rivista anarchica
anno 33 n. 295
dicembre 2003 - gennaio 2004


Medioriente

L’ombrello dell’ONU
di Antonio Cardella

Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU invita a finanziare e ad appoggiare con uomini e mezzi il comando americano nel dopoguerra iracheno. A fronte di tutto questo solo la promessa che in un futuro indefinito, il ruolo dell’ONU sarà «cruciale».

Se le cose stanno così…! È il refrain di una celebre canzone di Sergio Endrigo degli anni Sessanta. Se le cose stanno come stanno, è difficile che qualcuno capisca come stiano veramente. Ci riferiamo, naturalmente, alla situazione conseguente all’intervento americano in Iraq. Vediamo perché, a giudicare dagli ultimi avvenimenti, è diffusa la sensazione che una consistente parte di mondo sia andata fuori di testa.
Ma procediamo con ordine.
Dunque il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, nella travagliata seduta del 17 ottobre scorso, ha legittimato – così si è detto – l’avventura americana in Iraq. E già questa tardiva benedizione lascia molto perplessi. Nessuno, infatti, che abbia un minimo di attitudine alla razionalità, riuscirà mai a capacitarsi come può accadere che un’iniziativa, sino ad un certo giorno ritenuta perversa, avviata nel disprezzo più assoluto del diritto internazionale e con motivazioni palesemente false e reiterate, possa il giorno dopo rientrare nel novero degli eventi ormai accaduti e sui quali è inutile tornare a recriminare. Per la verità, nella forma, non è proprio così. Nella mozione, genericamente, si respinge il criterio della guerra preventiva, ma poi si passa a parlare subito d’altro, della necessità di ricostruire l’Iraq e di favorire la costituzione di un governo legittimo locale «al più presto possibile», con il concorso della comunità internazionale. Sui disastri provocati dalla guerra unilateralmente decisa e condotta dagli anglo-americani neppure una parola. Le migliaia di morti e feriti provocati dai bombardamenti aerei e dalle operazioni militari di terra tra la popolazione civile irachena, sono solo un tragico incidente di cui non val la pena parlare, così come non è il caso di parlare della destrutturazione quasi totale dei servizi essenziali per la sopravvivenza di un’intera nazione. Nulla di nulla.

Follia duratura

Ma la follia non finisce qui. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, all’unanimità, invita il consesso internazionale a finanziare e ad appoggiare con uomini e mezzi il comando americano nel difficilissimo dopoguerra iracheno, sanzionando che sia le risorse economiche che quelle umane eventualmente elargite dai governi sensibili all’appello siano affidate alla gestione americana, senza che alcuno possa in qualche modo intervenire, non foss’altro che per tutelare l’incolumità e il benessere delle proprie truppe. A fronte di tutto questo, neppure un ringraziamento, solo la promessa, ognuno valuti quanto rilevante, che, in un futuro indefinito, il ruolo dell’ONU sarà «cruciale»: per fare che non si capisce.
Io credo che se l’ONU avesse voluto veramente ribadire il proprio ripudio della guerra preventiva e della logica che ne costituisce il retroterra esplicito, avrebbe dovuto innanzitutto invitare gli americani a ritirarsi dall’Iraq in data certa e quanto più vicina possibile, riprendere in mano la gestione politica del dopo Saddam e convocare al più presto una conferenza internazionale, con la partecipazione delle varie etnie irachene, per progettare una ricostruzione del paese e organizzare elezioni politiche garantite dalla presenza di osservatori imparziali nominati dall’ONU stessa.
Se non ha proceduto in questa direzione o, almeno, non ha neppure tentato di farlo, di fatto, si è resa complice dell’invasore e ne ha legittimato l’operato.
Questa constatazione è tanto più vera ove si scorra l’intero testo della risoluzione, che, del resto, nel suo impianto complessivo, è opera dello staff del presidente Bush.
Già al paragrafo 1 l’ambiguità del testo non riesce a mascherare l’abdicazione alle tesi anglo-americane.
Vi si legge: «Il Consiglio riafferma la sovranità e l’integrità del territorio dell’Iraq e sottolinea la natura temporanea dell’esercizio della responsabilità da parte dell’Autorità provvisoria della Coalizione, che cesserà quando un governo rappresentativo e internazionalmente riconosciuto, stabilito dal popolo iracheno, avrà prestato giuramento» Si prosegue (par. 7) invitando l’attuale governo provvisorio a presentare entro il prossimo 15 dicembre il calendario per la stesura di una nuova costituzione e per la convocazione di elezioni democratiche. Tutto questo programma affidato, naturalmente, all’amministrazione «provvisoria» degli angloamericani e al governo da loro formato, inviso, come è sempre più evidente, all’intero popolo iracheno. Del resto, tutti sappiamo come gli americani sanno formare i governi nei paesi sui quali pretendono di instaurare e perpetuare il proprio dominio. Paradossalmente (ma, poi, non tanto) il governo di minoranza baathista di Saddam fu proprio formato con l’appoggio esplicito dell’amministrazione americana in funzione anti iraniana. Per non parlare dell’America Latina e del Sud-est asiatico. Ma ai paragrafi 13 e 15 si raggiunge il colmo quando si dice che «il Consiglio di Sicurezza autorizza una forza multinazionale a comando unificato per contribuire al mantenimento della sicurezza e della stabilità in Iraq …», omettendo, per pudore, di aggiungere all’aggettivo unificato l’altro aggettivo veramente qualificante angloamericano.

