rivista anarchica
anno 34 n. 296
febbraio 2004


intervista

Rivoluzionario tutta la vita
intervista di Massimo Ortalli a Giampietro “Nico” Berti

 

A colloquio con l’autore di quella che può essere considerata la biografia «definitiva» di Errico Malatesta.

Per quanti si richiamano alle idee libertarie di emancipazione e solidarietà, un momento irrinunciabile di riflessione è rappresentato dalla figura e dall’esempio di Errico Malatesta (Santa Maria Capua Vetere 1853 – Roma 1932), l’anarchico campano che più di ogni altro ha contribuito alla vita dell’anarchismo organizzato e alle idee che l’hanno sostenuto. Questo spiega l’interesse costante destato dalla sua vita e dalle sue idee. Giampietro «Nico» Berti, docente di Storia contemporanea all’Università di Padova e autore di numerosi e importanti testi sull’anarchismo e il pensiero libertario (tra questi vogliamo ricordare Francesco Saverio Merlino. Dall’anarchismo socialista al socialismo liberale, Angeli 1993, Un’idea esagerata di libertà, Elèuthera 1994 e Il Pensiero Anarchico dal Settecento al Novecento, Lacaita 1998), ha portato recentemente a termine quella che può essere considerata la biografia «definitiva» di Malatesta (Errico Malatesta e il movimento anarchico italiano e internazionale. 1872-1932, Angeli 2003), ricostruendo compiutamente, in più di 800 pagine, la vita e il pensiero del «più grande rivoluzionario» italiano.
Dialogando con l’autore, abbiamo cercato di ripercorrere la complessità e il valore di questo importantissimo volume.

M. O.

Una biografia che mancava

Di biografie di Malatesta già ne esistevano molte, quelle di Max Nettlau, di Luigi Fabbri, di Armando Borghi. Inoltre, negli anni, sono stati pubblicati altri studi che affrontavano aspetti più o meno complessivi del suo pensiero e della sua esperienza di lotta. Perché, dunque, questo libro su Malatesta?

Prima di tutto per la banale ragione che mancava, che ancora non c’era. Non c’era assolutamente nulla dal punto di vista di una storiografia scientifica che potesse essere all’altezza delle aspettative di un lettore medio. Infatti siamo fermi a biografie come quella di Luigi Fabbri, che risale a circa settant’anni fa. E anche se questa è per certi versi essenziale, perché avendo Fabbri frequentato a lungo Malatesta, poteva parlare di una esperienza personalmente vissuta, non ha però il carattere di un’opera storiograficamente scientifica. E poi perché Malatesta è stato indubbiamente il più grande rivoluzionario italiano, forse europeo, fra l’Otto e il Novecento, e ricostruire la sua vita significa ricostruire la vita del movimento anarchico italiano e internazionale.

Un’opera così complessa, e completa, ha senza dubbio richiesto un notevole lavoro di documentazione. Quali sono state le fonti che hai maggiormente utilizzato?

Seguendo lo schema consueto e storiograficamente tradizionale, ho utilizzato tutte le fonti disponibili, sia di carattere archivistico che bibliografico, e non è certo stato un lavoro facile. Malatesta infatti ha avuto una vita eccezionale, fatta di sessant’anni di storia del movimento operaio e socialista e di esperienze politiche e sociali diverse in moltissimi paesi, quindi ho dovuto seguirne le tracce un po’ ovunque, utilizzando le fonti archivistiche non solo italiane, ma anche francesi e svizzere, senza dimenticare gli importantissimi fondi dell’IISG di Amsterdam. A questo va aggiunto lo spoglio dei giornali e degli opuscoli, e così, incrociando tutto questo materiale, ho potuto ricostruire la storia di Malatesta.

Perché tu hai scritto il libro su Malatesta e perché sul movimento anarchico italiano e internazionale?

