone a lanciare la bomba; tre degli imputati erano stati oratori al comizio di Haymarket – di cui tutti ricordavano i toni moderati; altri due non c’erano nemmeno andati, gli ultimi tre avevano lasciato la manifestazione prima dello scoppio della bomba.
La sentenza fu pronunciata il 19 agosto 1886: Neebe – uno di quelli che non era nemmeno in piazza – fu condannato a 15 anni; Parsons, Fielden, Fischer, Spies, Lingg, Schwab, Engel furono condannati all’impiccagione.
Il processo e il contesto in cui si svolse – un passaggio fondamentale nella storia del movimento operaio internazionale, intrecciato alla nascita della festa del Primo Maggio – sono ora ricostruiti in un libro delle Edizioni Spartaco da Claudia Baldoli, ricercatrice di storia contemporanea alla Hertfordshire University: Il nostro maggio. All’origine della festa dei lavoratori: autobiografie e testimonianze da Chicago (collana «Il risveglio» 15, Edizioni Spartaco, Santa Maria Capua Vetere 2005, pp. 144, € 12,00).
Baldoli – che nel 2004 per le Edizioni Spartaco ha curato anche l’antologia V. Brittain-M.L. Berneri, Il seme del caos. Scritti sui bombardamenti di massa (1939-1945) (collana «Il risveglio» 5, pp. 160, € 12,00) – organizza l’esposizione dei fatti in forma di «dramma storico», secondo un montaggio di documenti di prima mano; presenta così per la prima volta al pubblico italiano un’antologia degli atti del processo, attingendo in particolare dai resoconti dei testimoni, dagli interrogatori degli otto imputati e dalle autobiografie che essi scrissero in carcere in attesa del verdetto. Sono racconti che parlano dell’emigrazione e della vita quotidiana nel nuovo continente, intrecciando vita personale e motivazioni che avevano portato alla militanza politica. La tragedia di Haymarket ha per sfondo l’America operaia, delle prime organizzazioni socialiste e della lotta per le otto ore. Di fronte alla giuria del tribunale dell’Illinois, scorrono le vicende umane di poliziotti, giornalisti, operai, muratori, donne, artisti, commercianti e cittadini di una città che si stava trasformando in una delle metropoli industriali degli Stati Uniti.
Si presentano qui in anteprima ampi brani del penultimo capitolo del libro: La sentenza.

Filippo Benfante

Alcune testate di giornali stampati all’epoca dei fatti del 1886

L’esultanza del mondo “civilizzato”

Dall’autobiografia di Fischer
«C’è un fattore che ha giocato una parte esecrabile prima, durante e dopo il processo: la stampa capitalistica. Io oso dire che perfino i giornali nelle dispotiche Russia e Germania non sono così ingiusti, bugiardi e ipocriti come la stampa della “terra della libertà e casa del coraggio”».

