rivista anarchica
anno 34 n. 296
febbraio 2004


lesa libertà

Guerra interna e guerra esterna
di Maria Matteo

 

Solidarietà e mutuo appoggio per unire le lotte dei tranvieri a quelle dei migranti, a quelle antimilitariste e a quelle per un reddito dignitoso. Contro chi, quotidianamente, vilipende libertà e giustizia sociale.

Quando, l’11 settembre del 2001, due aerei di linea si abbatterono sulle Twin Towers di New York ed un altro rovinò sul Pentagono, politici e media insistettero sulla cesura che tale avvenimento segnava. «Niente sarà come prima» era il motivo dominante di una campagna martellante che mirava a consegnare alla storia un evento talmente cruciale da assumere valenza epocale, al punto di segnare una cesura tra prima e dopo. La scoperta della propria vulnerabilità è indubbiamente scioccante, simile al momento in cui ciascuno, chi prima e chi dopo, scopre che la mortalità è un faccenda che lo riguarda personalmente. Nondimeno eventi simili, anche più cruenti, segnano la storia anche recente di troppe parti del pianeta per non capire che l’epocalità dell’11 settembre non sta nell’evento in sé quanto nel «nuovo» corso che da quel momento assumono le politiche dell’unica superpotenza globale.
Bush e la sua combriccola neoconservatrice, di fatto una banda di affaristi ed integralisti religiosi, hanno inaugurato una guerra permanente su scala globale che, in nome della lotta al terrorismo, legittima sia interventi bellici «tradizionali» sia l’estrema limitazione e finanche la cancellazione del sistema di garanzie tipico dei modelli liberali.
Il Patriot Act ha sancito per legge la drastica limitazione della libertà per tutti i cittadini statunitensi ma a farne le spese sono stati in particolare gli immigrati da paesi mussulmani, gli oppositori politici, tutti coloro che per scelta o per condizione entravano in rotta di collisione con il governo USA.

Migliaia di morti

Sul fronte «esterno» il maggior tributo di sangue e sofferenza è toccato agli afgani ed agli iracheni: i due conflitti scatenati dall’amministrazione statunitense contro l’Afghanistan e l’Iraq sono costate migliaia e migliaia di morti durante la guerra guerreggiata ma anche più oneroso è stato il prezzo che le popolazioni hanno dovuto pagare dopo lo scoppio della «pace». In entrambi i Paesi gli USA, pur facili «vincitori» sul campo, faticano parecchio a mantenere l’occupazione militare, che costa loro soldi e uomini. In Afghanistan il territorio è di fatto controllato da «alleati» poco affidabili, legati da antiche alleanze alla Russia ed all’Iran, sempre in procinto di cambiare rotta in base al vento che tira; inoltre focolai di rivolta continuano a tenere sulla corda i vincitori, cui risulta difficile portare a termine gli affari – oleodotti e controllo delle vie di comunicazione – in un paese dove riescono a malapena a garantire la sicurezza di quell’Hamid Karzai da loro posto alla guida di un governo fantoccio.
In Iraq, una guerriglia diffusa sul territorio, una popolazione stremata ma ostile, il quotidiano stillicidio di attacchi fanno sì che, anche qui, gli Stati Uniti, dopo aver vinto la guerra, stiano perdendo la pace. Il costo, in termini di vite umane, libertà e dignità che stanno pagando gli iracheni – così come gli afgani – è altissimo e vede tra le principali vittime la popolazione civile, che in ogni guerra moderna che si rispetti è ormai divenuta alibi ed obiettivo costante dell’azione bellica.
Nella guerra contro il terrorismo, terrorista diviene chiunque non accetti le regole del gioco imposto dal poliziotto globale in divisa statunitense. L’integralista talebano ed il laico baathista, l’anarchico americano ed il lavoratore iracheno in sciopero, il migrante povero ed il manifestante no-global vengono tutti forzati ad entrare – poco conta come – nella categoria di terrorista, di nemico irriducibile contro il quale non valgono le regole ed i colpi bassi sono promossi a norma accettata.
Si arriva alla detenzione extragiudiziale in lager come Guantanamo, uno di quei posti che ricordano quei vecchi film di propaganda degli anni ’40, dove nazisti sempre grassi e volgari si fanno beffe delle convenzioni internazionali sui prigionieri di guerra. Si arriva alla legittimazione della tortura e qui la nostra memoria è fatta della carne e del sangue di quei partigiani che nazisti e repubblichini chiamavano banditi. Oggi li avrebbero chiamati terroristi.
Guerra interna e guerra esterna hanno lo stesso fronte. I tamburi di guerra negli Stati Uniti non mancano di trovare eco anche nel nostro Paese, dove il moltiplicarsi degli allarmi reali o presunti, la propaganda militarista, il riemergere di un nazionalismo becero sono il brodo di coltura in cui sono cresciute e si sono alimentate le tentazioni belliciste ed il crescente autoritarismo che sta investendo il nostro paese.
Il clima sta divenendo ogni giorno più pesante: la criminalizzazione del dissenso politico e sociale tocca livelli preoccupanti. Ne fa le spese chiunque si opponga alla stretta disciplinare, al militarismo, alle leggi razziste, alla riduzione dei salari e delle garanzie, all’erosione dei pur ristretti margini di libertà.