Malatesta è stato un personaggio assolutamente fuori dal comune, non paragonabile a nessun altro. A differenza di altri esponenti dell’anarchismo, come ad esempio Francesco Saverio Merlino (solo una parte della sua vita, la prima, si incrocia con quella del movimento anarchico italiano e internazionale) non si può scriverne la biografia prescindendo dal contesto italiano e internazionale in cui si muove, quindi il titolo del libro diventa obbligato. Perché «io» ho scritto questo libro? Finora mi ero occupato più del pensiero anarchico, e infatti la biografia di Merlino era sostanzialmente una biografia intellettuale, mentre Un’idea esagerata di libertà e Il Pensiero Anarchico dal Settecento al Novecento riguardano la storia delle idee. Qui invece ho voluto affrontare Malatesta fino in fondo, come dire «la carne e il sangue» dell’anarchismo, nel senso di un’idea che si fa storia, movimento. E anche se altri anarchici hanno avuto questa dimensione, nessuno è più rappresentativo di Malatesta. Si pensi a Bakunin, che è considerato il fondatore dell’anarchismo; ebbene, lui è stato anarchico per soli 10-12 anni, da quando, fuggito dalla Russia, arrivò in Italia, nel 1863-64, fino al 1876. Prima era rivoluzionario ma non anarchico. E anche Kropotkin ha fatto attività rivoluzionaria anarchica, di pensiero ed azione, solo dal 1872, la prima volta che venne in Europa, e fino al 1883 e al processo di Lione. Quando va in Inghilterra, nel 1886, ha ancora un pensiero rivoluzionario, ma passa trent’anni a Brighton a fare il naturalista e il geografo. E lo stesso Reclus ha fatto il rivoluzionario durante la Comune di Parigi, ma dopo? Chi è stato rivoluzionario tutta la vita? Solo Malatesta, e non per 10 anni ma per 60, basti pensare che conosce Bakunin nel 1872 e muore al tempo di Alida Valli e dei telefoni bianchi, in pieno fascismo. È uno stato di servizio eccezionale che nessun anarchico, nessun altro rivoluzionario, nessun uomo d’azione del movimento operaio e socialista può esibire.

In effetti dal libro emerge chiaramente che il percorso di vita e di lotta di Malatesta è al tempo stesso il percorso di vita e di lotta del movimento anarchico. C’è una identificazione completa, e Malatesta dà un’impronta di sé a un movimento che non sarebbe stato e non sarebbe quello che è senza di lui.

Senza dubbio. Malatesta esprime una grande modernità perché pur mantenendo una salda radice materialistica, spezza e abbandona il determinismo positivistico ed evoluzionistico, immettendovi una idea forte di volontà, e quindi di eticità. Facendo così del movimento anarchico italiano qualcosa di molto diverso da quello francese, che oscilla fra una concezione partitica e una spontaneistica. Al contrario, la sintesi equilibrata fra volontarismo, spontaneismo e concezione scientifica della realtà, tipica del movimento italiano, è dovuta a Malatesta. In questo senso il movimento anarchico italiano, anche se Malatesta è stato per lunghi periodi fuori dall’Italia, è modellato sul suo pensiero e sulla sua azione.

Un altro elemento che esce con forza dalle tue pagine è la qualità di vita di Malatesta. La sua, infatti, è una vita straordinaria, non solo per l’attività svolta, ma anche per la grande dignità che l’ha sempre caratterizzata. Tu lo definisci il vero grande rivoluzionario. Spiegami come puoi arrivare a questa definizione, dato che nella storia italiana ed europea di grandi rivoluzionari ce ne sono stati molti. Forse perché in loro vita pubblica e privata non hanno coinciso, a differenza che in Malatesta?

Malatesta è l’anarchico integrale, che vive in coerenza assoluta fino alla fine. E la profonda radice etica di questa coerenza è quella mazziniana, unire cioè pensiero e azione e modellare la propria vita al servizio di questa idea. In tal senso Malatesta è un rivoluzionario di professione, ma anomalo, perché a differenza di altri rivoluzionari di professione che vivevano, quasi tutti, facendo i pubblicisti, i giornalisti o gli intellettuali (basti pensare a Lenin, a Costa e, in campo anarchico, a Galleani, Fabbri, Gori), Malatesta è l’unico che vive facendo un lavoro manuale, guadagnandosi così, presso i compagni, una grande forza e autorevolezza morale. Il punto fondamentale è che, pur essendo un grande pensatore, non concepiva minimamente il pensiero staccato dall’azione, e questo spiega la sua capacità di affrontare costantemente la realtà.

 

Grandezza morale

Nonostante che nel corso della sua lunghissima esperienza rivoluzionaria l’elaborazione teorica di Malatesta sia in continua evoluzione, l’aspetto etico e morale non cambiano mai. È forse questa la sua qualità maggiore?

Indubbiamente. La grandezza dell’uomo è dovuta alla statura morale. Questo spiega anche perché non esista una documentazione sufficientemente chiara che faccia luce sulla sua vita privata. Io ho tentato di dire qualcosa parlando dell’esilio londinese, ma espongo i risultati in modo problematico, perché non possiamo avere la certezza che quanto si diceva della sua vita privata fosse effettivamente ciò che era. Personalmente propendo a crederlo, ma non completamente, solo in parte, e quindi lascio un margine di dubbio: lui non ha lasciato scritto niente al proposito e nemmeno i suoi biografi e i compagni che l’hanno conosciuto hanno detto qualcosa, quindi come possiamo fidarci delle fonti di polizia, che potrebbero dire solo una parte di verità? Quanto invece emerge chiaramente è che l’aver avuto una vita così privata testimonia che a questa ha lasciato uno spazio talmente poco rilevante da non condizionare quella di militante. È veramente un uomo votato a una missione totale.