La sentenza fu accolta con giubilo dalla stampa cittadina, che da mesi indicava negli «anarchici di Haymarket» i responsabili dell’omicidio e chiedeva un esempio di forza da parte delle autorità. Il “Chicago Tribune” propose una raccolta di fondi per premiare i giurati e apparve con il titolo in prima pagina: «Chicago, la nazione e il mondo civilizzato esultano».
(…). Il 19 agosto [1886], nel giro di tre ore la giuria aveva deciso la condanna a quindici anni di Neebe e a morte degli altri sette imputati. La condanna di Neebe fu una sorpresa perfino per [l’avvocato dell’accusa] Grinnell, visto che non era stato possibile trovare assolutamente nulla contro di lui. Seppure avesse svolto attività sindacale, con Haymarket aveva così poco a che fare che il giorno stesso non sapeva neppure che ci sarebbe stato il comizio. Nel suo discorso, disse poi di aver «scoperto in questi ultimi giorni che cosa è la legge». Nell’udire il verdetto, la moglie di Schwab ebbe una crisi di nervi; fu sostenuta dalla moglie di Parsons, dalla moglie dell’avvocato Black e da altre donne. Black non si era certo aspettato sette condanne a morte ed era scioccato; annunciò però che avrebbe presentato una mozione perché venisse rifatto il processo.
Era presente anche Nina Van Zandt, una giovane donna che aveva seguito tutto il processo e si era nel frattempo innamorata di Spies; sorprendendo la famiglia e gli amici, Spies e Nina si erano sposati durante il processo. Il matrimonio non fu mai consumato, ma Nina aveva scritto un pamphlet in appassionata difesa del marito, nell’estremo tentativo di salvarlo.
Lucy era infuriata. Si alzò e camminò al banco degli imputati, strinse la mano di Albert Parsons. Proclamò: «Marito mio, ti consegno alla causa della libertà. Vado ora a prendere il tuo posto. Andrò tra gli americani ad annunciare l’immondo omicidio che è stato ordinato qui oggi al comando del monopolio. Aspetterò anch’io di salire al patibolo. Sarò pronta». Lucy iniziò infatti subito a tenere comizi. Al primo incontro, organizzato da un’associazione di donne a Cincinnati la sera seguente, esordì: «quando le donne si schierano contro una grande e crudele malvagità, ci si deve aspettare una rivoluzione – non necessariamente una rivoluzione di sangue e distruzione, ma non necessariamente una rivoluzione pacifica». Il comitato della difesa iniziò i preparativi per una revisione del caso.
Il 1° ottobre il giudice Gary ascoltò le argomentazioni della difesa per la proposta di un nuovo processo. (…).
Malgrado la dettagliata spiegazione che seguì, Gary respinse la mozione e il 7 ottobre offrì ai condannati la possibilità di spiegare le loro ragioni. I loro discorsi, che si protrassero fino al 9, furono poi raccolti e pubblicati da Lucy Parsons. Tutti e otto si dichiararono innocenti e rivendicarono i principi in cui credevano. Quello che si differenziò maggiormente fu Lingg, per il contenuto favorevole alla violenza del suo discorso. Del resto era stato l’unico a cui si poteva imputare, se non l’utilizzo, il possesso di bombe. Alcuni, come Schwab, parlarono brevemente. Parsons invece si rivolse alla corte per otto ore, ripercorrendo completamente il processo.

“La mia difesa è la vostra accusa”

Dal discorso di August Spies
«Nel rivolgermi a questa corte parlerò come rappresentante di una classe ai rappresentanti di un’altra. Inizierò con le parole pronunciate 500 anni fa (in una situazione simile) dal doge veneziano Faliero, che rivolgendosi ai giudici, disse: «La mia difesa è la vostra accusa, le cause del mio presunto crimine la vostra storia!».
(…). Non c’è stata prova prodotta dallo Stato che abbia mostrato o anche solo suggerito che io conosca l’uomo che ha lanciato la bomba, o che io stesso abbia avuto qualcosa a che fare con il lancio. (…). «È l’anarchia sotto processo», ha ringhiato l’avvocato Grinnell. Se questo è il caso, Vostro Onore, molto bene; potete condannarmi, perché sono un anarchico. Io credo che il sistema delle caste e delle classi (…), questa forma barbarica di organizzazione sociale, (…) sia destinata a morire, per fare spazio a una società libera, volontaria, di fratellanza universale. Può pronunciare la sentenza contro di me, onorevole giudice, ma che il mondo sappia che nel 1886 dopo Cristo, nello Stato dell’Illinois, otto uomini vennero condannati a morte perché credevano in un futuro migliore; perché non avevano perso la fiducia nella vittoria finale della libertà e della giustizia! (…).
Chiamate i vostri boia! La verità, crocifissa in Socrate, in Cristo, in Giordano Bruno, in Hus, in Galileo, vive ancora – loro e moltissimi altri ci hanno preceduto su questo sentiero. Siamo pronti a seguirli!».

Dal discorso di Michael Schwab
«Non ho molto da dire. E non direi proprio nulla se lo stare zitto non sembrasse approvazione codarda di quello che è appena avvenuto qui. (…). L’anarchia era sotto processo (…); una dottrina, un’opinione ostile alla forza bruta, ostile al nostro presente sistema criminale di produzione e distribuzione. Sono condannato a morte per aver scritto articoli e fatto discorsi».

