rivista anarchica
anno 34 n. 304
dicembre 2004 - gennaio 2005



a cura di Marco Pandin

 

My favorite string

Lui suona la chitarra ma, insomma, ciò che ne viene fuori non è proprio quello che ci si aspetta da un chitarrista normale. Il suono delle sue canzoni, che poi non sono neanche canzoni, è storto, angolare, bislacco, contorto. Sembra venga da chissà dove, invece che da una chitarra. Mah.
Luciano Margorani brilla. Brilla per la sua assenza testarda dalle scene musicali (da tutte) e per la sua lontananza dai “giri” (da tutti), e non perché preferisca rintanarsi nel suo monolocale in cima alla torre, quanto per quel suo sentirsi a disagio nei salotti con la bella gente che tutto conosce e tutto ha già sentito. Brilla, Luciano. Brilla per i salti mortali di genio delle sue registrazioni che rende pubbliche solo raramente, quasi fossero profezie, o stelle comete: è uno di quelli che bisogna cercare, e che non si fanno trovare dove te li aspetteresti.
Prendiamo adesso questo suo lavoro recente; senza contare un incredibile cd-rom dal vivo autoprodotto e casalingo e mai circolato al di sopra dell'orizzonte, l’altro suo cd da solista Home recording is killing studios mi sembra sia uscito nell’89, e sono di prima ancora gli album del suo gruppo LA1919 (magari qualcuno dalla memoria lunga si ricorda dei loro nodi sonori inestricabili su F/Ear this!).
My favorite strings è un titolo che accarezza Coltrane per abbandonarlo subito dopo su una piazzola dell’autostrada, titolo divertente e irrispettoso appiccicato a un cd anche questo introvabile nei negozi soliti.
È il documento di quattordici diverse collaborazioni più o meno a distanza, definibili come rimaneggiamenti e rimescolamenti incrociati ad opera di Luciano e di un diverso compagno di chitarre, da Franco Fabbri ad Elliot Sharp, da Eugene Chadbourne a Roberto Zorzi più altri dieci.
Come dire, alcune tra le dita migliori che abbiano mai accarezzato/strappato/amato/pestato corde in quest’ultimo quarto di secolo (manca solo Fred Frith… però peggio per lui).
Il progetto, di una semplicità organizzativa disarmante, in altre mani potrebbe rischiare di trasformarsi in un becero dépliant d’agenzia immobiliare, o in un sampler da palestra con trionfo di bicipiti e abbronzature artificiali.
Per sua e soprattutto nostra fortuna, invece, il Luciano Margorani non ci casca, e offre musica come offrisse cibo ai suoi amici, che in cambio gli hanno offerto sorridendo altra musica-come-cibo: la loro. Il risultato è, più che luminoso, abbagliante.
Finché non lo ascolterete, vi lascio solo immaginare la gioia pura che si prova ad accorgersi di tutti questi nuovi riflessi, di tutte queste nuove onde del suono. Da questo cd escono spettri, fumi, risate (molte), macerie e finalmente musiche nuove e distanti.
Immaginate il Grande Vecchio Derek Bailey trattato da compagno di briscola invece che da santino col lumino acceso davanti. Immaginate chitarre con la voce di scoiattolo, di giornata libera, di nebbia in Valpadana. Immaginate tutto questo come un grande gioco di scambi ed abbracci che porta divertimento e spalanca le finestre della mente e vi cambia l’aria ferma in testa.
Voi, che amate ascoltare i chitarristi: dopo una sola dose di questa musica dimenticherete Eric Clapton e come-si-chiama-quello-lì-dei-Dire-Straits… (ecco, dimenticato: ve l’avevo detto).
Cercate questo cd come si cerca il mattino dopo una notte nera lunga quindici anni (contatti: Luciano Margorani, corso 22 Marzo, 61 20129 Milano).