Tutto questo effettivamente trova un grande risalto nel tuo libro, non solo la sua integrità, ma anche la capacità di dare un significato profondo all’esistenza. E al tempo stesso di trascinare le masse, di esercitare su di loro un grandissimo ascendente. E non solo sugli anarchici, ma anche sui militanti di altri partiti.

Negli anni novanta, per fare esempio, Malatesta ha grande influenza fra i portuali londinesi, e un italiano che avesse ascendente su lavoratori inglesi era davvero un fatto eccezionale. Purtroppo non abbiamo molta documentazione al riguardo ma le descrizioni fatte dall’ambasciatore a Londra sono significative. Questo era possibile perché viveva fra questa gente, non giungeva da fuori, ne era parte organica.

Lo stesso si può dire a proposito della Settimana rossa, quando esplose – come tu evidenzi – laddove Malatesta aveva predicato nei mesi precedenti. Se infatti si segnano su una cartina geografica le località dove aveva parlato (e tu le citi per intero in un elenco puntiglioso e completo) balza agli occhi che sono le stesse dove la Settimana rossa prese fuoco. Questa efficacia nell’influenzare tutti i sovversivi, e non solo gli anarchici, mi sembra uno dei motivi per cui, se si eccettuano forse gli ultimi anni, Malatesta parlerà sempre di fronte unico, o meglio della necessità di allearsi con i repubblicani, i socialisti rivoluzionari e le altre forze politiche.

È un’idea che ha sempre avuto. Risale già agli anni novanta, poi l’ha modellata, articolata, perfezionata. Capiva che gli anarchici non avrebbero potuto fare la rivoluzione da soli e quindi ci si doveva alleare con altre forze. Fatta la rivoluzione, vi fosse poi campo libero, perché tutti potessero propalare le proprie idee.

Dal 1900, per molti anni, se si escludono alcuni rari interventi come quello al Congresso anarchico internazionale di Amsterdam del 1907, Malatesta rimane sostanzialmente assente e silenzioso, tanto che questo suo comportamento preoccupa, e non poco, Fabbri e gli altri anarchici italiani. Che interpretazione dai di questo comportamento così anomalo per un uomo d’azione come Malatesta?

Premetto che la mia è solo una supposizione, una deduzione che non si basa su alcun documento, anche se tutto conduce a questo. Parto dall’ipotesi che, in una certa misura, Malatesta avesse a che fare con l’attentato di Bresci, che quasi sicuramente sapesse che Bresci avrebbe cercato di uccidere Umberto. Bresci ha avuto sicuramente dei complici e questo è assodato, è già stato dimostrato da altri che hanno ricostruito le sue mosse. Comunque non intendo «complici» in senso stretto, vale a dire compagni che sapevano, contribuivano e concorrevano all’azione, ma altri anarchici che si sono trovati a dare una mano nell’impresa. Non parlo quindi di impresa collettiva, perché questa rimane, a tutti gli effetti, un’impresa individuale, sia in termini ideologici che fattuali. Sono convinto che anche Malatesta sapesse e lo si capisce quando parla di Bresci come di un amico intimo, di quello che a Paterson gli salva la vita perché fa deviare il proiettile sparatogli contro. Veniamo allora al silenzio di Malatesta. Malatesta sbaglia (anche lui ha fatto errori ma questo forse è il più grave, comunque non è che, diversamente, avrebbe potuto modificare il corso della storia) perché si illude che l’attentato scateni una forte reazione in grado di innescare una insurrezione popolare, e per due o tre anni resta fermo su questa convinzione. Solo attorno al 1903-1904 capisce, si rende conto del suo errore di valutazione. In effetti mentre nel 1898, dopo i moti milanesi, poteva pensare che la polveriera stesse per scoppiare, ed era quindi legittimo nutrire questa convinzione, ora, allorché vede che nulla si muove, cade in una sorta di depressione. Malatesta infatti, pur abitando a Londra, andava spesso a Parigi, anche tre o quattro volte l’anno, e lì si incontrava con gli esuli anarchici italiani che erano in contatto con l’Italia più di quelli che risiedevano in Inghilterra. E sentendo il polso della situazione per nulla promettente, si costringe all’inazione, e questa inazione forzata lo spinge a una forte depressione (qui troviamo ancora il mazziniano, l’uomo d’azione, portato a intendere, in un certo senso, l’insurrezione come «colpo di mano») per cui nemmeno scrive, perché a differenza di Fabbri, non riteneva che in quella situazione avesse una qualche importanza. Se guardiamo quanto ha pubblicato Malatesta in questo periodo, vediamo che sono tutte cose uscite precedentemente, che di nuovo c’è ben poco, l’intervento ad Amsterdam e poco altro. In questi anni quel poco che scrive o fa lo aveva già scritto in precedenza. Quando invece sente che l’aria comincia a cambiare, dopo il settembre del 1911 e la guerra di Libia, allora scalpita e si dà da fare per tornare, anche se poi riesce a rientrare solo nel 1913.