Dal discorso di Oscar Neebe
«Preferirei la morte alla prigione. Sarebbe più onorevole morire in un colpo che essere ucciso un po’ per volta. Ho una moglie e dei bambini; se sanno che il loro padre è morto, lo seppelliranno. Poi potranno andare alla tomba e inginocchiarsi al suo fianco; ma non possono andare in prigione e vedere il padre rinchiuso per un crimine con cui non aveva nulla a che fare. Questo è tutto ciò che ho da dire. Vostro onore, mi dispiace non essere impiccato con gli altri uomini!».

Dal discorso di Adolph Fischer
«Dirò soltanto che protesto contro la mia condanna a morte, perché non ho commesso alcun crimine. Sono stato processato in quest’aula per omicidio, e vengo condannato per anarchia. Protesto contro la mia condanna a morte, perché non hanno dimostrato che ho commesso un omicidio. Ma, se devo morire perché sono anarchico, per il mio amore per la libertà, l’uguaglianza e la fraternità, allora non protesterò».

Dal discorso di Louis Lingg
«Non riconosco la vostra legge, messa su in qualche modo da sconosciuti dei secoli passati, e non riconosco la decisione di questa corte.
Vi dirò sinceramente che sono a favore della forza. Ho già detto al capitano Schaack: “se usano i cannoni contro di noi, noi useremo la dinamite contro di loro”. (…). Voi ridete. Forse pensate, “non ne lancerai più di bombe”; ma lasciate che vi assicuri che muoio felicemente sulla forca, così sicuro come sono che le centinaia e migliaia ai quali ho parlato ricorderanno le mie parole, loro le lanceranno le bombe! Con questa speranza vi dico: “io vi disprezzo”. Disprezzo il vostro sistema, le vostre leggi, la vostra autorità basata sulla forza».

Dal discorso di George Engel
«Tutto ciò che ho da dire sulla mia condanna è che non sono per nulla sorpreso; poiché è sempre successo che gli uomini che hanno cercato di illuminare i loro simili sono stati sbattuti in prigione o condannati a morte».

Dal discorso di Samuel Fielden
«Oggi, mentre il bel sole d’autunno bacia con la sua brezza balsamica la guancia di ogni uomo libero, io sono qui sapendo che non volgerò mai più il viso ai suoi raggi. Ho amato i miei simili come ho amato me stesso. Ho odiato l’inganno, la disonestà e l’ingiustizia. Il XIX secolo commette il crimine di uccidere il suo migliore amico. Se ne pentirà. Ma, come ho detto prima, se questo può servire, mi sacrifico volentieri».

Dal discorso di Albert Parsons
«Sono un socialista; sono uno di quelli, malgrado sia io stesso un salariato, che credono che sia sbagliato, sbagliato verso di me, sbagliato verso il mio vicino, e ingiusto verso il mio simile, che io, salariato che non sono altro, faccia la mia fuga dalla schiavitù del salario per diventare un padrone e un possessore di schiavi io stesso. Mi rifiuto di farlo; rifiuto nello stesso modo di essere lo schiavo e il padrone di schiavi…».

4 maggio 1886 – Manifesto per l’indizione del meeting in cui si verificheranno i tragici avvenimenti di Haymarket Square

“Punire quelli che offendono la nostra legge”