Ecologia della musica
S’era incrociato tempo fa su queste pagine Antonello Colimberti per segnalare il curioso libro+cd Musiche e sciamani; rieccolo a curare un’importante ed impegnativa antologia di scritti, a nome Ecologia della musica (Donzelli Editore).
Il libro – a volte didattico e scorrevole, altre volte invece inaccessibile come
un testo per iniziati – è un’ascensione
che avvincerà chi non s’accontenta di scivolare sulla superficie del suono, e desidera investigare nel tempo, nei diversi posti e culture dell’uomo, nelle pieghe del pensiero.
Antonello ha ricercato e raccolto un grande cesto di contributi, ciascuno volto a svelare misteri, a spiegare ragionamenti, a cercare radici e propaggini in una storia umana e sonora lunga mille e mille anni.
Uomo e suono assieme indissolubilmente da ancor prima della nascita (illuminanti le osservazioni di Marcel Jousse sul mondo sonoro dei bambini), fusi dalla tradizione e dal destino (nel saggio di
R. Murray Schafer qui tradotto si comparano i miti della creazione del mondo propri delle culture geograficamente più distanti, per scoprirne affinità sconcertanti), parti inscindibili della stessa Natura (si legga, a questo proposito, quanto qui scritto da David Rothenberg).
Un libro interessante e importante, che non solo fa riflettere sulle motivazioni del suono e della creatività, ma spinge addirittura alla meditazione.

Marco Pandin

Il Premio Ciampi ai Marmaja
Se volete il loro terzo Cd…

Istituito per volontà dell’associazione culturale omonima e dell’ARCI di Livorno in ricordo del “controverso” cantautore anarchico, il Premio Ciampi è divenuto nelle sue dieci edizioni un importante punto di riferimento per quei “musicisti che stentano a porsi all'attenzione di pubblico e critica, rigettati da un mondo che si muove in base a regole commerciali che finiscono con il mortificare ogni forma di creatività”. Conferito nel passato a Fabrizio De André (premio alla carriera, 1997), a Lalli (premio speciale della giuria, 1999) e a Les Anarchistes (premio al miglior debutto discografico, 2002), quest’anno il premio va ad altri nostri compagni di strada, i Marmaja.

La storia del gruppo rodigino (potete contattarli direttamente sul sito www.marmaja.com) si può paragonare ad una brutta strada montana in salita, ricca di curve improvvise e sassi taglienti, frane e voragini inaspettate. Una strada difficile su cui si sono incontrati e persi tragicamente amici fraterni, lungo la quale s’è condiviso pane e vino, risate e disperazione.

È grazie a compagni come questi che la musica migliore, quella che viene in viaggio dal cuore passando prima per la testa e si nutre della nostra incazzatura e del nostro piangere, ha saputo rimanere estranea ai meccanismi del mercato, è riuscita a sopravvivere, ad andare avanti e a costruirsi una strada. Strada stretta, fatta anche questa di sassi e frane, spine di rovo ai fianchi e nessun riparo, spesso. Strada in salita, sempre.
Abbiamo a disposizione (per ora) 100 copie del loro terzo ed omonimo cd: una parte del ricavato va in sottoscrizione a sostegno di “A”. Il cd costa 12,00 euro e viene da noi diffuso a questo prezzo, spese di spedizione postale comprese, secondo il nostro consueto “stile”. Per chi ne acquista almeno 3 copie, il prezzo scende a 11,00 euro.

Per ordinarlo, basta effettuare un versamento sul conto corrente postale o un bonifico bancario a nostro favore. Per accelerare i tempi, consigliamo di inviarci per fax o scannerata via email l’attestazione dell’avvenuto pagamento, cosicché possiamo effettuare subito la spedizione. Aggiungendo 4,00 euro (fissi, indipendentemente dal numero di copie ordinate e dall’importo totale) si può ricevere il pacchetto a casa in contrassegno.
Naturalmente, il cd dei Marmaja può essere ordinato insieme a tutti gli altri nostri “prodotti” (dall’abbonamento ad “A”, alle letture, dai cd e dvd di De André alla “Musica per A”). In ogni caso, vi rinviamo al modulo d’ordine online.