 

Cambiamento di rapporti

Sono gli anni in cui il giolittismo getta la maschera, dunque, visto che nel primo decennio, dopo la morte di Umberto «si aprono i cordoni» al movimento. Se non ricordo male affermi che Malatesta non comprende che con Giolitti cambiano i rapporti tra governo e governati, ma forse questa incomprensione è dovuta anche al fatto che si succedono scontri di piazza con decine, se non centinaia, di morti.

Indubbiamente il riformismo giolittiano è un riformismo machiavellico come tutti i riformismi, ma i cosiddetti eccidi proletari non sono il frutto della repressione, ma piuttosto il contraccolpo di una liberalizzazione. Mi spiego. Con la liberalizzazione, e il maggior spazio concesso alla attività sindacale (la politica di Giolitti era di non intromettersi nel rapporto tra lavoratori e capitale), le prime organizzazioni di resistenza hanno un margine d’azione più ampio e questo significa che possono scendere in piazza, che la polizia reprime più di prima e ci sono i morti, ma i morti non sono dovuti a una precostituita volontà di reprimere, ma al contraccolpo dovuto a questa liberalizzazione. Sotto Crispi e le leggi speciali, le masse non avrebbero nemmeno potuto manifestare e quindi, paradossalmente, non ci sarebbero stati neppure i morti.

Torniamo a Malatesta. Finalmente nel 1913 riesce a rientrare e poco dopo scoppia la Settimana rossa.

Certo, e la fa scoppiare lui. Il più grande tentativo rivoluzionario verificatosi in Italia è dovuto all’azione di Malatesta. In sei mesi è riuscito a costruire un movimento e, se ha compiuto un errore, questo è dovuto alla sua troppa bravura, al non aver fatto le cose con più calma. Senza considerare, poi, che lo scoppio della guerra, poco dopo, avrebbe fortemente spiazzato tutto il movimento anarchico. Senza la guerra, invece, la Settimana rossa sarebbe stata seguita da altri movimenti insurrezionali, perché Malatesta aveva davvero messo in moto qualcosa di rivoluzionario, difficile da fermare.

Dopo la guerra comunque c’è il biennio rosso e l’occupazione delle fabbriche e il ruolo e l’attività di Malatesta sono nuovamente determinanti.

Sì, però è la situazione che cambia. Durante la Settimana rossa il principale protagonista, la punta di diamante, chi trascina l’elemento sovversivo è il movimento anarchico, seguito dai repubblicani, mentre i socialisti fanno ben poco, a parte alcuni sindacalisti e i massimalisti (si ricordi, comunque, che è il massimalista Serrati a proclamare la cessazione dello sciopero da Venezia). Dopo la guerra non è più così, la punta di diamante non è il movimento anarchico e nemmeno quello socialista: chi trascina il movimento è qualcosa all’esterno, che si chiama rivoluzione bolscevica. Dopo il ’17 tutto il movimento sovversivo ha il problema di confrontarsi con la rivoluzione russa e anche se gli anarchici non sono mai stati così importanti, incisivi e numerosi come nel biennio rosso, raggiungendo il punto più alto del proprio sviluppo (si pensi alla fondazione dell’Unione anarchica italiana e alla pubblicazione del quotidiano «Umanità Nova»), però non sono più i maggiori protagonisti, perché ora ci sono i comunisti e tutto è cambiato. Inoltre si parla del biennio rosso come di una grande situazione rivoluzionaria, ma in realtà la vera situazione rivoluzionaria si era verificata nel 1919 perché successivamente si va da una situazione di empasse all’altra e l’apice è l’occupazione delle fabbriche che in realtà rappresenta il fallimento del biennio rosso. Se vuoi fare la rivoluzione devi distruggere il potere, cosa che non si ottiene occupando le fabbriche. E difatti, una volta occupate le fabbriche, ci sono rimasti chiusi dentro un mese, ma poi sono dovuti uscire. Il vero atto rivoluzionario è occupare la questura, le poste, le caserme, la prefettura, in modo che non ci sia più il prefetto a diramare gli ordini.