Ratificazione della forza

Nella sostanza, tutto il potere resta in mano americana, le elezione avverranno quando le potenze occupanti le avranno organizzate e l’ONU non ottiene alcun ruolo se non quello del tutto nominale della importanza della sua funzione.
È evidente, in tutto ciò che sinteticamente si è descritto, che la decadenza delle Nazioni Unite non si è tanto evidenziata quando ha dovuto subire la prepotenza americana nell’avviare la guerra contro l’Iraq: non aveva gli strumenti per opporvisi; ma proprio nel giorno in cui ha ratificato, con la risoluzione del 17 ottobre, la legittimità della forza nella risoluzione dei conflitti internazionali. Tutto, nel testo della risoluzione, evidenzia che l’uso della forza alla fine paga. Proprio l’opposto della funzione che i costituenti avevano affidato a questo organismo internazionale.
Ma il vero nodo che la risoluzione neppure menziona è quello dei veri beneficiari della ricostruzione del paese mediorientale. Se appena lo si fosse sfiorato, si sarebbe dovuto dichiarare esplicitamente che i soldi richiesti alla comunità internazionale finiranno nei bilanci delle grandi imprese americane alle quali sono già stati affidati gli appalti per le opere di costruzione e riattivazione delle infrastrutture principali dell’Iraq. Il sistema aeroportuale, gli impianti idrici, le centrali di produzione e la rete di distribuzione dell’energia elettrica, ma, soprattutto, gli imponenti lavori la riattivazione dei pozzi petroliferi e degli oleodotti sono già in mano di industrie quali la Bechtel, la Exxon e via dicendo.
Resta da capire perché Francia, Germania e Russia (per la Cina e la Siria il discorso è un altro e sarebbe riduttivo affrontarlo qui in poche righe), così irriducibilmente avverse alla guerra, abbiano alla fine accettato di votare a favore della risoluzione, che non rimuoveva nessuna delle riserve che avevano avanzate alla teoria della guerra preventiva e, nello specifico, all’invasione dell’Iraq.

Se le cose stanno così...

A mio modo di vedere, le principali ragioni sono tre.
La prima è la preoccupazione di rimanere emarginati dall’evoluzione di un’area, quella mediorientale, che avrà comunque un ruolo decisivo sul futuro dello sviluppo del continente europeo, e non soltanto per le risorse energetiche, da cui tutti questi paesi dipendono, ma per la posizione strategica che il Medioriente occupa rispetto al mondo asiatico.
La seconda ragione è che si attende di risolvere il problema delle concessioni petrolifere che il regime di Saddam aveva concesso principalmente a Francia e Russia (ma c’è anche l’AGIP), il cui esito dipenderà dagli umori del governo iracheno (provvisorio o no) che, come abbiamo visto, sarà praticamente condizionato dalla presenza americana.
La terza ragione è che i tre paesi fanno parte, a diverso titolo, dell’occidente industrializzato, ne condividono la dimensione economica e la interdipendenza. Bene o male, se la borsa di Wall Street ha il mal di pancia, le borse di Parigi e di Francoforte sono in preda alla dissenteria. Questo per dire che uno scontro frontale avrebbe certamente provocato un danno immediato all’amministrazione Bush, ma poi, se non si fosse deciso di radicalizzare lo scontro tra USA ed Europa, si sarebbe dovuto comunque arrivare ad un compromesso, e i costi sarebbero stati assai maggiori.
Nessuno di questi paesi, comunque, ha risposto all’appello di Kofi Annan: lo hanno detto più o meno esplicitamente: rimanendo le cose così come stanno, né un uomo né un euro saranno da loro destinati alla normalizzazione della ingarbugliata matassa irachena.
Sembra di sentire Rutelli o D’Alema o Castagnetti che certamente diranno sì al proseguimento della missione italiana, sentendosi coperti dall’ombrello dell’ONU. E di quale ombrello si tratti abbiamo tentato di spiegarlo in queste poche righe.

Antonio Cardella