 

Musica a cui voler bene

Il titolo della rubrica va un po’ stretto ma, con un po’ di pazienza, si dovrebbe capire perché si parla di cinema in uno spazio dedicato alla musica. Almeno lo spero.
Punto primo: questa non è una recensione in quanto il film Nemmeno il destino esce nelle sale a fine ottobre e io non l’ho visto. Conosco il regista Daniele Gaglianone per il suo primo film I nostri anni e conosco (ma forse dovrei scrivere: conosciamo) Lalli, cantante e autrice – nei Franti, anni ‘80, con il sottoscritto; come solista, due album molto apprezzati per “il manifesto” – e ora anche una delle protagoniste di questo lungometraggio. Attrice dunque. Via mail le ho rivolto alcune domande ma le risposte le troverete qui al fondo, dopo una breve scheda del film in questione, largamente tratta dal sito della Fandango, la casa di produzione. Al festival del cinema di Venezia ha avuto un buon successo, il film precedente, I nostri anni, era molto bello ed emozionante, Gianfranco Bettin, autore del libro da cui è tratto il soggetto è uno scrittore noto per l’impegno politico e sociale (Pietro Maso, una storia dal vero 1992, Sarajevo, maybe 1994, Piazza Fontana 1999, Petrolkiller 2002), quindi direi che se ne consiglia la visione, come dicono in televisione i critici veri.

Daniele Gaglianone

Nato ad Ancona il 4/11/1966, si laurea in Lettere Moderne all’Università di Torino, corso di laurea in Storia e critica del cinema con il professor Gianni Rondolino. Dal 1991 collabora all’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza (ANCR) di Torino, per il quale produce, tra gli altri, Alla ricerca di Gobetti 1992, Lancia di Chivasso, una comunità operaia non rassegnata 1994, Le stagioni della Resistenza 1996, Antonio Gramsci. Gli anni torinesi 1997. È assistente alla regia per Gianni Amelio nel film Così ridevano. Primo lungo I nostri anni presentato a Cannes, vincitore del Premio Sacher D’Oro (opera prima).

Nemmeno il destino
(commento del regista)

Nemmeno il destino è una storia di periferia. Periferia urbanistica e dell’anima, è questo lo spazio fisico e mentale, il limbo esistenziale in cui si ritrovano i due giovani protagonisti, Alessandro e Ferdi. Hanno fra i 15 e i 17 anni , sono compagni di scuola insieme all’amico Toni ed abitano in una città post (ma forse sarebbe più giusto dire ex) industriale in decadenza, in via di smantellamento e/o ristrutturazione ed invasa da cantieri. Ale e Ferdi cercano un loro luogo, il proprio posto nel mondo un’oasi fra le macerie che non sono solo quelle delle fabbriche dismesse.
Le macerie sono anche quelle delle proprie famiglie… Questo film è per quelli che non ci stanno, che pensano che ci debba essere un altrove da conquistare, è una rabbiosa elegia, un pianto gridato, un urlo silenzioso e muto contro i fantasmi del passato e i mostri del presente.

Intervista a Lalli

Recitare in un film, cantare, un palco, comporre canzoni. Come ti sei sentita? In fondo, è una performance ma dilazionata nel tempo. Che affinità hai trovato nel gesto, nel comunicare?