Questo, però, può essere interpretato come un «colpo di mano», ben differente dalla lotta di massa. In Russia hanno occupato il Parlamento, ma hanno occupato anche le fabbriche. Forse vanno fatte entrambe le cose.

Sì, però devi prendere i centri del potere, altrimenti non fai la rivoluzione. Questo potrebbe sembrare un retaggio giacobino, ma gli anarchici la volevano fare o no, la rivoluzione? Comunque Malatesta non era certamente un giacobino, lui, a differenza dei giacobini, non vuole occupare, ma distruggere i centri del potere.

Malatesta a volte fa errori di valutazione, ma più spesso è preveggente. A proposito della rivoluzione russa, tu ricordi una sua «profezia», quando prefigura la fine che faranno non solo la rivoluzione russa ma i suoi dirigenti. Non c’è ancora Stalin, ma lui già prevede che ci sarà uno Stalin, e che questo Stalin ucciderà Trotsky.

È davvero una profezia straordinaria, che dimostra la sua capacità di comprendere dove avrebbe inevitabilmente condotto la via autoritaria al socialismo.

Tu individui tre fasi fondamentali nella evoluzione del suo pensiero, al cui interno però permangono sempre alcuni principi fondamentali, quali la coerenza tra mezzi e fini, la concezione volontaristica della rivoluzione, il laicismo visto come antitesi rispetto al fideismo. E dimostri che la sua lucidità si esprimeva nell’apprezzamento delle differenze e nella comprensione della loro necessità. Questo si riscontra anche nell’elaborazione teorica dell’anarchismo. Tanto che mi sembra davvero la parabola del movimento.

Il primo periodo è quello che si chiude nel 1884, quando Malatesta è ancora immerso in una sorta di positivismo fortemente influenzato dal marxismo. Il secondo è il periodo che nasce con «L’Agitazione», e nel quale maturano i concetti del volontarismo, del socialismo anarchico, dell’etica come coerenza tra mezzi e fini, della libertà intesa come entità laica. Il terzo periodo parte dal 1922-1924 e può essere definito come quello del gradualismo. È importante osservare che, mentre nel periodo centrale, che va dal 1897 al 1914, pur essendosi emancipato dal positivismo, non ha ancora formulato chiaramente questi concetti, è solo nell’ultimo periodo che si verifica il distacco completo dal positivismo e dal determinismo. Tutto diventa più chiaro soprattutto quando ha queste intuizioni formidabili sul ruolo della scienza. È eccezionale se si pensa che nessuno diceva quello che diceva Malatesta sulla scienza, ad esempio che questa non può rispondere alle domande ultime della vita. E lo dice in un famoso articolo apparso su «Volontà» nel 1913, una critica radicale alla scienza e alla valutabilità della scienza. Se la scienza non può produrre né bene né male e la conoscenza scientifica è solo un mezzo, a sua volta anche la concezione anarchica non è «scientifica»: l’anarchia è qualcosa che verrà se si vorrà farla, è una eterna possibilità ma non insita nello sviluppo della storia, è una possibilità latente della civiltà umana, ma non un suo esito ineluttabile.

 

“O facite, o vi futtite”

Mi sembra che lui lo sintetizzi splendidamente quando, rivolto ai contadini del Matese, li apostrofa così: «I fucili e le scuri ve li avimo dato, i curtelli li avite. Se volete facite, e se no vi futtite». A tuo parere questo è uno dei momenti fondamentali della consapevolezza di Malatesta su come affrontare il problema rivoluzionario.

Certo, quando comprende che le minoranze possono rompere una situazione, ma non costruirla, perché questo possono farlo solo le masse. È come una minoranza che entra in una prigione e apre le porte, ma non può poi costringere i detenuti ad uscire.

Tornando alle tre fasi evolutive di cui stavamo parlando, ci sono cesure fra queste oppure c’è un unico filo che le lega?

C’è la cesura alla fine degli anni novanta, quando si rende conto che la rivoluzione non può essere fatta da quattro gatti, ma deve essere un’impresa collettiva. E che come tale va contestualizzata in un determinato spazio e in un determinato tempo, e tu non puoi determinarli astrattamente, ma devi calartici e fartene pervadere. In questo senso è tra i primi a concretizzare l’incontro con il sindacalismo, e lo stesso Pelloutier riconoscerà che gli spunti fondamentali gli erano stati dati nel 1893 da Malatesta assieme a Merlino.

E quando questa elaborazione arriva a completa evoluzione, il problema della organizzazione diventa centrale.