Alla stregua di delinquenti

I tranvieri in sciopero per poche lire di aumento in un contratto aperto da due anni sono considerati alla stregua di delinquenti. C’è chi invoca sanzioni, chi li vorrebbe licenziati, chi arriva a chiederne l’arresto e la condanna penale. Sono fioccate le precettazioni, la polizia è intervenuta con la forza nei depositi per obbligare al lavoro i sovversivi.
Pochi mesi prima chiunque osasse criticare la legge 30, meglio conosciuta come legge Biagi, era equiparato agli autori dell’agguato mortale al professore bolognese consulente di vari ministri del lavoro. È stato affibbiato persino ad un mite diessino come Cofferati lo scomodo ruolo di «fiancheggiatore»: se non fosse la punta di un iceberg insidioso verrebbe da sorridere di fronte ad un’accusa rivolta ad un esponente di un partito che raccoglie l’eredità di quel PCI che negli anni ’70 promuoveva a Torino un questionario per la denuncia anonima dei comportamenti «strani».
I migranti, già schiacciati da una legge razzista come la Bossi-Fini che li riduce allo status di manodopera servile, la cui «dedizione» al padrone di turno è garantita dall’interdipendenza tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro, sono oggetto di una campagna di odio e sospetto, che ne riduce i già esili margini di agibilità politica. Se a ciò si aggiungono gli ossessivi controlli di polizia, i rastrellamenti nei quartieri, la deportazione in base a semplici sospetti si vede come la distanza tra le due sponde dell’Atlantico vi vada assottigliando ogni giorno di più.
La ripresa e la promozione di sentimenti nazionalisti ha fatto da puntuale contrappunto alla crescita dell’impegno bellico dello stato italiano in Iraq e Afghanistan, toccando i propri punti più disgustosi dopo la strage di Nassiriya. La retorica più becera si è sprecata e, per tentare di conferire un’aura di nobiltà alle imprese neocoloniali in Asia, si rispolverano patria ed onore, bandiera e marce militari.
Vecchia paccottiglia per seppellire i morti e far dimenticare una semplice verità: gli eserciti uccidono. È la loro funzione, il motivo per cui esistono, vengono addestrati e lautamente finanziati. Uccidere nella sensibilità di noi tutti è un crimine orrendo, la più terribile delle violenze. Ma l’omicidio di massa compiuto da uomini in divisa al servizio dello Stato si trasforma da crimine mostruoso in «missione umanitaria», «spedizione di pace», necessaria per portare libertà e democrazia. Le migliaia e migliaia di persone che muoiono sotto le bombe, per mancanza di medicine e cibo sono considerate «danni collaterali».
Ogni volta che ciò accade, ogni volta che lo Stato, qualsiasi Stato, si prepara ad uccidere, si fa chiamare Patria. Sventolano le bandiere che dividono gli uomini alle frontiere, sventolano le bandiere alle parate militari, sventolano le bandiere durante le cerimonie per chi muore.
Le bandiere nazionali, tutte le bandiere di ogni nazione, sono simbolo di separazione, vessillo di guerra, fossato tra chi ha il diritto di vivere e chi è condannato a morire. La sentenza che condanna a morte uomini, donne e bambini «colpevoli» di essere nati nella parte «sbagliata» del mondo viene eseguita da uomini in divisa che marciano dietro ad una bandiera.
Le leggi dello Stato sanciscono che eserciti e bandiere siano investiti dell’aura della sacralità e chi li critica vada punito con la galera.
In questi mesi stanno fioccando le denunce contro chi osa chiamare criminali i criminali, contro chi preferisce la bandiera dell’internazionalismo anarchico e quella della pace a quella del nazionalismo e degli eserciti.

Offesa all’“onore”

Ad ottobre è toccato a Marco, un compagno della Federazione Anarchica Torinese, «reo» di aver scritto, nella lettera nella quale rifiutava sia il servizio militare che quello civile, che non intendeva entrare a far parte di una siffatta «organizzazione criminale».
La Procura di Torino gli ha notificato un avviso di garanzia per aver «offeso l’onore ed il prestigio delle forze armate» per la lettera inviata in risposta alla cartolina precetto.
Marco rischia da sei mesi a tre anni per aver dichiarato pubblicamente le proprie convinzioni antimilitariste, le convinzioni che stanno alla base della sua scelta di obiezione e della sua identità di anarchico.
A dicembre è stata la volta di altri cinque antimilitaristi anarchici di Torino. Per loro l’accusa è di «vilipendio alla bandiera». Rischiano da uno a tre anni di detenzione.
Lo scorso 22 marzo al termine del corteo spontaneo contro la guerra che aveva attraversato il centro cittadino sulla balconata che sovrasta lo scalone monumentale di Palazzo Madama la bandiera tricolore dell’Italia guerrafondaia lasciò spazio alle bandiere rossonere degli anarchici e a quella arcobaleno.
Questi compagni vengono perseguiti per le loro idee. Gli Stati democratici hanno inventato i reati di opinione per negare nei fatti quella libertà di espressione che affermano in linea di principio.
La loro libertà è una scatola vuota. Buona per coprire la vergogna delle parate militari in cui assassini prezzolati vengono esaltati come eroi e difensori della pace e della libertà.
Ed altre nubi già si profilano all’orizzonte. Il 2003 si è concluso con un paio di cassonetti incendiati e di un tappeto annerito tra Natale e Capodanno: poco importa se gli autori di simili prodezze ricevano regolare stipendio o facciano opera di volontariato non retribuito. Il ministro dell’Interno, Pisanu, punta l’indice sugli anarchici e invoca leggi speciali.
Un copione già visto, oggi riaggiornato in salsa globale.
Bisogna far saltare una rappresentazione i cui esiti non possono che essere letali per la libertà di noi tutti. I mezzi? Quelli di sempre: solidarietà e mutuo appoggio per unire le lotte dei tranvieri a quelle dei migranti, chi si oppone al militarismo e chi lotta per un reddito dignitoso, perché la libertà e la giustizia sociale si ottengono praticandole ogni giorno contro chi, in nome della legge, quotidianamente le vilipende.

Maria Matteo