Innanzitutto devo dire che sono stata molto fortunata ad entrare nel cinema diciamo così dalla porta principale, cioè come attrice, il che comporta il fatto di diventare oggetto di cure e di attenzioni, da parte di tutta la troupe, davvero inusuali. Perché se c’è una cosa che ho scoperto è che il cinema è fatto in grande misura da persone che svolgono lavori di fatica fisica.
In secondo luogo, Daniele è una persona profonda e gentile, molto attenta alle persone e ai loro sentimenti, mantenendo nel contempo molta chiarezza su ciò che vuole e quindi se mai il mio problema era spesso di non saper se fossi in grado di rendere ciò che mi veniva richiesto.
Non so se sia davvero possibile fare un paragone con la musica, ma forse, come diceva Marguerite Duras, se scrivere è una solitudine di dubbi, allora penso che anche cantare e recitare lo siano, solo che si tratta di solitudini diverse.
Può sembrare assurdo parlare di solitudine mentre reciti davanti a molte persone e, in primo luogo, davanti ad una macchina da presa. Eppure mi è sembrato così, la concentrazione che necessita per fare ciò che stai facendo è talmente alta che per forza deve quasi sparire tutto, deve rimanere l’albero spoglio di te, con le tue mani, i tuoi piedi, la tua voce, ma senza nessuno, solo Adele (questo il nome del personaggio che ho interpretato).
Sì, in questo ho trovato similitudine tra i due diversi linguaggi.

Tu hai sempre legato moltissimo il tuo lavoro musicale al cinema? Perché? Perché abbiamo bisogno di raccontarci, di raccontare storie?

Be’, credo di poter dire che tutto quanto parli delle persone e dei sentimenti che le muovono sia in qualche modo legato, la poesia è ovunque tu voglia vederla.
Il fatto che io abbia un modo di scrivere che spesso si snoda per immagini credo abbia poi contribuito a legarmi in modo quasi naturale al cinema, che da sempre adoro, non foss’altro per la magia con la quale riesce a trasportarti in un altro posto, in un altro mondo, in un’altra storia, appunto.
Per quanto riguarda il bisogno di raccontarci e di raccontare, non so, credo che a ognuno di noi, al momento della nostra nascita, venga dato un sacchettino pieno di pietre. Sta a noi decidere, nel corso del tempo della nostra esistenza e relativamente alla parte del nostro libero arbitrio, quale lasciar cadere e quale tenersi più stretto. Non credo di aver “bisogno” di raccontarmi e di raccontare, semplicemente qualcuno lo fa e altri fanno altre cose.

Cinema e impegno sociale. Mi racconti qualcosa degli ultimi anni in Italia rispetto al cinema schierato o militante? Così, facendo una brevissima antologia per me, magari citiamo 2/3 titoli che i lettori di “A” andranno a ritrovare.

Questa domanda, forse, bisognerebbe farla a Daniele, o a qualcuno che veramente ha il polso della situazione. Io onestamente credo di non essere in grado di rispondere perché credo di non conoscere gli autori e le loro storie.
Poi, bisogna capire cosa significa la parola militante, perché credo che nell’accezione storica della parola il campo debba ulteriormente restringersi.
Posso dirti che, in generale, penso che come per la musica anche per il cinema questi ultimi anni non siano stati, e non lo siano tuttora, tempi molto facili. L’Italia è uno dei paesi d’Europa dove si investe meno in cultura e dove se ne consuma meno. Si leggono pochi quotidiani, si comprano pochi dischi e pochissimi libri, il tutto aggravato dal fatto che, se per quanto riguarda la musica è difficile trovare qualcuno che abbia voglia di investire una quantità minima di denaro, ma soprattutto lavoro, in dischi poco “appetibili” per il mercato ma definiti di “alto profilo”, per il cinema la quantità di denaro da investire per la realizzazione di un film, anche a basso costo, è decisamente più alta e quindi, per gli autori, il lavoro di reperimento dei fondi è davvero un’occupazione faticosa e deprimente.
Quindi, vorrei concludere con due parole solo sul nostro film. Nemmeno il destino racconta una storia al ritmo dei pensieri e, soprattutto, dei sentimenti dei suoi protagonisti, che cercano di resistere agli attacchi del mondo che li circonda, di resistere non solo per sopravvivere, ma prima di tutto per non essere schiacciati come individui, come persone.
Aver lavorato per la realizzazione di questo film è stato davvero un regalo insperato che la vita mi ha fatto e vorrei ringraziare te e la rivista “A” per averlo voluto, con queste poche righe, condividere con me.

Stefano Giaccone

Musica per A/Rivista Anarchica

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