Se analizziamo il Patto associativo della Unione anarchica italiana, scritto da Fabbri nel 1920, ma in effetti ispirato da Malatesta, vediamo che è di grandissima modernità, perché vi troviamo il massimo concetto di organizzazione compatibile con il massimo concetto di libertà individuale e collettiva. Questo è il punto più alto dello sforzo, perché prefigura un equilibrio che definirei addirittura artistico. È davvero eccezionale e vi è condensato tutto il pensiero di Malatesta: l’organizzazione è indispensabile, ma solo se piegata al fine e non il fine piegato all’organizzazione. Questa è la chiave di volta per capirne la modernità.

Quindi cesure da un punto di vista tattico e strategico, ma non da un punto di vista etico.

Lui rimane sempre contro la storia. Fino alla fine. Tutte le forme storiche mutano e bisogna avere la consapevolezza di questo mutamento, ma questo non deve condizionare i nostri fini. Noi dobbiamo prendere questi fini e relazionarli alle diverse circostanze, ma senza mutarli.

Il momento centrale è sempre la volontà che determina l’etica. In questo si differenzia da tutti gli altri.

Certo. Per questo è il più grande rivoluzionario, ma anche come statura intellettuale, perché lui riusciva a vedere oltre anche grazie alla sua esperienza di vita. Uno che è stato in tutto il mondo, in America latina e in America del nord, in Inghilterra e in Francia, in Spagna e in Olanda, ma chi altri? Turati, oltre Milano, cosa aveva visto? E Costa, a parte un pezzo di Francia? Tieni poi presente che, purtroppo, il mio lavoro riporta alla luce solo un 20% di quello che ha fatto Malatesta, mentre il resto è sommerso in una coltre coperta dal tempo e che nessuno potrà più ricostruire. Ad esempio, non sappiamo nulla dei tentativi che non sono andati a buon fine, ma questo non significa che, per il fatto che non siano andati a buon fine, siano da considerare degli aborti. Non possiamo sapere se e cosa hanno effettivamente provocato, conosciamo solo gli effetti, e può essere che non sappiamo quale sia stata la vera causa che li ha generati.

Quali sono gli aspetti più importanti del pensiero malatestiano, della sua elaborazione teorica, come della sua riflessione intellettuale?

La cosa più importante consiste nell’aver scisso l’etica dalla conoscenza scientifica, affermando così che l’etica non ha un fondamento oggettivo. Poi c’è la critica del positivismo e dello scientismo, e la grande lucidità nel capire che nella storia umana non contano i rapporti di forza, ma quelli esistenziali. E che le costruzioni razionali del mondo non hanno fondamento, perché il mondo si muove non per cause razionali, ma esistenziali. Qui Malatesta ha una lucidità davvero spaventosa, perché comprende che, cambiando i rapporti di forza, cambiano anche le visioni razionali della vita e della storia. Questo nella pratica, lo porta a pensare che gran parte delle diatribe di carattere ideologico in fondo sono fasulle, perché sui problemi veri ci si trova uniti e, se si guarda alla sostanza, la realtà impone un approccio esistenziale che immediatamente risolve le fumisterie di carattere ideologico.

Questo si riflette anche nel fatto che Malatesta, pur essendo un grande realista, non è mai per la Realpolitik.

Eh, no, perché altrimenti sarebbe per il compromesso. Lui è invece realista, e questo realismo è al tempo stesso la sua forza e la sua debolezza, perché determina anche continue sconfitte: sarebbe infatti facile vincere inseguendo la Realpolitik, ma così piegheresti il fine che ti sei proposto, scardinando in tal modo la necessarietà della coerenza. A lui interessava creare una situazione rivoluzionaria, pensava che fosse necessario che tutte le forze sovversive potessero manifestare i propri progetti, ed era sicuro che, poiché il movimento anarchico è il più razionale e universale, in una libera concorrenza di idee avrebbe vinto lui. In questo senso possiamo dire che in lui c’era una forte matrice illuminista.

Si parla del gradualismo rivoluzionario, riformatore, del senso della sperimentazione.

Il gradualismo non è riformismo, perché questo è un accomodamento con la realtà, mentre lui vuole fare la rivoluzione. Solo che la rivoluzione e la costruzione della società futura non possono essere fatte dalla sera alla mattina, ma devono passare attraverso la libera sperimentazione. Il suo è un atteggiamento laico, perché non prevede nessuna formula, né il comunismo, né il socialismo, né il mutualismo. Sarà la realtà a dire come andranno le cose. In questo senso, il suo è un pluralismo sperimentatore.