L’arringa del Giudice Joseph E. Gary, 9 ottobre 1886
Il giudice Gary rispose ai discorsi degli imputati con un’arringa a conferma della loro condanna:
(…). «Sono consapevole che ciò che avete detto, sebbene fosse rivolto a me, è stato detto al mondo, tuttavia non è stato detto nulla che abbia potuto indebolire la validità della prova o le conclusioni sulle quali è stato basato il verdetto».
Uno Stato degno di quel nome – secondo Gary – aveva il dovere di garantire «sicurezza alla proprietà privata e ai propri cittadini rispettosi della legge»:
«E la legge è senso comune. Essa rende ogni uomo responsabile delle naturali e logiche conseguenze del suo agire. Stabilisce che chiunque istighi all’omicidio, sia egli stesso colpevole dell’omicidio che viene commesso in conseguenza della sua istigazione (…).
Il popolo di questo paese ama le proprie istituzioni, ama le proprie case, ama le proprie proprietà. Non permetterà mai che, con la violenza e i delitti, queste istituzioni vengano distrutte, le sue case saccheggiate, le sue proprietà distrutte.
E il popolo è abbastanza forte da appoggiare e tutelare le proprie istituzioni, e da punire tutti quelli che offendono la nostra legge (…).
Ognuno ha il pieno diritto di avere le opinioni che più gli si confanno e di sostenerle, mediante discorsi o materiale stampato, e di solito alla maggior parte della gente poco importa di ciò che viene detto; ma se egli pensa al delitto come mezzo per rafforzare la propria opinione, egli mette la sua stessa vita in gioco. E nessuna protesta per la libertà di parola, o per mali da debellare, o errori da riparare, potrà proteggerlo dalle conseguenze dei suoi crimini.
La sua libertà non è un diritto alla devastazione. La tolleranza che egli invoca dovrebbe estenderla anche agli altri e non arrogarsi il diritto di decidere che la grande maggioranza è in torto, e che essa può, di diritto, essere costretta attraverso l’uso del terrore o eliminata con la dinamite.
Resta soltanto da dire che per il crimine che avete commesso, e del quale siete stati giudicati colpevoli, dopo un processo, senza precedenti per la pazienza con cui il popolo oltraggiato ha concesso di estendervi ogni protezione e privilegio previsti da quella stessa legge che voi deridete e sfidate, una sentenza è già stata emessa».

11 novembre 1892 – Manifesto per l’indizione di un meeting in ricordo dei “martiri” di Chicago.
Tra gli oratori Louise Michel, Malatesta e Kropotkin

Questo sistema non può durare a lungo

Mentre la stampa americana esultava, manifestazioni e petizioni venivano organizzate in tutta l’America e l’Europa in favore degli otto condannati. L’esecuzione avvenne l’11 novembre 1887, tranne che per Schwab e Fielden, le cui condanne a morte erano state nel frattempo tramutate in ergastoli dal governatore dell’Illinois Richard Oglesby. Egli era infatti l’unica persona che avrebbe potuto commutare le sentenze, ma solo a patto che i condannati facessero richiesta di clemenza. Fielden e Schwab scrissero al governatore ammettendo e rincrescendo di aver usato, in momenti di eccitazione politica, un linguaggio violento e irresponsabile. Aggiunsero però che non avevano mai ucciso né avuto intenzione di uccidere, e chiesero che la loro sentenza fosse rivista, insieme a quella dei loro compagni. Anche Spies chiese clemenza, ma non si dimostrò così convinto. Gli altri si rifiutarono di farlo, certi che la scelta fosse fra la morte o il disonore: lo stato poteva ucciderli, ma non poteva punirli per vie legali.
Venuto a conoscenza di una petizione popolare che chiedeva la commutazione della sua sentenza in carcerazione, il 9 novembre Engel scrisse una lettera a Oglesby per opporsi a tale eventualità:

«Spett.le Governatore. Io, George Engel, cittadino degli Stati Uniti d’America e di Chicago, e condannato a morte, apprendo che migliaia di cittadini vi hanno indirizzato una petizione, in qualità di più alto ufficiale dello Stato dell’Illinois, per chiedervi di commutare la mia pena di morte in carcerazione.
Io protesto con forza contro ciò per il seguente motivo: non sono consapevole di aver violato alcuna legge di questo paese. Nella mia ferma fiducia nella costituzione che i fondatori di questa repubblica hanno lasciato in eredità a questo popolo e che è rimasta inalterata, ho esercitato il diritto di parola, di libera stampa, libero pensiero e libera riunione così come garantito dalla costituzione e ho criticato l’attuale condizione della società e ho aiutato i miei concittadini con i miei consigli, che io ritengo diritto di ogni onesto cittadino. Nel corso dei 15 anni durante i quali ho vissuto in questo paese la mia esperienza circa l’elezione e l’amministrazione dei nostri funzionari pubblici che sono diventati totalmente corrotti, mi ha portato a sradicare tutte le mie convinzioni nell’esistenza di uguali diritti per i ricchi e per i poveri e il modo di agire di pubblici ufficiali, poliziotti e militari hanno prodotto in me la ferma convinzione che questo sistema non può durare a lungo. Secondo questa esperienza ho insegnato e consigliato. Io ho fatto tutto ciò in buona fede nei diritti garantiti dalla costituzione e, non consapevole di alcuna colpa, dal potere che mi può uccidere ma non mi può punire legalmente. Io protesto contro la commutazione della mia pena e domando quindi libertà o morte. Rinuncio ad alcun tipo di grazia.
Con rispetto
George Engel».

La notte prima dell’esecuzione, Lingg si suicidò nella cella inghiottendo una bomba fatta a sigaro. Agli occhi di Emma Goldman e di Alexander Berkman, i leader della successiva generazione di anarchici americani, Lingg fu, tra gli otto, l’eroe sublime: il suo spirito indomabile, il suo sommo disprezzo per i suoi accusatori, fino al punto da uccidersi pur di non consegnarsi a loro, la sua giovanissima età, riempivano di bellezza e romanticismo la sua tragica figura. L’11 novembre, Parsons, Engel, Fischer e Spies salirono al patibolo. Una processione di centinaia di migliaia di persone partecipò al loro funerale. Lucy aveva ricamato un cuscino con scritto «nostro papà», che i bambini appoggiarono sulla bara di Parsons. Prima della sepoltura la folla poté vedere per l’ultima volta i volti dei cinque uomini. Lucy vide Albert e svenne. La folla intorno a lei iniziò a piangere.

Claudia Baldoli

11 novembre 1887 – Le ultime ore e l’impiccagione di quattro dei cinque condannati a morte.
Lingg si era suicidato poco prima per evitare di dare questa soddisfazione ai suoi carnefici

Quella che segue è un’amara considerazione sull’applicazione della “giustizia”, fatta dal poeta statunitense Edgar Lee Masters. Questa poesia si intreccia, in almeno due casi, con la storia del movimento anarchico: la prima chiaramente riferita all’impiccagione dei “martiri” di Chicago; la seconda perché se ne può leggere il testo sulla tomba, nel cimitero di Carrara, del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli “ucciso innocente”, come recita la lapide a lui dedicata in Piazza Fontana, nei locali della questura di Milano il 15 dicembre 1969.

Carl Hamblin

La macchina del “Clarion” di Spoon River venne distrutta
e io incatramato e impiumato,
per aver pubblicato questo, il giorno che gli Anarchici furono impiccati a Chicago:
“Io vidi una donna bellissima, con gli occhi bendati
ritta sui gradini di un tempio marmoreo.
Una gran folla le passava dinanzi,
alzando al suo volto il volto implorante.
Nella sinistra impugnava una spada.
Brandiva questa spada,
colpendo ora un bimbo, ora un operaio,
ora una donna che tentava ritrarsi, ora un folle.
Nella destra teneva una bilancia;
nella bilancia venivano gettate monete d’oro
da coloro che schivavano i colpi di spada.
Un uomo in toga nera lesse da un manoscritto:
‘Non guarda in faccia a nessuno’.
Poi un giovane col berretto rosso
balzò al suo fianco e le strappò la benda.
Ed ecco, le ciglia eran tutte corrose
sulle palpebre marce;
le pupille bruciate da un muco latteo;
la follia di un’anima morente
le era scritta sul volto.
Ma la folla vide perché portava la benda”.

Edgar Lee Masters

tratto da: Antologia di Spoon River, traduzione di Fernanda Pivano, Einaudi, Torino, 1971.