 

Non dogmatico

Questo concetto della sperimentazione, che è alla base del suo laicismo, questa capacità di prefigurare varie possibilità di realizzazione dell’anarchia, tutto questo forse spiega come si sia potuto far comprendere ovunque. E lo dimostra la sua fortuna editoriale, con le innumerevoli traduzioni delle sue opere. Secondo alcuni calcoli, solo in Italia sarebbero state tirate circa 300.000 copie del Fra Contadini e, contando le traduzioni estere, ci si avvicina al milione. Questo ci parla della sua universalità, fatta di laicismo ideologico e di aderenza del suo pensiero alle situazioni reali. In sessanta anni di attività rivoluzionaria, Malatesta viene a confrontarsi con tutti i problemi inerenti all’essenza dei movimenti rivoluzionari, sia etici che politici, sia strategici che tattici. Tra questi, tra i più importanti, il rapporto tra democrazia e dittatura, il problema dell’insurrezionalismo, quello della violenza. Nel confrontarsi con questi, a volte, offre risposte differenti.

Non essendo un dogmatico, le circostanze hanno molta importanza, quindi anche le risposte possono non essere sempre uguali. La violenza è una dolorosa necessità e un rivoluzionario non può rifiutarla per principio, però bisogna che ce ne sia sempre il meno possibile. Ecco perché dice che bisogna usare tutta la violenza necessaria subito, così da non doverla usare dopo, e che deve essere intesa solo come la risposta all’offesa altrui, e non come violenza pura. Anche rispetto al problema delle concezioni ideologiche, comunismo, collettivismo, individualismo, ecc., Malatesta non li considera problemi essenziali perché sono solo formulazioni ideologiche.

A un certo punto però passa definitivamente dal collettivismo al comunismo.

Certo, ritiene che il comunismo sia la soluzione migliore, però non dice mai che è l’ultima parola, perché alla fine quello che veramente interessa agli anarchici è la libertà.

Se, in quella prima fase di cui parlavamo, le sue posizioni potevano apparire, non dico settarie, ma molto interne al movimento e rigide rispetto al dialogo con una realtà più ampia, progressivamente, e soprattutto nella terza fase, diventa più possibilista, più disposto ad accettare e accentuare il gradualismo. Questa sua parabola mi sembra la stessa del movimento anarchico.

E qui si inserisce il problema del fascismo e la comprensione di quel fenomeno. Nel mio libro affermo che, soprattutto agli inizi, Malatesta non si rende conto della «originalità» del fascismo (e in questo si trova in buona compagnia, con Gramsci, Togliatti, Nenni, Salvemini...), del suo carattere totalitario. Ma quando, tra il 1924 e il 1926, subisce direttamente la dittatura e gli viene impedito qualsiasi movimento, quando avverte lo smantellamento dello stato liberale, allora comprende l’importanza del suo retaggio storico. Questo è il maggiore contraccolpo del fascismo sul pensiero di Malatesta, che si riflette anche in quelle considerazioni su democrazia e dittatura che, una ventina di anni prima, erano state al centro della sua polemica con Merlino. Ora non dice più che la democrazia è uguale alla dittatura, ma piuttosto che gli anarchici non sono democratici, e questo è ben differente.

Quindi, probabilmente, se la polemica con Merlino fosse stata fatta in altri momenti, per certi versi avrebbe detto molte delle cose dette da Merlino?

Indubbiamente, ma questo non toglie nulla alla sua eticità rivoluzionaria, perché avrebbe riaffermato anche le sue convinzioni. Ciò su cui si deve intervenire, che bisogna rimettere a posto, è l’apparato dei mezzi, non quello dei fini. Non bisogna mai, infatti, intaccare i fini, perché questi non dipendono dalla circostanza. Qui sta la grandezza, ma anche la drammaticità, del pensiero di Malatesta. Un lettore superficiale potrebbe pensare che fosse un idealista, mentre lui è un materialista, ma drammatico, e proprio perché é un materialista, non può fondare gli ideali nella circostanza materiale. È questo il punto più alto della riflessione di Malatesta.

Un altro aspetto fondamentale del lavoro e dell’attività di Malatesta è la comprensione della dimensione sociale dell’anarchismo rivoluzionario. Sappiamo che in più momenti, nella storia dell’anarchismo, si incontrano una dimensione filosofica avulsa dalla realtà o una individualista di carattere asociale, e con queste tendenze Malatesta ha dovuto polemizzare per anni e anni.

Basti pensare a tutto il tempo che Malatesta ha perso con gli individualisti. Parlare della mancanza di una dimensione sociale sarebbe come chiedersi se possiamo fare a meno dell’aria. Questa è un’ipotesi che, ovviamente, non può neppure essere messa in discussione, eppure Malatesta doveva dibattere anche con chi voleva togliere l’aria. La sua dimensione della socialità, comunque, è intesa nella sua complessità, nel fatto che l’uomo è un essere complesso e quindi, essendo complesso, è anche un essere sociale. Anche con una dimensione individualistica, se vogliamo, comunque sempre sociale, perché non puoi toglierlo dal suo contesto.

Descrivendo i testi propagandistici e divulgativi di Malatesta, Al caffè, Fra contadini e L’Anarchia, che definisci il grande trittico di questo rivoluzionario, tu parli di metodo socratico, di un metodo dialogico e pedagogico.

Questo è molto evidente sia in Fra contadini sia in Al caffè. Cosa si intende per metodo socratico? Dare la possibilità all’interlocutore di giungere in modo autonomo alla «verità» senza imporgli dogmaticamente dei principi, ma aprendogli tutte le possibilità. Vediamo come si svolge. Malatesta fa dire a un interlocutore: tu fai questa affermazione; bene, questa a sua volta implica tot possibilità e allora le vai a esaminare, e ognuna di queste ne implica altre ancora; e vai a vedere anche queste e si va avanti così finché, di deduzione in deduzione, si arriva a una conclusione. Questo è veramente un metodo socratico!


Dalla Bulgaria all’Argentina

E in questa complessità, riesce sempre a conservare una straordinaria semplicità espositiva.

E come spiegheresti, altrimenti, che Fra contadini venga letto dalla Bulgaria all’Argentina? È talmente universale e geniale quel dialogo! E guarda anche Al caffè, dove i personaggi sono il repubblicano, il conservatore, il rivoluzionario, il socialista, l’anarchico e così via. Attraverso gli attori rappresenta tutti i movimenti.

Veniamo ora a quella che forse è la sua opera «definitiva», il Programma anarchico, scritto a cavallo del secolo e poi riveduto, fino alla stesura conclusiva, discussa e accettata al Congresso dell’UAI del 1920. La sua accettazione, tra l’altro, è ancora il presupposto per l’adesione alla FAI. È ancora valido, e credi anche che Malatesta lo riscriverebbe uguale?

A mio parere è ancora più che valido. Al massimo potrebbe essere ritoccato qua e là, ma i punti restano quelli, i fini restano quelli, cosa potresti dire di più? Quando ad esempio parla di «Organizzazione della vita sociale per opera di libere associazioni e federazioni, fatte e modificate secondo la volontà dei componenti, guidati dalla scienza e dall’esperienza e liberi da ogni imposizione che non derivi dalle necessità naturali, a cui ognuno, vinto dal sentimento stesso della necessità ineluttabile, volontariamente si sottomette». Questo cosa vuol dire? Che è inutile che discutiamo perché la circostanza impone la consapevolezza del principio di realtà. Ad esempio, se noi cerchiamo di realizzare un progetto, possiamo ovviamente discutere su come farlo andare avanti, ma se ci scontriamo con un fatto oggettivo, allora dobbiamo sottometterci a un qualcosa che non si può determinare. Quindi la libertà è in rapporto con questa necessità naturale, ma quel «fatte e modificate» sta a significare che nulla è definitivo. È tutto in tre parole. E anche quando parla della famiglia! «Ricostruzione della famiglia in quel modo che risulterà dalla pratica del libero amore da ogni vincolo legale, da ogni oppressione economica o fisica, da ogni pregiudizio religioso». Lui non è per l’abolizione della famiglia, del nucleo famigliare, perché dice che è un’entità insuperabile.

Per concludere. Finora abbiamo parlato del Malatesta politico, dell’agitatore, del Malatesta pensatore e divulgatore dei principi anarchici. Un tuo giudizio umano su Malatesta.

Malatesta è il più grande rivoluzionario dei suoi tempi, questo è scontato. Ma, secondo me, per la sua levatura etica e morale, è anche uno dei più grandi uomini di questa epoca, alla pari con un Gandhi, un Tolstoj, con questi giganti dell’Otto e Novecento. E questa ormai sta diventando opinione comune anche fra storici di estrazione marxista. Proprio recentemente D’Orsi, recensendo il mio libro su «La Stampa», definisce Malatesta come uno dei più grandi protagonisti della scena antagonista del Novecento. Come si fa a negarne la grandezza? Certo, Bakunin ha inventato l’anarchismo, ma Malatesta è l’anarchico integrale e anche il più moderno, e il movimento anarchico e l’anarchismo sono impensabili senza di lui.

Massimo Ortalli

Errico Malatesta visto da Fabio Santin